UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 18 giugno 2019

Non considero quello che non ho, ma quello che ho.
La SLA e la tenace scrittura di Patrizia Pozzi
di Gabriele Scaramuzza

Patrizia Pozzi con le figlie
Patrizia Pozzi (Milano, 1956), già docente a contratto di Storia del Pensiero ebraico presso l’Università degli Studi di Milano, ha condotto le proprie ricerche su vari aspetti della filosofia di Spinoza pubblicando, tra l’altro, Visione e parola. Un’interpretazione del concetto spinoziano di scientia intuitiva, tra finito e infinito (Franco Angeli, Milano 2012); De vita solitaria: Petrarca e Spinoza (Mimesis, Milano 2017). Ha inoltre curato i «Quaderni Spinoziani», tra cui L’eresia della pace - Spinoza e Celan. Lingua, memoria, identità (ivi 2005). Nipote di Antonio Fanzel, deportato politico ucciso nel lager nazista di Mauthausen, ha svolto studi e ricerche sulla Resistenza e la deportazione, pubblicando anche il testo, scritto con Miuccia Gigante, Mai più lontani. Antifascismo e Resistenza visti con gli occhi di una bambina (2017).
B. Spinoza
        
Spinoza è il centro della vita spirituale di Patrizia, da lui si irradia non poco di quanto ha sostenuto e tuttora sostiene la sua vita. Che questo possa succedere è encomiabile ed esemplare, ed è di conforto per chiunque nella filosofia (nella ragione nel suo senso più ampio e alto), tante volte messa in scacco, tuttora, fino ai limiti della propria vita, confidi.             
Per parte mia alle notizie iniziali aggiungo (dato che segna uno dei momenti che mi ha reso più vicina Patrizia) che Patrizia ha curato Quintino Di Vona. Una vita per la libertà, edito da Mimesis nel 2009. 
Aggiungo quanto ci comunica Franco Sarcinelli: “Ricevo da Patrizia Pozzi, mia amica filosofa, da due anni con il corpo totalmente inerte per la Sla, tracheotomizzata e connessa a macchinari per respirare, unica parte funzionante la mente e gli occhi con i quali comanda un computer che le permette di scrivere e far girare mail come questa, una poesia di Nazim Hikmet e in allegato una stupenda immagine di una formella di Notre-Dame. Franco”. Riporto qui a complemento la autopresentazione di Patrizia Pozzi che Franco Sarcinelli ha trascritto per noi: "sono malata di Sla, immobile presso una struttura apposita di Merate, non parlo, non mangio, vivo grazie a macchine collegate al mio corpo inerte, posso scrivere con gli occhi grazie a una barra ottica, elettronica, connessa al computer... ma mi rimangono la luce degli occhi, la luce del cuore, la luce della mente e voglio usare questa luce finché posso per gli ideali che soli rendono l'umanità degna di questo nome..."

Formella di Notre Dame
La poesia di Nazim Hikmet dice non poco della sensibilità di Patrizia Pozzi, così come la formella di Notre Dame, e il quadro di Van Gogh, che riproduciamo sotto:

Finché c'è ancora tempo, mio amore
e prima che bruci Parigi
finché c'è ancora tempo, mio amore
finché il mio cuore è sul suo ramo
vorrei una notte di maggio
una di queste notti
sul lungosenna Voltaire
baciarti sulla bocca
e andando poi a Notre-Dame
contempleremmo il suo rosone
e a un tratto serrandoti a me
di gioia paura stupore
piangeresti silenziosamente
e le stelle piangerebbero
mischiate alla pioggia fine.


V. Vangogh

A testimonianza infine della sensibilità musicale di Patrizia includo il brano che segue: Patrizia Pozzi: Da Joe Cocker alla Pizia, o viceversa 
https://www.youtube.com/watch?v=3s-dSoDptVc
Vedere Joe Cocker mi conferma un pensiero: la musica come un modo di affrontare le malattie, in particolare una malattia come la SLA. Lui si muove come se il suo corpo fosse impregnato di musica, al di là della sua volontà. Quando ascolto musica che mi coinvolge io sento muovere dei nervi che per lo più sono silenti. Capisco che potremo affrontare una patologia cosi misteriosa e invalidante come la SLA solo recuperando una visione unitaria del corpo-mente. Io vorrei organizzare un incontro medici-filosofi -letterati-artisti-maestri di meditazione orientale per una prospettiva più ampia rispetto a quelle della medicina occidentale. Pensiamo a quando Freud capì di dover affrontare problemi psico-fisici attraverso il racconto, la parola, mettendo a fuoco la complessità del nostro esistere, la cui dimensione non si limita alla coscienza, ma è molto più ampia e articolata e si esprime attraverso linguaggi dalla semantica non immediatamente accessibile, ma da cercare, ricostruire, interpretare ricorrendo al piano simbolico, metaforico che dà luogo alle immagini dei sogni e permette al nostro inconscio di esprimersi. Ancora un linguaggio, una parola necessari al nostro esistere, che certamente vive una memoria a noi per lo più ignota. Attualmente siamo abituati all’idea di cercare aiuto attraverso il nostro narrare presso professionisti come psicologi o analisti e l’idea delle nostre parole rivelatrici del nostro io può sembrarci ovvia, banale, ma non è così. Anche nel caso di questa malattia, secondo me, non siamo di fronte ad un problema meramente organico (infatti da 150 anni rimane pressoché un mistero), ma si tratta di una manifestazione psico-fisica (come avviene in ogni malattia). Io credo che la parola possa molto: infatti questa malattia la preclude a mostrare come la prigione dello spirito debba avvenire in modo totale e radicale. D’altro canto, pensando ad espressioni chiave della cultura occidentale, il logos (pensiero, parola, calcolo) è al centro della filosofia greca e la creazione biblica avviene attraverso la parola, che dà luogo al mondo; inoltre, moltissimi riti e rituali avvengono attraverso parole e formule verbali appositamente organizzate che, uniche, ne garantirebbero l’efficacia.


Patrizia Pozzi: Comunicazione a tutti i miei amici
La malattia che da più di due anni mi affligge è stata diagnosticata come SLA. 
Dall'ottobre fino a dicembre 2017 sono stata ricoverata in rianimazione a Venezia (dove mi ero recata per un ciclo di fisioterapie, dopo 3 mesi al Don Gnocchi di Milano), a causa di una serie di infezioni (dalla polmonite alla setticemia) che mi hanno portata in punto di morte. Sono sopravvissuta per miracolo, grazie ai medici che mi hanno curata e si prendono cura di me e grazie all'amore delle mie figlie, ma la mia situazione è difficile: attualmente respiro collegata ad un ventilatore, mi nutro via PEG (ho un buco sia in gola che nella pancia, con i rispettivi tubi collegati ad apposite macchine), non mi muovo più (sono tetraplegica) e riesco a parlare (miracolosamente) solo per qualche istante e neppure ogni giorno. Scrivo al computer con gli occhi. Non posso essere assistita a casa e sono perciò ricoverata in un Centro apposito in provincia di Lecco, a Merate. Certamente, sarei stata la candidata perfetta per un lager nazista o per il castello di Hartheim, e per un forno crematorio, come avvenne a mio nonno, Antonio Fanzel, deportato politico ucciso a Mauthausen: aveva 35 anni e lasciava una moglie e cinque figli. Anch'egli, come milioni di esseri umani, passò per il camino: le fiamme che arsero i libri durante il regime nazista (il rogo più grande, ma non unico, a Berlino, il 10 maggio 1933) furono le fiamme che arsero nei forni crematori per cancellare chi era ritenuto indegno di vivere, anche i disabili, come me in questo momento della mia vita. E come tutti coloro che erano considerati estranei, stranieri riguardo all’ ‘ordine’ nazista: ebrei, oppositori politici, zingari, omosessuali, malati psichiatrici: anzi, i primi convogli che dall’Italia portarono deportati nei lager nazisti partirono nel maggio 1940 dalla struttura di Pergine Valsugana dove erano ricoverati malati psichiatrici, nell’ambito di un’operazione di presunta eutanasia chiamata Aktion T4, a cui aderì il governo fascista. A testimoniare la stretta connessione tra nazismo e sterminio nei lager, ricordiamo che oggi, 5 maggio, è l'anniversario della Liberazione del lager di Mauthausen, avvenuta il 5 maggio 1945 e che fino a quel giorno i forni crematori funzionarono pienamente per svolgere il loro macabro compito. Dopo la Liberazione di Mauthausen, l'8 maggio 1945 la Germania firmò la resa e finì così la Seconda guerra mondiale in Europa. La liberazione dei lager iniziò con Auschwitz, il 27 gennaio 1945.  
In questo momento, sto scrivendo tramite una barra ottica che trasforma il mio sguardo nei segni scritti di una tastiera. Tale barra è stata qui introdotta da un ammalato, geniale Web Master, che ha saputo trasformare ciò che nasce come un gioco in un ausilio fondamentale per ammalati come lui, come me. La nuova possibilità di vita che mi è stata permessa (mi davano per spacciata al 90%) passa anche dai libri che ho letto (o audiolibri, che ho ascoltato a valanga) e dai libri o saggi che posso scrivere. Infatti, sta per uscire presso Mimesis un mio libro su Spinoza, che ho concluso qui e che è ciò che di più antinazista si possa pensare. Il titolo è: Homo Homini Deus. L'ideale umano di Spinoza, correttocompletato e ampliato in questi mesi, con gli occhi e con l'aiuto di mia figlia Susanna.
Ecco tutto... tutto piuttosto difficile: eppure mi piace ancora vivere e desidero continuare a vivere. E desidero poter scrivere, discutere, lottare secondo gli ideali che guidavano mio nonno e che hanno sempre guidato anche me: questo è per me linfa vitale (allego il discorso per la Giornata della Memoria 2019 vd. infra). Non considero quello che non ho, ma quello che ho: e ringrazio i medici e il Cielo di poter avere ancora la luce degli occhi, del cuore, della mente.
Certamente, da ammalata sono stata indotta a pormi domande radicali. Nel luogo in cui vivo, le domande richiamano a piani fattuali: che cosa significa vivere? quando è accettabile vivere nonostante…? come si attiva l'unità corpo-spirito? Spesso le domande e le riflessioni si mettono a fuoco scrivendo o parlando a qualcuno: emerge così l'importanza del rapporto, dell’interrelazione per vivere la malattia non solo come problema, ma anche come occasione di riflessione e comprensione. E si capisce che l'affetto che ci viene rivolto vale, sempre e per tutti, quanto una medicina, per il nostro spirito e per il nostro corpo, secondo il rigoroso parallelismo spinoziano tra corpus e mens.


In generale, si potrebbe vedere la malattia come una radicale trasformazione della vita, non solo come via verso la morte. E la speranza è elemento vitale di ogni giorno, di ogni ora, di ogni attimo.
Vi auguro giorni felici
un abbraccio, con tanto affetto
Patrizia
  
Allego l'intervento che ho scritto quest'anno, da questo mio computer con la barra ottica, per la Giornata della Memoria a Cologno Monzese. Il melograno a cui alludo è stato posto nel 2005, con la lapide che ricorda i deportati della cittadina, tra cui mio nonno, Antonio Fanzel. Questo grazie al lavoro che svolsi in questo senso con l'ANED (Associazione Nazionale ex deportati), sezioni di Milano e Sesto san Giovanni.

Patrizia Pozzi: Intervento per la Giornata della Memoria 2019
Dal 2005, la Giornata della Memoria a Cologno ha il suo momento centrale dinanzi a questa lapide che ricorda i deportati di Cologno nei lager nazisti. La lapide è posta sotto un melograno, i cui frutti sono ricchi di significati simbolici, che possiamo sintetizzare in quello di ‘energia vitale’, ad indicare la vita che nacque dalla sofferenza e dalla morte di coloro che lottarono contro il nazifascismo: anche la nostra vita. Pertanto, il 27 gennaio, data che nel 1945 vide la liberazione di Auschwitz, non è solo un appuntamento istituzionale e generico riguardante fatti ormai lontani, di cui parlare con frasi di circostanza. La memoria di questa giornata si rivolge a tutti i milioni di deportati visti uno per uno nel loro dolore e nel dolore dei loro cari: i nomi qui indicati sono rappresentativi di tutti coloro che furono deportati, e non solo. Questi nomi, infatti, rappresentano tutte le vittime del nazifascismo, e anche i caduti, i perseguitati, i massacrati che purtroppo costellano la storia dell’umanità (dai nativi americani agli africani resi schiavi), poiché questi nomi testimoniano valori che ancora valgono e che si vogliono condividere unitariamente. Ideali come quelli di libertà, giustizia, solidarietà, accoglienza, reciproco aiuto tra tutti gli esseri umani indipendentemente dall’etnia, dalla provenienza, dalla religione, dalle condizioni di salute, dagli orientamenti sessuali e culturali, sono ideali pienamente attuali e il loro valore è etico, politico, pedagogico.
Il nazifascismo massacrò ebrei, oppositori politici, disabili, rom, testimoni di Geova, omosessuali distinguendo tra chi era degno di vivere e chi doveva essere eliminato. Per questo è causa di sofferenza vedere assegnati a formazioni che esplicitamente si richiamano al fascismo luoghi della città che portano in sé la memoria di chi al fascismo si oppose e per questo venne condannato alla deportazione e alla morte. Mi riferisco, ad esempio, a piazza Castello, angolo via Fontanile. Nella casa che precedeva le attuali costruzioni abitava mio nonno, Antonio Fanzel, deportato a 35 anni in quanto oppositore politico e ucciso a Mauthausen il 20 agosto 1944.  Il suo nome è inciso su questa lapide, come sulle lapidi dei monumenti ai deportati del Cimitero Monumentale di Milano e del Parco Nord di Sesto San Giovanni. Ma il suo strazio e quello della sua famiglia (di sua moglie e dei suoi cinque figli; la più piccola aveva allora due anni) iniziarono qui: e i luoghi sono costituiti dagli spazi, ma anche dal tempo, dalla storia, dagli eventi che li riguardano. Per questo non vanno profanati, soprattutto con iniziative che inneggiano ai persecutori: i quali non furono individui allo sbando o animati da impeti di vendetta (come spesso avviene, purtroppo, ai margini di guerre ed occupazioni), ma Stati come la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini, che imponevano le discriminazioni e le uccisioni come attuazione delle loro leggi. Basti pensare che in Europa la Germania nazista organizzò più di 40.000 campi di concentramento e sterminio e che ad Auschwitz–Birkenau vennero uccisi nelle camere a gas fino a migliaia di individui in un solo giorno; tra loro anziani, uomini, donne, madri con i loro figli, soprattutto ebrei, ma anche rom, prigionieri di guerra, oppositori politici, malati psichici, disabili, inabili al lavoro, omosessuali: tutti coloro che il nazismo riteneva indegni di vivere. Ricordiamo anche le leggi razziali promulgate nel 1938 in Italia dal regime fascista che, dimostrando una abissale ignoranza storica, antropologica e genetica, oltre ad una proterva crudeltà morale, pretendeva di contrapporre, come già facevano i nazisti, una (inesistente) ‘razza ebraica’ ad una (altrettanto inesistente) ‘razza italica’ o ‘ariana’. Il destino degli ebrei italiani fu così segnato da leggi dello Stato stesso di cui erano cittadini, che imponeva contro di loro discriminazione ed esclusione (pensiamo ai bambini, ai ragazzi, agli insegnanti cacciati dalle scuole), fino alla deportazione e alla morte nei lager.  Inoltre, durante l’occupazione di territori della Slovenia, della Dalmazia, della Croazia e del Montenegro l’Italia infierì sulla popolazione civile con stragi, rappresaglie, esecuzioni sommarie, distruzioni e saccheggi allo scopo di stroncare la resistenza partigiana di quelle zone. Anche il lager di Trieste (la Risiera di San Sabba), formalmente parte della Repubblica Sociale Italiana, ma sottoposto al controllo dei nazisti, fu allestito con lo scopo di eliminare gli oppositori e chi era giudicato indegno di vivere.
Prima ho accennato al valore etico-politico di certi ideali, ma anche al loro senso pedagogico; propongo un esempio che riguarda me, nipote di un deportato: sono cresciuta in una famiglia pesantemente segnata dal nazifascismo, ma non ho mai udito, dico mai, parole di odio verso alcuno, desideri di vendetta o di rivincita. Gli insegnamenti che mi venivano dalla mia famiglia come linfa vitale e quotidiana erano ispirati ai valori di mio nonno: aiuto ai più deboli, solidarietà, giustizia, rispetto tra tutti gli esseri umani visti come una sola famiglia, lontani da ogni nazionalismo o razzismo. L’ideale, cioè, di un mondo senza confini per un’umanità libera e unita, che rinvia alla prospettiva del cosmopolitismo, sostenuto da filosofi come Democrito e Platone nell’antichità (V-IV sec. a.C.), o Rousseau e Kant nel ’700: essi vedono tutti gli esseri umani come “cittadini del mondo”. Ricordiamo anche che la xenía, l’ospitalità verso lo straniero, era un dovere sacro per la civiltà greca da cui deriviamo: pensiamo all’omerica Odissea, al naufrago e lacero Ulisse accolto dal re dei Feaci, in quella che forse è l’odierna Ischia anticamente abitata da Fenici, a conferma dell’intrecciarsi di popoli e culture proprio della nostra penisola. E dai deportati ci viene un altro insegnamento: saper dire NO quando si impongono comportamenti che trasgrediscono i valori di solidarietà e aiuto reciproco tra tutti gli esseri umani. Un insegnamento molto importante proprio ora, quando da molti politici provengono parole e provvedimenti di impronta cosiddetta sovranista, capaci di negare aiuto a chi, disperatamente, lo chiede.
Per tutto questo, avanzo una richiesta all’Amministrazione comunale: dedicare ai deportati vie della città, una per ciascun deportato, in quanto testimone dei valori che sono alla base della civiltà umana.


Patrizia Pozzi: Con le parole vediamo
Siamo in una biblioteca. Un tesoro di parole.
Con le parole vediamo, sogniamo, amiamo.
E viaggiamo, viaggiamo con la mente: andiamo ora, perciò, tutti insieme, a Lentini, Siracusa, Sicilia. V sec. a. C. Gorgia è un filosofo di Lentini, ama le parole e dice che le parole ci incantano. Per questo scrive l’Encomio, cioè l’elogio, di Elena. Elena, proprio lei, la donna che il mito ci dice essere stata la causa della guerra di Troia. Ma Gorgia non ci sta e scrive un encomio per difenderla - non è lei la causa della guerra: Elena, infatti, non avrebbe potuto non amare Paride, non avrebbe potuto scegliere di non amarlo. E non avrebbe potuto non per la bellezza di Paride, non per la sua forza, ma per le parole che egli seppe rivolgerle; quelle parole erano così belle che la incantarono e lei non poté fare a meno di seguirlo. Furono le parole di Paride, perciò, che cambiarono la storia di Troia, degli Achei, del mondo. Che cambiarono la nostra storia
E dove si trovano le parole che incantano e che rimangono oltre la voce, danzando nei nostri pensieri? Le parole rimangono e vivono per sempre nei libri, in quei misteriosi e meravigliosi segni che sono le parole di tutti i libri. Ecco perché siamo qui: perché ogni biblioteca racchiude infiniti mondi, infiniti incanti. Noi abbiamo bisogno delle biblioteche. E se non ci sono, le biblioteche si sognano.
torniamo ad un lontano maggio 1970. Un vecchio libro; tra le pagine, l’ultimo compito di terza media, della mia terza media, che ho trovato qualche tempo fa, per caso: è un tema - il suo titolo: Il luogo in cui vivo. Vivo, scrivevo, alle porte di Milano… ed ecco che tra quelle righe ingenue di bambina si affaccia un desiderio: io vorrei che nel mio quartiere ci fosse una biblioteca… perché allora non c’era una biblioteca... Vent’anni dopo, nel 1992, quel desiderio fu esaudito… ed ora siamo qui perché questa bellissima biblioteca continui a vivere, perché qui, tra questi libri, tutti possiamo sognare, viaggiare, amare.
Questo avrei voluto dire e in parte ho detto. Ma oggi, come già troppi altri giorni, è un giorno di lutto nazionale; per questo vorrei ricordare con voi i morti di ieri e quelli di tutti questi sciagurati anni. Anni in cui la legge si è fatta e si fa strumento di morte, e non di vita e convivenza pacifica. Dietro i numeri impietosi di questi disperati naufragi ci sono volti, nomi, storie. E ancora una volta sono le parole, sono i libri a poterci aiutare: desidero infatti leggere i passi di alcune lettere scritte da una ragazza di famiglia eritrea, Simret, nel 2006, parole che si trovano in questo libro: Dall’Etiopia a Roma. Lettere alla madre di una migrante in fuga. Simret ha 17 anni, sta fuggendo dall’Africa verso l’Europa e scrive a sua madre, morta nel deserto della Libia durante il loro peregrinare per fuggire dalla guerra e dalla fame. Per la figlia, scrivere alla madre morta è un modo per darle ancora vita e per sopravvivere al dolore. Queste parole sono tratte da un piccolo libro, di quelli che i ragazzi vendono per le strade. E vorrei anche rivolgervi un invito: acquistate questi libri, è un modo per aiutare chi cerca di vivere, confermando loro dignità e valore, ma è anche un modo per conoscere storie di disperazione e speranza, morte e vita che ogni giorno si svolgono sotto i nostri occhi, ma di cui non ci accorgiamo. E ancora una volta, ecco l’importanza dei libri.
Scrive Simret quando, giunta a Tripoli, sogna di fuggire: 

Cara mamma,
con me non ho più niente che ti appartenga. Soffro molto all’idea di non avere nemmeno una tua foto, ma tu sei sempre nel mio cuore. A volte, di notte, mi sveglio all’improvviso perché mi sembra di sentirti accanto, mi pare di sentire il tuo respiro e, addirittura, le tue carezze. Se con le mie lacrime potessi riportarti in vita, piangerei per anni. Ma non mi resta che accettare la dura realtà e rassegnarmi all’idea che tu non sia più qui con me a proteggermi e a procurarmi quanto mi è necessario. Di una cosa però sono certa. Farò qualunque cosa per sopravvivere. Mi troverò un lavoro e con i soldi messi da parte raggiungerò l’Europa. Da qui sento il rumore del mare e lo vedo da lontano. Sogno ad occhi aperti di attraversarlo per raggiungere l’Europa. So che tu tenevi tanto a questo e farò di tutto per non deluderti. In futuro spero di imparare a nuotare, di godermi il mare da vicino, di avere una casa tutta per me senza che nessuno mi rimproveri più, senza avere più paura. Cara mamma, da grande voglio vivere una vita felice.

Io credo che questi possano essere i pensieri di tutti coloro che partono, e che spesso non arrivano.
Ed è ancora un libro che ci apre gli occhi, il cuore, la mente, che ci racconta una vita… E la speranza e l’augurio per noi qui stasera è che sia possibile a tutti, cittadini del mondo, muoversi, vivere, cercare la felicità e che le parole di chi fugge non evochino più la morte di troppi, ma la vita di tutti.
Avendo iniziato con Gorgia, filosofo del V sec., vorrei concludere accennando al pensiero di Kant, filosofo del XVIII sec., il quale ci parla di un dovere che secondo lui dovrebbe essere un dovere di tutti i popoli, gli uni verso gli altri: il dovere dell’ospitalità. Per questo, ora vedremo i volti e ascolteremo le voci di ragazzi di diversi paesi, che raccontano la nostra storia, dell’Italia e di Milano, pur provenendo da mondi lontani. Perché le parole sono anche storia, conoscenza, memoria.



P.S. Il reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” è stato introdotto con l’approvazione del cd. “pacchetto sicurezza” (legge n. 94 del 2009) nel Testo Unico sull’immigrazione. Il nuovo art. 10 bis, (cd. reato di clandestinità) è una norma che sanziona la condotta di “fare ingresso” o di “trattenersi” in Italia in violazione del Testo Unico e della legge 68/2007 (relativa ai soggiorni per breve durata).
Perché bisogna prendersela sempre con qualcuno per avere ragione. E chi meglio dei migranti? Guardateli sotto quei teloni, guardate come sono pericolosi quelle donne incinte, quei bambini, quei ragazzini, quegli uomini dai corpi gonfi, bruciati. Le onde di Lampedusa raccontano la nostra vergogna, la nostra mancanza di memoria. La solidarietà presa in ostaggio. Il Bene abbandonato. Alla deriva. Nel profondo del mare.

Patrizia Pozzi: La memoria e gli ideali, Introduzione al testo Mai più lontani
I ricordi di Miuccia Gigante raccolti in questo libro sono grande e profonda testimonianza di come la memoria sia la vita più vera dell’interiorità. In essi ritroviamo la bimba che Miuccia è stata e che, ancora oggi, è radice del suo io più profondo. Questa bambina emerge in racconti che non seguono un rigido ordine cronologico, ma intrecciano fili di memoria in cui si affacciano volti, nomi, luoghi che rivivono nel modo più vero e autentico. Al centro, la figura di Vincenzo Gigante, padre di Miuccia, antifascista e partigiano, deportato e assassinato nella Risiera di San Sabba, a Trieste, nel 1944.
Sono due le linee narrative che sostengono i racconti di questo libro, richiamandosi l’un l’altra: la linea che si può definire esistenziale, in cui si declina la vita di una bambina che cresce senza padre, imprigionato dal fascismo per lunghi anni, senza che padre e figlia si siano mai incontrati dopo i primi mesi di vita della piccola, e la linea che si può definire ideale, in cui emergono i valori etici e politici per i quali questo padre lotta; valori che sono propri anche della famiglia materna in cui Miuccia cresce, a Lugano.
Riguardo a questo secondo e fondamentale filo narrativo, le pagine che seguono ci ricordano che, allora come ora, lottare per l’emancipazione degli umili e degli oppressi è ciò che può dare senso alla vita. Tale idea guida gli uomini e le donne raccontati in questo libro, il quale ha la forza di parlare anche al presente; leggendolo capiamo infatti che è ora di ritornare a levare alto il suono dei valori che percorrono le sue pagine: libertà, solidarietà, giustizia, fraternità, uguaglianza.
La famiglia di Miuccia Gigante vive questi ideali con profonda convinzione, con naturalezza, e si potrebbe anche dire con gioia, nonostante la fatica e la sofferenza che la lotta e la resistenza contro fascismo e nazismo comportano. Per coloro che vengono qui ricordati quei valori sono come linfa vitale e con questa stessa forza essi sanno entrare nel lettore, dando un senso di profondità, verità, bellezza. Aiutare chi soffre affinché si liberi dall’ingiustizia significa piena realizzazione di sé: questo insegnano le scelte del padre di Miuccia Gigante, le parole e i gesti dei suoi nonni e di sua madre, le vicende di coloro che rivivono in queste pagine. Sognare e lottare un mondo di libertà e giustizia fa sentire una profonda ricchezza interiore: si sta bene pensando e facendo il bene, affermano Socrate e Spinoza, per i quali le azioni malvagie sono frutto di ignoranza. Il legame tra conoscenza, bene e felicità è a fondamento dell’etica tanto socratica che spinoziana, e Vincenzo Gigante riesce a trasmettere alla figlia la necessità e la bellezza dello studio e della conoscenza che egli continua a coltivare anche nelle orribili condizioni della prigionia. Solo la conoscenza può fondare la lotta per liberarci dalle catene della sottomissione sociale, solo la conoscenza ci libera dai pregiudizi e ci permette di unirci agli altri uomini per fondare un progetto di società e di vita improntato all’ideale di un bene comune, nel rispetto dell’identità del singolo: l’uomo guidato dalla ragione, scrive Spinoza, è libero non in solitudine, ma nella communis vita e utilitas[1]. D’altro canto, Voltaire insegna chiaramente che aiutare l’indigente e liberare l’oppresso è il nostro più autentico compito morale. Lo sfondo di un’etica di giustizia e fratellanza trapela dalle pagine che seguono, nella prospettiva di una società di liberi ed uguali. Questo era anche l’obiettivo del socialismo dei nonni di Miuccia e del comunismo di suo padre, il quale sempre esercitò la propria capacità di critica all’interno dei movimenti sindacali e politici di cui fece parte. Vincenzo Gigante, pur dovendo lavorare fin da giovanissimo come operaio, studiò da autodidatta e coltivò il proprio amore per la conoscenza anche in carcere, dove si dedicò allo studio di temi storici, politici, sociali. I libri faticosamente acquistati da Vincenzo, e ora conservati da sua figlia, ci mostrano le letture (da Machiavelli a Cattaneo, da Dante a Galileo, da Spinoza a Marx) sulle quali si formò la visione del mondo, complessa e articolata, che alimentò i suoi ideali. Tali ideali si declinano in progetto esistenziale e politico, nel senso più autentico ed elevato del termine, e riecheggiano nelle parole che scrive alla piccola figlia che poté vedere solo appena nata, ma che fu sempre nel suo cuore e nei suoi pensieri durante i lunghi anni della prigionia e della lotta, fino alla morte. Riguardo al piano esistenziale e intimo che mette in luce l’interiorità della bambina al centro delle pagine che seguono, emerge con lancinante evidenza il tema dell’assenza del padre.
La narrazione è condotta in terza persona e Miuccia Gigante parla di sé definendosi la “piccola”, la “bimba”: è come se in questo modo potesse rivedere la propria vita comprendendo pienamente la bambina che è stata, e che non è più. Il sogno infranto della bimba di incontrare suo padre, spezzato dopo la notizia del suo assassinio, determina una frattura, un vuoto, una ferita non rimarginabili. Miuccia ricorda quella bimba che ancora vive dentro di lei, ma non c’è continuità tra la “piccola” Miuccia e l’adolescente, la giovane, la donna che è divenuta. Tra loro un vuoto incolmabile: l’assenza e poi la morte del padre. La speranza, la fiducia nel suo rientro riempiono i giorni e i pensieri della bimba; la consapevolezza che questo non avverrà mai è il dolore che per sempre accompagnerà la vita dell’adolescente e della donna. Un velo di malinconia è sempre nei suoi occhi (e lo sa bene chi la conosce) e ora lo possiamo immaginare anche in lei bambina: ma se allora c’era l’attesa a sostenere i giorni, a tredici anni Miuccia visse l’implacabile certezza della vanità di questa attesa. La notizia della morte del padre uccide anche l’innocente speranza della piccola: nei ricordi di questo libro pesa il buio di questo dolore. Il vuoto che aveva accompagnato l’infanzia non si sarebbe più colmato, quella solitudine sarebbe stata per sempre. E questo induce a riflettere su che cosa possa significare crescere nell’assenza di un genitore, che avrebbe voluto esserci con tutto l’amore e a cui ciò non fu permesso a causa dei suoi ideali di giustizia e fratellanza. È il caso di Miuccia e dei figli di coloro che furono deportati nei lager, o che persero la vita per gli ideali della Resistenza, talvolta dopo anni di clandestinità e prigionia e spesso senza che se ne avessero più notizie, precipitati nell’assordante silenzio di morte della guerra e dello sterminio: genitori amati per il loro valore, ma anche disperatamente cercati e rimpianti. Questo libro ci dice che i bimbi vivono la quotidianità: ogni minuto perduto è perduto per sempre, l’assenza brucia, è presente in ogni attimo. E quanta tenerezza per questi piccoli condannati a provare, impotenti, un lacerante senso di abbandono. In una lettera del 10 ottobre 1935 Wanda, madre di Miuccia, scrive a Vincenzo (da lei affettuosamente chiamato Cenzo o Cenzino) che la loro piccola figlia, solare e allegra nei primi anni della sua infanzia, parla continuamente di lui e lo attende: vedendo un’auto fermarsi davanti a casa, la bimba chiede se si tratti del padre. Sono struggenti le parole di Wanda: «La rassicurai che tu verrai quando sarà più grandicella [...] Ma mi rispose: voglio adesso che sono piccola il mio Cenzino».
Quanto qui ricordato riguarda i bimbi e, più in generale, coloro che hanno subito la Seconda guerra mondiale e lo sterminio nazifascista, ma la loro sofferenza può essere vista come una delle manifestazioni di quella che la riflessione etica definisce la “sofferenza del giusto e dell’innocente”: una sofferenza che ha attraversato e attraversa la storia dell’umanità nelle guerre, negli stermini, nelle oppressioni che l’hanno tragicamente travagliata e che ancora la travagliano, giungendo fino ai nostri giorni. Dinanzi all’impotenza e al senso di vuoto e di disperazione che ci assale di fronte alla sofferenza di un innocente, le più intense ed elevate riflessioni che si possano pensare sono espresse dalle parole di Dostoevskij allorquando, ne I fratelli Karamazov, per tramite di Ivan, si interroga sulla crudeltà di cui gli esseri umani sanno dare prova e sul dolore dei bimbi, sul male che distrugge il corpo e annichilisce l’anima, rispetto al quale non si possono trovare né risposte né giustificazioni.
Se da queste pagine riusciamo a conoscere il dolore e il senso di solitudine che vissero la piccola e i bambini che come lei furono travolti dall’assenza e dalla morte dei loro genitori, possiamo anche immaginare il travaglio e il dolore del padre di Miuccia e di tutti i genitori strappati ai loro figli, catturati, rinchiusi, deportati senza che se ne sapesse più nulla, con l’unica speranza del ritorno a riempire i loro giorni. La stessa speranza che sosteneva le loro famiglie: ma quando si manifesta la vanità di questo sperare e la consapevolezza di un’assenza che sarebbe stata per sempre e non avrebbe mai trovato rimedio, il senso di vuoto e di disperazione si fa incolmabile e totale. La morte inghiotte i deportati, e nelle loro famiglie la vita cambia inesorabilmente.
In fondo questo libro, manifestando tale assenza irrimediabile e assoluta, permette di ricucire nella profondità della pagina scritta un rapporto lacerato per sempre. Dopo questo libro Miuccia e suo padre non saranno Mai più lontani.  
[1] Spinoza, Ethica IV, prop. 73 dem



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