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mercoledì 15 aprile 2020

LIBERISTI E STATO
di Fulvio Papi

Neoliberisti
Quando qualche anno fa la più potente banca americana rischiò il fallimento il presidente Obama fece arrivare una cifra imponente di dollari per evitare un disastro che avrebbe coinvolto migliaia e migliaia di famiglie. Fu il primo sintomo, a livello finanziario, che una economia capitalistica invece di riprodurre se stessa con un ritmo crescente era più che mai esposta a pericolose cadute. L’intervento dello Stato, considerato impensabile dagli economisti neo-liberisti, si mostrava invece fondamentale. La durezza del reale mostrava la futilità degli argomenti economici di mediocre diffusione universitaria. Ricordo che nelle vetrine dei più importanti librai di New York comparvero in primo piano le opere di Marx, che, a ragione, a una eventuale crisi del capitale finanziario, dedicò solo il 22° capitolo del terzo libro del Capitale. Ma ovviamente non si trattava di una sapienza storiografica, ma della rappresentazione di un sintomo intorno a una crisi del capitalismo che percorreva inquietante la mente del ceto culturale della famosa “grande mela”. Mi pare che fosse diventata meno di moda anche in Europa la formula “meno Stato più mercato” poiché pareva al tramonto l’epoca euforica dei dirigenti politici di Stati importanti che avevano scelto senza mezzi termini una rigorosa politica neoliberista che aveva i suoi effetti anche in una dimensione internazionale. Spero che gli storici diano un giudizio negativo di questa politica, poiché quali che fossero i problemi che dovevano risolvere o le prospettive di un futuro benessere, in realtà arricchirono i ricchi e punirono le persone che potevano mettere sul mercato solo la disponibilità del proprio lavoro guadagnandosi la compassione pubblica dei potenti e dei doviziosi. 


“La compassione”, una categoria psicologica nella tradizione filosofica inglese che, in realtà voleva segnare un sentimento che rendeva partecipi tutti gli uomini di sentimenti che mostravano la comune partecipazione a un senso della vita. In realtà quelle intransigenti politiche liberiste furono il prezzo pagato dai più poveri e dal consolidamento nazionalistico del costume di vita americano (quello che doveva inquinare tutto il mondo) che un qualsiasi europeo di buona cultura considererebbe deplorevole, e tuttavia, in loco, coperto dalla retorica della potenza militare che, del resto, collezionò sconfitte ben note, o quando, in apparenza, cantò vittoria, ci pensò la politica estera stolta a trasformare il successo in una peggiore sconfitta. Dal punto di vista economico vi fu una nuova crisi sopportata come un incidente tecnico del proprio cammino. E sebbene i dubbi e le perplessità sorte nella prima crisi non fossero scomparsi, non scomparse la retorica di un infinito progresso, garantito dalla tecnologia e sostenuto dall’economia capitalistica contemporanea. Proprio in quel periodo ricordo una incredibile manifestazione alla Casa della Cultura di Milano in cui un accreditato pubblicista espose le sue tesi sociali (esposte in un libretto di Einaudi) attente e ripetitive del lavoro di scienziati americani che stavano progettando, tramite tecnologie esistenti, l’immortalità dell’uomo. 


Tutti i presenti ebbero la sensazione spiacevole che la concezione di un progresso tecnologico, considerato come la gloria della nostra civiltà, avesse toccato il suo punto più enfatico, la deformazione grottesca e insopportabile di quell’umanesimo che, nonostante le stragi con 60 milioni di morti, ha sempre cercato, nelle menti più libere, di sopravvivere come una misura etica realizzabile, almeno in parte, nel vasto mondo. Di fronte alla pubblicità sull’infinito progresso che avrebbe proseguito la sua strada, prendeva sempre più corpo la coscienza che il mitico “homo faber” stava distruggendo, con la forma storica della sua intrapresa, lo stesso mondo che, nel suo lungo processo evolutivo, lo aveva ospitato. Spero che da questo punto di vista, oltre alle decisioni degli scienziati e dei liberi pubblicisti, nasca uno storico che sappia tirare le somme del nostro epilogo, con la stessa ricca documentazione che Braudel ha approntato nella sua decisiva storia del mercato.


Queste osservazioni, in fondo, sono un patrimonio intellettuale di scienziati, di filosofi, di sociologi non conformisti che si sta pubblicamente diffondendo. Ma un giorno del tutto inatteso si è presentato nella nostra enfatica storia civile, un essere naturale, un virus, che ha costretto a pensare quello che era stato per lo più rimosso: l’uomo è un essere fragile che solo ideologicamente si può considerare come il padrone del mondo. La scoperta è la morte, quella che, sconosciuta, circola fra noi proprio nel nostro linguaggio che viene così da lontano che ne abbiamo dimenticato l’origine e il senso. Ma i grandi storici come Ariès e Vovelle ci hanno mostrato che il male accade, ci colpisce secondo la stessa qualità della nostra vita, l’egemonia di un pensiero dominante. Sono anni che siamo stati chiamati a vivere secondo un volgare senso comune secondo cui la concezione capitalistica e liberista trasformava l’antico mercato del borgo o della città, in una potenza benefica, simile, nella sua intelligenza, all’architetto-dio di Platone. Dal sonno dogmatico, ancor meglio che con il pensiero ci si sveglia con la realtà. Ho ascoltato una celebre autorità del pensiero economico liberista sostenere che il lavoro dovrà essere diverso dal passato, e collocare i bisogni degli uomini come centralità rispetto al funzionale riproduttivo ottimale del processo economico. Non è futile ricordare che i vantaggi, che pure ci sono stati nell’attuale assetto di crisi, privilegiavano i ceti ricchi intorno al benessere materiale, psichico, estetico attraverso modelli consumistici che, come la moda di Simmel, diventavano educativi per i ceti meno abbienti. Credo che se ci potrà essere una diversa modalità economica, essa dovrà andare di pari passo con quella nuova educazione sociale che si sente talora affiorare, un po’ confusamente, in alcune importanti manifestazioni giovanili. 
I riferimenti che ho fatto, anche se può sembrare strano, proprio perché la società è costituita da una pluralità di classi e non da una sola dialettica di classe, richiede un solidale, autorevole, efficiente, autonomo ceto politico che, con il tempo necessario, possa introdurre nuovi elementi della riproduzione economica oltre la salvezza teologica del mercato. 


Purtroppo non si vedono che timidi segni che possono condurre in questa direzione. Naturalmente, e devo essere perdonato, ho in mente la gloriosa classe politica che da un’Italia distrutta dalla guerra trasse un paese vivibile.
Gli attuali necessari interventi finanziari aggraveranno ovviamente il debito pubblico che fonti autorevoli danno dal 136% al 176% del Pil. E io temo di più. Piuttosto che entrare in una disamina intorno alla protezione europea dei debiti medesimi che richiede un’attenzione quasi quotidiana, ricorrerò a una rimembranza storica. Contrariamente a quello che accade di pensare, il deficit di bilancio risale al tempo del “dominio” democristiano e in particolare al governo Rumor. Era anche allora, come precedentemente, argomento di forte disputa politica. Mi trovavo ad essere tra i keynesiani, mentre i conservatori guardavano un po’ ipocritamente (vedremo) al pareggio senza mai però giungere a quelle misure iagulatorie che gravarono sulle classi popolari, come ad esempio la storica tassa sul pane. Come considerazione generale mi pare di poter dire che il capitale privato, favorito da misure fiscali, ha avuto uno sviluppo sproporzionato rispetto alle iniziative pubbliche che avrebbero potuto portare il paese a un livello di superiore civiltà. Il territorio è stata la vittima di questo capitale privato, regioni intere ne sono state trasformate, altre si sono difese. 

Quanto al debito pubblico ricordo un mio breve colloquio con l’ex governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, ospite di Rodolfo Banfi, allora grande banchiere. Allora, sorridendo, Carli mi disse: “Si può avere un debito alto e si può egualmente essere felici”. Era una battuta che facilmente interpreto così. Se un debito alto serve per “civilizzare” il paese rispetto alle sue esigenze produttive, allora non c’è problema perché gli effetti positivi, col tempo, si fanno sentire positivamente anche sul debito pubblico. No, invece, se esso non è incrementato dalla fiscalizzazione dei profitti delle grandi unità produttive che raggiungono i “paradisi fiscali”. E se per anni il bilancio dello stato, accanto alle spese fondamentali, è una distribuzione a pioggia di contributi usati per spese superflue ma utili per consentire la continuità di un rapporto di sudditanza della popolazione ai maggiorenti locali, allora siamo allo sperpero e si può dire alla corruzione. È piena l’Italia di manufatti non finiti che sono il risultato di quelle politiche. Non mi pare che la cultura neoliberista sia intervenuta con sufficiente energia a contrastare questa follia politica e sociale. Il suo problema era quello del buon funzionamento del mercato laddove era in grado di funzionare, mancava una visione politica oggettiva. E ho usato “oggettiva” e non “nazionale” perché questa parola aprirebbe interrogativi che risalgono ai tempi di Salvemini.
Quale poi sia stata la risonanza di una cultura ad esclusiva direzione privata, salvo la socializzazione delle perdite ripianate dalla finanza pubblica, non starò a fare un elenco dello stato culturale che domina nel paese, poiché, magari un po’ in derivazione dai “francofortesi”, è stato ripetuto molte volte. Dirò solo che il poi pone anche questi problemi molto seri per non cadere nel degrado non delle favelas brasiliane, ma nelle marginalità sociali dell’impero degli Stati Uniti.


Dopo la crisi e, in prospettiva, sarà bene tenere conto della lezione che abbiamo dovuto imparare dalla realtà che ha visto in primo piano l’intervento dello stato sia a livello economico, che relativo alla salute pubblica e al possibile aiuto all’apparato sanitario. Va conclamato che sotto il profilo teorico della razionalizzazione (un compito socialmente difficile che va al di là delle improvvisate competenze) l’apparato sanitario del paese è stato ridotto, nella sua efficienza, in uno stato grave. Posso parlare con conoscenza della situazione in Lombardia dove la ricezione ospedaliera pubblica è stata tagliata vigorosamente per favorire le cliniche private, fonte di enormi profitti. È una decisione a cui dovrebbe rispondere un intero ceto politico che l’ha avvallata, oltre alla persona che l’ha promossa e che ora sconta una pena agli arresti domiciliari. Sono convinto anch’io che tutto l’apparato sanitario va tenuto in conto per i suoi intrepidi operatori cui va la riconoscenza pubblica. Ma è uno scandalo chiedere l’eroismo quando sono stati tolti gli strumenti operativi fondamentali di una istituzione sanitaria. Sono state tagliate le spese, ma i danari dove sono andati? Perché non facciamo opera di conoscenza e divulgazione pubblica? Oggi il paese è tenuto in piedi da un capitale tecnologicamente buono, da un lavoro coraggioso oltre misura e di buona qualificazione.


Dopo la crisi, se si vuole cambiare sarà necessario, in molti settori un intervento dello stato (com’è accaduto nella crisi) che, con una programmazione concordata socialmente e priva di astratti e ideologici dirigismi, consenta il famoso sviluppo sostenibile dell’ambiente naturale, oltre che la terapia dei troppi guasti sociali e territoriali. C’è chi parla di “piano Marshall”, di ricostruzione dell’Iri, di iniziative europee. Sono temi su cui è necessario intervenire con competenza di volta in volta. Ciò che può esser detto già da ora è che qualsiasi intervento di risanamento non sarà di un tempo breve, anche se di una necessaria iniziativa rapida nella sua programmazione. Dovremo vivere di impegni concreti, di una nuova valorizzazione fondamentale del lavoro, di un distacco definitivo dalle ideologie vergognose e foriere di corruzione pubblica e privata e di quanto ci ha lasciato molto più indifesi di fronte alla violenza del male.


Episodi come quelli che sono emersi a Palermo e a Napoli sono piaghe sociali più che aperte. Pare che vi sia il trenta per cento della forza lavoro impegnata “in nero”, priva di qualsiasi garanzia sociale. Lavoro erogato da imprese o da iniziative controllate dalla mafia con la sua indubbia efficienza imprenditoriale. Qui siamo oltre gli interrogativi economici che si possono riferire al “dopo”. L’assistenzialismo di oggi è una necessaria condizione contingente, ma può segnalare un problema molto grave per il futuro prossimo. Come dire che l’epidemia ha mostrato che c’è ancora molto da fare per l’unità de paese. È non è un compito da poco.