di
Fulvio Papi
Neoliberisti |
Quando
qualche anno fa la più potente banca americana rischiò il fallimento il
presidente Obama fece arrivare una cifra imponente di dollari per evitare un
disastro che avrebbe coinvolto migliaia e migliaia di famiglie. Fu il primo
sintomo, a livello finanziario, che una economia capitalistica invece di
riprodurre se stessa con un ritmo crescente era più che mai esposta a
pericolose cadute. L’intervento dello Stato, considerato impensabile dagli
economisti neo-liberisti, si mostrava invece fondamentale. La durezza del reale
mostrava la futilità degli argomenti economici di mediocre diffusione
universitaria. Ricordo che nelle vetrine dei più importanti librai di New York
comparvero in primo piano le opere di Marx, che, a ragione, a una eventuale
crisi del capitale finanziario, dedicò solo il 22° capitolo del terzo libro del
Capitale. Ma ovviamente non si trattava di una sapienza storiografica,
ma della rappresentazione di un sintomo intorno a una crisi del capitalismo che
percorreva inquietante la mente del ceto culturale della famosa “grande mela”.
Mi pare che fosse diventata meno di moda anche in Europa la formula “meno Stato
più mercato” poiché pareva al tramonto l’epoca euforica dei dirigenti politici
di Stati importanti che avevano scelto senza mezzi termini una rigorosa
politica neoliberista che aveva i suoi effetti anche in una dimensione
internazionale. Spero che gli storici diano un giudizio negativo di questa
politica, poiché quali che fossero i problemi che dovevano risolvere o le
prospettive di un futuro benessere, in realtà arricchirono i ricchi e punirono
le persone che potevano mettere sul mercato solo la disponibilità del proprio
lavoro guadagnandosi la compassione pubblica dei potenti e dei doviziosi.
“La
compassione”, una categoria psicologica nella tradizione filosofica inglese
che, in realtà voleva segnare un sentimento che rendeva partecipi tutti gli
uomini di sentimenti che mostravano la comune partecipazione a un senso della
vita. In realtà quelle intransigenti politiche liberiste furono il prezzo
pagato dai più poveri e dal consolidamento nazionalistico del costume di vita
americano (quello che doveva inquinare tutto il mondo) che un qualsiasi europeo
di buona cultura considererebbe deplorevole, e tuttavia, in loco, coperto dalla
retorica della potenza militare che, del resto, collezionò sconfitte ben note,
o quando, in apparenza, cantò vittoria, ci pensò la politica estera stolta a
trasformare il successo in una peggiore sconfitta. Dal punto di vista economico
vi fu una nuova crisi sopportata come un incidente tecnico del proprio cammino.
E sebbene i dubbi e le perplessità sorte nella prima crisi non fossero scomparsi,
non scomparse la retorica di un infinito progresso, garantito dalla tecnologia
e sostenuto dall’economia capitalistica contemporanea. Proprio in quel periodo
ricordo una incredibile manifestazione alla Casa della Cultura di Milano in cui
un accreditato pubblicista espose le sue tesi sociali (esposte in un libretto
di Einaudi) attente e ripetitive del lavoro di scienziati americani che stavano
progettando, tramite tecnologie esistenti, l’immortalità dell’uomo.
Tutti i
presenti ebbero la sensazione spiacevole che la concezione di un progresso
tecnologico, considerato come la gloria della nostra civiltà, avesse toccato il
suo punto più enfatico, la deformazione grottesca e insopportabile di
quell’umanesimo che, nonostante le stragi con 60 milioni di morti, ha sempre
cercato, nelle menti più libere, di sopravvivere come una misura etica
realizzabile, almeno in parte, nel vasto mondo. Di fronte alla pubblicità
sull’infinito progresso che avrebbe proseguito la sua strada, prendeva sempre
più corpo la coscienza che il mitico “homo faber” stava distruggendo, con la
forma storica della sua intrapresa, lo stesso mondo che, nel suo lungo processo
evolutivo, lo aveva ospitato. Spero che da questo punto di vista, oltre alle
decisioni degli scienziati e dei liberi pubblicisti, nasca uno storico che
sappia tirare le somme del nostro epilogo, con la stessa ricca documentazione
che Braudel ha approntato nella sua decisiva storia del mercato.
Queste
osservazioni, in fondo, sono un patrimonio intellettuale di scienziati, di
filosofi, di sociologi non conformisti che si sta pubblicamente diffondendo. Ma
un giorno del tutto inatteso si è presentato nella nostra enfatica storia
civile, un essere naturale, un virus, che ha costretto a pensare quello che era
stato per lo più rimosso: l’uomo è un essere fragile che solo ideologicamente
si può considerare come il padrone del mondo. La scoperta è la morte, quella
che, sconosciuta, circola fra noi proprio nel nostro linguaggio che viene così
da lontano che ne abbiamo dimenticato l’origine e il senso. Ma i grandi storici
come Ariès e Vovelle ci hanno mostrato che il male accade, ci colpisce secondo
la stessa qualità della nostra vita, l’egemonia di un pensiero dominante. Sono
anni che siamo stati chiamati a vivere secondo un volgare senso comune secondo
cui la concezione capitalistica e liberista trasformava l’antico mercato del
borgo o della città, in una potenza benefica, simile, nella sua intelligenza,
all’architetto-dio di Platone. Dal sonno dogmatico, ancor meglio che con il
pensiero ci si sveglia con la realtà. Ho ascoltato una celebre autorità del
pensiero economico liberista sostenere che il lavoro dovrà essere diverso dal
passato, e collocare i bisogni degli uomini come centralità rispetto al
funzionale riproduttivo ottimale del processo economico. Non è futile ricordare
che i vantaggi, che pure ci sono stati nell’attuale assetto di crisi,
privilegiavano i ceti ricchi intorno al benessere materiale, psichico, estetico
attraverso modelli consumistici che, come la moda di Simmel, diventavano
educativi per i ceti meno abbienti. Credo che se ci potrà essere una diversa
modalità economica, essa dovrà andare di pari passo con quella nuova educazione
sociale che si sente talora affiorare, un po’ confusamente, in alcune
importanti manifestazioni giovanili.
I riferimenti che ho fatto, anche se può
sembrare strano, proprio perché la società è costituita da una pluralità di
classi e non da una sola dialettica di classe, richiede un solidale,
autorevole, efficiente, autonomo ceto politico che, con il tempo necessario,
possa introdurre nuovi elementi della riproduzione economica oltre la salvezza
teologica del mercato.
Purtroppo non si vedono che timidi segni che possono
condurre in questa direzione. Naturalmente, e devo essere perdonato, ho in
mente la gloriosa classe politica che da un’Italia distrutta dalla guerra trasse
un paese vivibile.
Gli
attuali necessari interventi finanziari aggraveranno ovviamente il debito
pubblico che fonti autorevoli danno dal 136% al 176% del Pil. E io temo di più.
Piuttosto che entrare in una disamina intorno alla protezione europea dei
debiti medesimi che richiede un’attenzione quasi quotidiana, ricorrerò a una
rimembranza storica. Contrariamente a quello che accade di pensare, il deficit
di bilancio risale al tempo del “dominio” democristiano e in particolare al
governo Rumor. Era anche allora, come precedentemente, argomento di forte
disputa politica. Mi trovavo ad essere tra i keynesiani, mentre i conservatori
guardavano un po’ ipocritamente (vedremo) al pareggio senza mai però giungere a
quelle misure iagulatorie che gravarono sulle classi popolari, come ad esempio
la storica tassa sul pane. Come considerazione generale mi pare di poter dire
che il capitale privato, favorito da misure fiscali, ha avuto uno sviluppo
sproporzionato rispetto alle iniziative pubbliche che avrebbero potuto portare
il paese a un livello di superiore civiltà. Il territorio è stata la vittima di
questo capitale privato, regioni intere ne sono state trasformate, altre si
sono difese.
Quanto al debito pubblico ricordo un mio breve colloquio con l’ex
governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, ospite di Rodolfo Banfi, allora
grande banchiere. Allora, sorridendo, Carli mi disse: “Si può avere un debito
alto e si può egualmente essere felici”. Era una battuta che facilmente
interpreto così. Se un debito alto serve per “civilizzare” il paese rispetto
alle sue esigenze produttive, allora non c’è problema perché gli effetti
positivi, col tempo, si fanno sentire positivamente anche sul debito pubblico.
No, invece, se esso non è incrementato dalla fiscalizzazione dei profitti delle
grandi unità produttive che raggiungono i “paradisi fiscali”. E se per anni il
bilancio dello stato, accanto alle spese fondamentali, è una distribuzione a
pioggia di contributi usati per spese superflue ma utili per consentire la
continuità di un rapporto di sudditanza della popolazione ai maggiorenti
locali, allora siamo allo sperpero e si può dire alla corruzione. È piena
l’Italia di manufatti non finiti che sono il risultato di quelle politiche. Non
mi pare che la cultura neoliberista sia intervenuta con sufficiente energia a
contrastare questa follia politica e sociale. Il suo problema era quello del
buon funzionamento del mercato laddove era in grado di funzionare, mancava una
visione politica oggettiva. E ho usato “oggettiva” e non “nazionale” perché
questa parola aprirebbe interrogativi che risalgono ai tempi di Salvemini.
Quale
poi sia stata la risonanza di una cultura ad esclusiva direzione privata, salvo
la socializzazione delle perdite ripianate dalla finanza pubblica, non starò a
fare un elenco dello stato culturale che domina nel paese, poiché, magari un
po’ in derivazione dai “francofortesi”, è stato ripetuto molte volte. Dirò solo
che il poi pone anche questi problemi molto seri per non cadere nel
degrado non delle favelas brasiliane, ma nelle marginalità sociali
dell’impero degli Stati Uniti.
Dopo
la crisi e, in prospettiva, sarà bene tenere conto della lezione che abbiamo
dovuto imparare dalla realtà che ha visto in primo piano l’intervento dello
stato sia a livello economico, che relativo alla salute pubblica e al possibile
aiuto all’apparato sanitario. Va conclamato che sotto il profilo teorico della
razionalizzazione (un compito socialmente difficile che va al di là delle
improvvisate competenze) l’apparato sanitario del paese è stato ridotto, nella
sua efficienza, in uno stato grave. Posso parlare con conoscenza della
situazione in Lombardia dove la ricezione ospedaliera pubblica è stata tagliata
vigorosamente per favorire le cliniche private, fonte di enormi profitti. È una
decisione a cui dovrebbe rispondere un intero ceto politico che l’ha avvallata,
oltre alla persona che l’ha promossa e che ora sconta una pena agli arresti
domiciliari. Sono convinto anch’io che tutto l’apparato sanitario va tenuto in
conto per i suoi intrepidi operatori cui va la riconoscenza pubblica. Ma è uno
scandalo chiedere l’eroismo quando sono stati tolti gli strumenti operativi
fondamentali di una istituzione sanitaria. Sono state tagliate le spese, ma i
danari dove sono andati? Perché non facciamo opera di conoscenza e divulgazione
pubblica? Oggi il paese è tenuto in piedi da un capitale tecnologicamente
buono, da un lavoro coraggioso oltre misura e di buona qualificazione.
Dopo la
crisi, se si vuole cambiare sarà necessario, in molti settori un intervento
dello stato (com’è accaduto nella crisi) che, con una programmazione concordata
socialmente e priva di astratti e ideologici dirigismi, consenta il famoso
sviluppo sostenibile dell’ambiente naturale, oltre che la terapia dei troppi
guasti sociali e territoriali. C’è chi parla di “piano Marshall”, di
ricostruzione dell’Iri, di iniziative europee. Sono temi su cui è necessario
intervenire con competenza di volta in volta. Ciò che può esser detto già da
ora è che qualsiasi intervento di risanamento non sarà di un tempo breve, anche
se di una necessaria iniziativa rapida nella sua programmazione. Dovremo vivere
di impegni concreti, di una nuova valorizzazione fondamentale del lavoro, di un
distacco definitivo dalle ideologie vergognose e foriere di corruzione pubblica
e privata e di quanto ci ha lasciato molto più indifesi di fronte alla violenza
del male.
Episodi
come quelli che sono emersi a Palermo e a Napoli sono piaghe sociali più che
aperte. Pare che vi sia il trenta per cento della forza lavoro impegnata “in
nero”, priva di qualsiasi garanzia sociale. Lavoro erogato da imprese o da
iniziative controllate dalla mafia con la sua indubbia efficienza imprenditoriale.
Qui siamo oltre gli interrogativi economici che si possono riferire al “dopo”.
L’assistenzialismo di oggi è una necessaria condizione contingente, ma può
segnalare un problema molto grave per il futuro prossimo. Come dire che
l’epidemia ha mostrato che c’è ancora molto da fare per l’unità de paese. È non
è un compito da poco.