NEL CUORE DELLA BRIXIA FIDELIS
di
Marco Vitale
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Marco Vitale |
Lucia e
gli altri due “pellegrini” forzati (Renzo e Agnese) amavano il loro paese, le
loro casette e le loro montagne. L’Addio ai monti di Lucia, accompagnato dalle
sue lacrime silenziose e pudiche è una delle pagine più profonde e commoventi
della letteratura italiana. Ma quando, al termine di tutte le traversie, Renzo
ritrova Agnese, a Pasturo, indenne dalla peste e le porta la buona novella di
Lucia guarita e liberata dal suo voto da Padre Cristofaro, l’esito
dell’incontro non lascia dubbi: “La conclusione fu che s’andrebbe a mettere
su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon
avviamento”. E anche quando Lucia si riunisce a loro non c’è in
nessuno il minimo dubbio su questa scelta verso “il paese adottivo” e
senza nostalgie per “il paese natio” ed il sopravvissuto Don Abbondio
dirà: “codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di
spatriarsi (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene)”.
Manzoni proprio nell’Addio ai
monti sottolinea la differenza tra chi è obbligato da “una forza perversa” a
lasciare il borgo natio (come erano Renzo, Agnese e Lucia al momento della
fuga) e chi parte volontariamente, spinto dalla speranza di fare altrove fortuna
(come sono Renzo e Lucia dopo il matrimonio quando partono verso “la nuova
patria”, carichi di speranze che, pur con qualche difficoltà, troveranno felice
realizzazione).
Ma molti di noi si trasferiscono
in un’altra città o nazione per libera scelta, alla ricerca di qualcosa che non
sempre è chiaro a noi stessi. È in questi casi che si pongono delle domande
sulla nostra identità: ma qual è allora la mia città, quella nativa o quella
dove ho sviluppato i miei studi o dove ho svolto la mia attività? Quella dove
sono nato io o quella dove sono nati i nostri figli, dove ho messo famiglia? E
quanto conta il luogo e la cultura del luogo dove sono nati e cresciuti i miei
genitori, e dove è nata e cresciuta mia moglie, la madre dei miei figli? Esiste
un’identità personale legata alla cultura della città o paese dove sono nato e
cresciuto? O è più corretto parlare di una pluralità di identità e di culture,
che possono convivere nella stessa persona ed anche mutare nel tempo?
Io, padre napoletano, madre
camuna, moglie toscana, nato a Brescia, liceo a Brescia, Università al Collegio
Ghislieri di Pavia, borsa di studio in Germania e negli USA, primo lavoro breve
a Roma, secondo lavoro stabile a Milano, da oltre 50 anni, dimora sia a Milano
che a Brescia, mi trovo in una situazione di questo tipo, del resto come tanti
altri italiani che conosco, esuli volontari dalla città natia.
Mio padre, napoletano, uno dei primi laureati
alla, allora nuova, facoltà di economia e commercio della Cà Foscari, subito
dopo la laurea si trasferì a Brescia, dove un ramo della famiglia Vitale si era
insediato sin dalla fine dell’ ’800 e qui si sposò ed ebbe tre figli. Fu bene
accolto dalla città di elezione ed ebbe un buon successo professionale. Collaborò
anche a parecchie attività culturali e sociali cittadine, ma non amò mai
Brescia e la sua cultura. Non l’ho mai sentito pronunciare una parola in
dialetto bresciano. Ci trasmise, invece, una forte cultura napoletana: canzoni,
poesie, teatro, cucina, tutto era soprattutto napoletano a casa nostra, sicché
ho ereditato una notevole biblioteca e discoteca di classici napoletani, che ho
di recente donato a un centro sociale di Napoli.
Mi ha colpito, in un’intervista
di Ruggero Cappuccio, l’affermazione nella quale mi ritrovo totalmente: “Posso
stare a Parigi ed essere abitato da Napoli. Una città sta dove la porti” (Il
Fatto Quotidiano 6 - 1 - 2022). Dalla famiglia materna, originaria di Montisola
(Lago d’Iseo) e Darfo (Valle Camonica), formata da artigiani onesti e
laboriosi, incominciai invece a cogliere alcuni aspetti fondamentali della
cultura bresciana del lavoro, sulle sue radici e sulla sua importanza. Io sono
nato in città, in Via Musei, nel cuore della Brixia Fidelis, la Brescia romana,
a pochi passi dal Tempio Capitolino dedicato a Vespasiano nel I secolo dopo
Cristo e dall’attuale Museo Civico di Santa Giulia, uno dei musei civici più
importanti e genuini d’Europa. Ma quando ero ragazzo il Monastero di Santa
Giulia era poco attivo e gran parte del terreno oggi dedicato al Museo era l’ex
Opera Balilla, un imponente complesso sportivo (due campi da pallone e una
pista di atletica) abbandonati, liberi e in disuso, come del resto abbandonati
erano anche i ruderi di gran parte dell’attuale parco archeologico. L’attuale
via Musei corrisponde al decumano romano ed è oggi parte del parco
archeologico, splendidamente ricostruito, valorizzato e visitato da una
presenza turistica crescente. Ma allora era una via molto trascurata e popolare
con al centro un’osteria antica (Pergolina) animata da personaggi popolari
affascinanti, con i quali imparai a giocare tutti i giuochi popolari di carte e
la dama, dove divenni un campioncino. Le nostre giornate passavano tra lotte
fra bande tra i ruderi romani con lanci di pietre che oggi farebbero allarmare
i benpensanti e finirebbero diritti su qualche giornale (ma allora i genitori
avevano altro cui pensare), partite a briscola e scala quaranta alla Pergolina
e infinite partite a calcio all’ex Opera Balilla. Erano attività che potevamo
svolgere in totale libertà, ogni tanto con qualche ammaccatura ma con un enorme
senso di libertà, di autonomia e di autoformazione. Qui presi consapevolezza
del grande valore della libertà, della cultura popolare, dell’autoformazione,
dell’amicizia. Furono anni molto felici. La scuola, una pessima media, non ci
interessava. Eravamo alla ricerca di noi stessi e del carattere della nostra
città. I primi bagliori di orgoglio bresciano nacquero, allora, tra i ruderi
romani, all’Osteria Pergolina, sugli smisurati e liberi campi di calcio dell’ex
Opera Balilla che la guerra aveva, temporaneamente, reso liberi per noi.
Questi primi barlumi di
brescianità trovarono un inquadramento più solido subito dopo le medie, grazie
ad un ginnasio e liceo classico di alta qualità ma soprattutto grazie alla
frequentazione di un centro educativo di grande spessore, che ha influenzato
tante generazioni bresciane: l’Oratorio della Pace dei padri Filippini, centro
di cultura religiosa, civile, generale di altissimo livello. Anche qui si
giocava al calcio ma ben inquadrati, con tessera (F.I.G.C. Squadra Gymnasium N.
80516) ed una guida capace e appassionata. Ma insieme potevamo ascoltare le
lezioni di veri maestri come padre Giulio Bevilacqua, padre Carlo Manziana,
padre Cittadini, padre Marcolini e altri. Capimmo allora che non c’è conflitto
tra spirito religioso e spirito libero (la Pace fu un centro antifascista
militante), così come non c’è conflitto tra spirito religioso e scienza, mentre
c’è conflitto profondo tra spirito religioso e clericalismo. Sentiremo questi
temi ritornare, con forza, nei testi del Concilio Vaticano II, ma noi li
avevamo ascoltati e interiorizzati dieci anni prima da parte di grandi maestri,
la cui vita era testimonianza autentica di quello che dicevano. Nel frattempo,
lo studio della storia veniva a incrociarsi con queste esperienze di vita e mi
convinceva che questa religiosità profonda ma non clericale è caratteristica
propria, fondante e duratura delle radici bresciane.
I tre pilastri della brescianità:
“Liberi homines Brixiam habitantes”. Profonda religiosità. Grande capacità di
lavoro e rispetto per la dignità dello stesso.
Il primo pilastro è una
spiccata vocazione alla libertà ed alla autonomia temperata dal realismo e dal
buon senso. Non è un caso che il primo documento certo della comunità di
Brescia in formazione, datato gennaio 1038, si intitoli: “Liberi homines
Brixiam habitantes”. In quel documento il vescovo Olderico I si obbliga
solennemente nei confronti dei “liberi homines Brixiam habitantes” a non
costruire sul colle Cidneo e a consentire l’uso dei monti Degno e Castenedolo
per il pascolo, il taglio della legna e altri bisogni. L’atto ha ancora la
forma di una concessione feudale, ma nella sostanza traspare l’assunzione di un’obbligazione
precisa alla quale il vescovo dovette essere costretto con metodi decisi.
Olderico infatti precisa che per: «(…) vivere in pace e in letizia come un
padre con i suoi figli, ho deciso di eliminare ogni occasione di litigio e di
contesa». Ma i bresciani non si fidarono della soave prosa vescovile e con
sano realismo pretesero che l’obbligazione fosse garantita da una somma di 2000
libre di oro puro, una cifra enorme, a fronte della quale essi ringraziarono
offrendo l’omaggio simbolico di una pelliccia, secondo la tradizione
longobarda. Questo episodio di Olderico I è particolarmente significativo per
iniziare un discorso sull’identità dei bresciani. Sono i primi segnali di un
sistema dove la proprietà, e la disciplina del suo corretto utilizzo, cominciano
a diffondersi tra la popolazione con il fine dello sviluppo, della mobilità
sociale, dell’elevazione economica e culturale. Rileggendo la storia di Brescia
viene in mente l’interpretazione della storia italiana di Vasco Pratolini, che
scrive: “Le cronache d’Italia sono un susseguirsi di faide, di scontri di
fazioni, di lotte civili… Se di tali cronache si giovasse la storia, il volto
d’Italia apparirebbe mutato. Ma è pur questo, mascherato, il voto dell’Italia.
È il segreto della sua forza, per cui il più ignorante e sprovveduto degli
italiani non si sente, ma è, cittadino del mondo. E consiste
[tale volto, ndr] nella capacità del suo popolo di ricominciare sempre
daccapo”.
Brescianità è forza di ricominciare sempre da capo. È in questa chiave
che vanno riletti: il rinnovamento dell’agricoltura bresciana all’inizio
dell’Ottocento, nella fascia pedemontana e collinare; lo sviluppo, nella stessa
epoca, dell’industria in Val Trompia e Val Sabbia; lo sviluppo dell’industria
del cotone dopo la grande crisi della sericultura del 1846; il poderoso
sviluppo industriale del ventennio 1890-1910, dopo la prolungata recessione del
primo periodo unitario. L’attuale forza economica bresciana viene dunque da
lontano. E viene, non da questo o quel ceto, ma da tutta la popolazione, dal
saper fare diffuso, frutto di lotte molto dure. È quindi forza vera.
Il secondo pilastro è quello
di una profonda religiosità non clericale e sempre accompagnata da un forte
impegno per i temi dell’assistenza sociale e della formazione. Basti pensare a
quattro figure fondamentali: il vescovo Gaudenzio (366-420 d.C.); il monaco
Petronace (670-750 d.C.); Arnaldo da
Brescia (circa 1100-1155; Albertano da Brescia (circa 1194-1250).
Il terzo pilastro è un
grande rispetto per il lavoro e la dignità del lavoro e una grande abilità
manuale ed organizzativa di risolvere i problemi pratici apparentemente più
difficili. Qui il rinvio è alle tante testimonianze contenute nel mio libro: Città
di Brescia. Culla d’intrapresa.
Questi erano i tre pilastri
dell’orgoglio bresciano che si erano andati formando ed organizzati in me sia
attraverso la conoscenza di persone di eccezionale qualità che attraverso lo
studio della storia. Sicché quando in una mattina dell’autunno 1955, il sindaco
di Brescia Bruno Boni, giovane
proveniente dalla Resistenza (a venti anni era nella cella 101 di Canton
Mombello insieme ad altri prigionieri politici tra cui mio padre e sulla parete
della cella era scritto: “quando nel mondo l’ingiustizia impera la patria degli
onesti è la galera”) e che guiderà
mirabilmente la città come sindaco dal 1948 al 1975, mi telefonò per informarmi
personalmente che ero stato ammesso al prestigioso Collegio universitario
storico Ghislieri di Pavia (fondato nel
1567 da papa Pio V Ghislieri),
grazie a una borsa di studio del Comune di Brescia, intitolata a Zanardelli, ne
fui lieto e commosso ma non intimidito. L’orgoglio bresciano che avevo, pian
piano, consapevolmente, sentito crescere in me mi dava conforto e coraggio. Il sindaco Boni chiuse la breve telefonata
con queste parole, che mi hanno sempre accompagnato: “ed ora lavori sodo e si
faccia onore, anche per la città”. Ed è soprattutto questo terzo pilastro che
mi fa sentire più legato a Brescia che ad altre città che pure ho amato e amo.