ALFABETO DI
NOVEMBRE
di
Claudio Zanini
Marina Corona
Nell'esergo della raccolta
poetica di Marina Corona: Alfabeto Morse di Novembre (Samuele Editore), Eliot
avverte quanto il tenere tra le mani la vita dell'altro sia esperienza suprema
e terribile: può aprire il cuore o farlo sanguinare. In questo suo ultimo libro
di poesia, l'autrice testimonia con appassionato fervore un percorso complesso
in cui questi due esiti, gioia e dolore, contrapponendosi, si alternano oppure
si fondono insieme in dolente presenza. Il personaggio che irrompendo sulla
scena si presenta nella prima sezione del testo “Il burattinaio e l'ombra”,
è l'ambigua e duplice figura del Burattinaio: l'altro, che tiene i fili
della creatura governata a proprio piacimento, il burattino cui l'autrice da
voce. Seducente e ingannatore nello stesso tempo, il Burattinaio, ha un “viso
di cartapesta (…) incappucciato”, “un occhio e una guancia
celestini, (l'altra) di nera caligine”; mentre allo stesso
tempo è “agnello (e) negriero (…); pastore e padrone”;
cela “un uncino nella bionda luce dell'iride”, ha un volto “maschera
di lupo” e il “cuore scisso in due valve”. È il “pupazzo dagli
occhi vitrei” in forma di “pallone gonfio di gas esilarante”,
che avvince il suo burattino dal “cuore-carillon” e la testa
ciondolante. Buffo e sinistro, questo Burattinaio che, signore di lacci e funi,
lega indissolubilmente; quindi può troncare a propria discrezione il legame con
un fendente di scure dalla “lama affilata”; accompagnata da un “clangore
di anelli ferrigni che attorcono il cuore (…) luce impura (…) caligine scura”.
Marina Corona |
La sua figura clownesca evoca certi personaggi dipinti da Paul Klee che, immersi in un'atmosfera giocosa e fiabesca, suscitano nell'osservatore una sottile angoscia. Allo stesso modo, il grottesco Burattinaio dei versi di Marina Corona, induce un sorriso spontaneo che, tuttavia, immediatamente raggela non appena se ne scopre la crudeltà sotto l'apparenza ilare. Diventa necessario, quindi, reciderne i lacci e i cordami, affinché lui “(non tenga) più quel filo che serrava il polso”; e rovesciarne “l'ombra di lui nella spazzatura”, finché si sciolga “nella nebbia della città”; mentre lei, la vittima, può mostrare un “viso di Madonna ridente”. Allora una rondine “volerà oltre l'orizzonte”, “spezzando le catene”. E lei può affermare, infatti, con amara e tagliente ironia che “non piange la domenica”. Ci muoviamo, dunque, in paesaggi, atmosfere e luoghi di fiabesco e sospeso incantamento che, sebbene turbati da un'ombra sinistra, sono delineati con singolare delicatezza; atmosfere che richiamano alla memoria il mondo favoloso di un altro burattino, Pinocchio, dove si svela impietosamente la nostra eterna condizione di orfani e la colpa oscura che tale condizione implica. A tale proposito, nei versi di Corona si ritrova spesso la “macula nera tra le sopracciglia”, nella prima poesia; poi, “cicatrice del male” e “chiazza di notte nell'occhio” memoria forse della Lettera scarlatta di Hawthorne; quindi, sorta di oscura colpa interiorizzata. Fatale macula, cui corrisponde l'angoscia muta di “una museruola di silenzio”; tuttavia, l'autrice ci dice che ha “cancellato sulla fronte lavagna la parola rimpianto” e, come si è già notato, lei “non piange la domenica” poiché è costante la sua volontà di riscatto. Nonostante questo tenace impegno di affrancamento, permane invariato il senso d’intima scissione e perdita (dell'altro e di sé) a causa di una “lama affilata (che) ci ha tagliati, tu a destra e io a sinistra”; oppure della violenza di una separazione per opera di “una mannaia” o che sta nelle metafore del “candelabro a due braccia (e) due fiamme”, nelle due figure diventate inconsistenti come fossero di “vetro soffiato”; e nella casa dove restano “due magici ritratti (e) due ombre danzano una danza spettrale”. Lei stessa è fatta “d'aria solo a metà”.
È sconvolto, questo denso itinerario poetico, da una costante oscillazione tra incontri e separazioni, memorie e abbandoni, dolore di assenze, solitudine e intensa gioia per quelle presenze che hanno riscaldato il percorso esistenziale dell'autrice. Nondimeno, non c'è mai disillusione, piuttosto una dolente lucidità, l'amara constatazione di un aspro principio di realtà. Come quando dice, “sognato era il castello/che avevo costruito per voi (...) il “maniero dagli stendarsi rossi (...) crollerà (e) cadranno sgretolate le mura” e io “non sarò che ombra”. Quasi incessantemente fosse dissimulata la presenza di quella “macula nera tra le sopracciglia” citata dall'autrice nella poesia che apre la raccolta. Tuttavia, anche quando affrontano temi dolorosi, i testi sono attraversati da una vena di tagliente ironia che li rende leggeri conferendo loro una malinconica bellezza. Allo stesso modo la narrazione ha sempre un ampio respiro lirico, dove le immagini, le metafore, s'aprono in lampi di luce e, dilatando la presenza dei versi, evocano nel lettore fulminee visioni e uno sconfinamento in spazi più vasti. Come “la rondine albina” che, sosterà nello spazio lasciato dall'altro e “una rondine chiara” “volerà oltre l'orizzonte”. E, con ancora maggior passione e forza, quando l’io narrante ci parla, attraverso felicissime metafore, della figlia “(…) Spero che tu t’avanzi alla marina / come fiore che splende sulla riva (…) figlia che mi sei nata dalle rose”, “diventata luna”, “figlia della spiga azzurra / che ha il vento serrato nei chicchi”, oppure che “sei diventata lume e mi illumini gli occhi di terricola gioia”; e degli affetti più cari: del delicato ricordo della “diafana madre” (…) Ti porterò con me / come si porta un raggio nella mano (…) ti porterò come quel fiore / che m’infilasti nell’occhiello da bambina”; oppure, con struggimento, quando dà voce al padre: “Il vento / mi ha sepolto nelle acque / tieni nel cuore il mio volto nebbioso / (…) il mio ritratto è graffite di silenzio / sul tuo polso”.
Via
via che ci s’inoltra nella lettura si è colpiti dalla ricchezza della lingua in
un testo percorso da una tensione costante, dove efficaci ossimori e antinomie,
audaci accostamenti e allitterazioni scompaginano il senso nel suo apparire, lo
torcono e, rovesciandolo, suggeriscono una via di fuga, una scappatoia
inattesa, un’affermazione di riscatto entro spazi più ampi. Un inceppo nel
meccanismo (nella sapiente trama dei versi) che irridendolo lo rende quasi
inoffensivo. Mi vengono in mente dei fulminei e stridenti graffiti, abrasioni
sulla superficie d’un cristallo che, negandone il seducente nitore, rivelano
una strana contraddittoria bellezza: “il cuore è una castagna (…) nella teglia forata di un tempo immobile”,
“scomparirò nel giallo (…) frammento
di pulviscolo da una stella che amava”. “Fresche labbra fischietto d’angeli”.
In autunno, un brivido “squassa le foglie che hanno dita gialle /
srotola il rocchetto del cuore” e appare luce di trina bianca”,
“fuoco bianco e neve”, “la nebbia / ha il viso bianco di pena”,
“casa di nebbia”, “il grido verde degli alberi”,
e così via… Nella sezione “Alfabeto
morse di Novembre”, l’atmosfera si fa più intima e dolce,
come se l’autrice fosse “accucciata”
in un nido, in una “culla di ragno” e
confortata da un tepore di lumi, “Io, il
libro e la lampada”… mentre “l’ora scivola con dita di
carta”; e “la lampada è l’anima della sera / mi
acciambello al suo biondo fiato” (…); lei respirerà “in verde, in amaranto, in giallo”,
scaldata in una camera gialla, mentre “il
cielo (…) parla parole blu”;
visitata da memorie dolci, le “nostre
parole sono farfalle”.
Anche qui, tuttavia irrompe l’immagine aspra: “ghiaccio e filamenti di metallo (…) questa è la mia casa (…) e l’ultima cosa che rimane sono le ossa”, versi crudi e nitidi; ma subito, nella poesia che segue, dice: “Ho dipinto la mia casa d’azzurro (…) stanza celeste / che una debole luna sfiora / casa dell’anima semplice”. Sono versi questi che richiamano alla memoria certi dipinti di Chagall - la luna di Chagall, in particolare -; per esempio: “Mi son fatta della luna / una maschera bianca”. Qui, molte sono le immagini caleidoscopiche e ricche di colore che si richiamano l’un l’altra, come il susseguirsi di quadri in una favola dallo scenario fantastico. Nella terza sezione, “Il gong lunare”, nodi centrali sono separazione e assenza. “Ora mi fermo scendi dal cuore (…) fuori di me (…) che il gomitolo d’amore si dipani / tu che ne tieni un capo / e l’altro che mi sfugge dalle mani”; (…) vai burattino / Pinocchio retrocesso a marionetta / nella fessura stretta arsa della memoria”. È ancora la fosca figura del Burattinaio a proiettare la propria ombra e a vanificare ogni invocazione: “Ritorna / un giorno sarà tardi / la casa morirà”, “pallidissimo amato, / il tuo volto declina a occidente (…) naufragati come rottami (…) gli oggetti che ci facevano casa: un letto, una coperta, un piatto / ora giacciono rotti. (…) Silenzio (…) guardo il sole reclinare / fuori e dentro di me / per il sangue che anche si spegne”. Un esemplare intreccio d’antinomie lo troviamo nella poesia “L’assente”. Una stanza serale - luogo infantile e gioioso della memoria -, adorna di “pupazzi, ciucci, carillon”, rivela, nella solitudine del presente, risvolti amari e dolorosi: “io ho cento anni e anche tre / papà non c’è sotto la lana che mi copre, / è un’ombra (…) ogni sera è una morte leggera (…) suona il carillon e il pupazzo ha gli occhi vitrei (…) un guizzo di luce freddissima (…) il tempo ronfa nelle vene / nello scheletrico caminetto del costato / è un ciuccio fra i denti”.
Con questa immagine grottesca e
straziante del ciuccio nella bocca dello scheletro, evocante le macabre
rappresentazioni del pittore James Ensor, si chiude la poesia. Mentre “Due Novembre” suscita malinconiche rimembranze
colme d’amarezza: “I miei morti hanno una
sepoltura deserta / nessuno abbevera le rose (…) nessuna parola mite / per i miei morti così stanchi, dispersi”. La
raccolta, tuttavia, si conclude con un immaginato ritorno e una riunificazione
vagheggiati nella memoria. “(…) Sei
tornato, / il tuo passo risuona nella breve casa che si ravviva (…) una brezza leggera (…) ti è sulla fronte / come aura d’amore / che
ci fa due nella stanza rinata”.