Tanto per cambiare:
un rapido sguardo ai cinque fattori costitutivi
dell’economia
di Paolo Maria Di
Stefano
Necessaria premessa. L’insegnamento dell’economia in Italia
tradizionalmente individua i fattori della produzione in natura, capitale e lavoro. Non tutti i docenti ricordano
che quasi un secolo fa, ormai, ad essi fu aggiunta l’organizzazione, così come non tutti realizzano e segnalano la
funzione di capitale importanza che da sempre in economia assume la comunicazione, a mio avviso da
considerarsi a pieno titolo il quinto fattore.
In compenso, capita sempre più
spesso di imbattersi in tentativi più o meno suggestivi e corretti di
attribuire la qualifica di “fattore della produzione” a fenomeni i più diversi,
sì che il numero si espande all’infinito, e sempre con qualche grano di
attendibile verità.
Ad esempio, da qualcuno si
annovera tra i “fattori di produzione” l’impresa,
che certamente con la produzione ha a che fare, ma che, a mio parere, è
soggetto attivo di essa, non uno dei suoi elementi essenziali. Significa che
l’impresa utilizza tutti o parte dei fattori di produzione per perseguire la
propria causa ultima che non è il puro e semplice dar vita ad un prodotto –
bene o servizio che sia – bensì di realizzare uno scambio avente per oggetto
“quel determinato prodotto” al fine della creazione di utilità alla quale, nel
caso specifico di un’impresa privata (soprattutto), si dà il nome di profitto.
L’impresa non è fattore della
produzione ma soggetto che si attiva per utilizzare tutti o alcuni di essi al
fine di creare utilità.
E poi, forse, è anche da
ricordare che la produzione non è che uno degli aspetti dell’economia. Meglio:
è così se alla produzione si guarda come processo realizzatore dei prodotti, ai
quali occorre guardare come oggetto di quello scambio che crea utilità quando
correttamente condotto. Diventa invece elemento essenziale al concetto stesso
di economia quando a questa si guardi nel suo contenuto di
ordine sociale della ricchezza, cioè di “ leggi secondo le quali la
ricchezza delle collettività di individui si forma, si trasforma, si accumula,
si distribuisce, si consuma.”
[1] Ed è
anche da ricordare quanto scriveva Marshall nel 1920: “L’economia è uno studio
della ricchezza, e nello stesso tempo una parte dello studio dell’uomo”.
[2]
Occorre anche ricordare che nulla
esiste che non sia qualificabile come prodotto, cioè come risultato di
attività, non necessariamente ed esclusivamente umana e non necessariamente
volontaria e consapevole.
Ma la cosa forse più rilevante è
che non esiste nessun prodotto che non sia destinato ad uno scambio, e che il
concetto di “scambio” assorbe ogni e qualsiasi utilizzo di ogni e qualsiasi
risultato di ogni e qualsiasi attività, sia esso utilizzo effettuato dallo
stesso produttore, sia esso effettuato da soggetti terzi.
Poiché di scambio si può
correttamente parlare sia in senso interpersonale che in senso intrapersonale
[3].
Con conseguenze di non secondo
momento. Per esempio, la cancellazione della qualifica di “inutilità” che vada
al di là di un senso assolutamente relativo: inutile è un prodotto che non è
adatto alla soddisfazione di “quel determinato bisogno”. Anche il prodotto
apparentemente più inutile della faccia della terra ha la capacità di
soddisfare almeno il bisogno “creativo” di colui che lo ha prodotto
[4].
Mi rendo conto che la sintesi può
apparire difficile, ma non ho altra scelta qui e in questo momento Ma è
possibile un’ulteriore precisazione: non di “fattori della produzione” si
dovrebbe parlare, bensì di “fattori dello scambio". La produzione non
indirizzata allo scambio – ammesso e non concesso che ne sia possibile
l’ipotizzarla - sarebbe qualcosa (questa sì!) di assolutamente inutile. E
questo fa sì che al centro dell’economia si possa (si debba?) porre lo scambio,
e non più il prodotto che dello scambio null’altro è se non l’oggetto, ed alla
cui definizione è estranea la fisicità.
Di fattori della produzione si è parlato -e non del tutto
trasversalmente- in una sera di settembre nel corso della presentazione a cura
della Tigulliana di un saggio di Alberto Mingardi in quell’intimo e suggestivo
piazzale San Francesco in una Chiavari da sempre attenta alla cultura.
Un “fuori onda” ha avuto per me
un interesse particolare. Alla mia affermazione, peraltro del tutto informale e
casuale “nelle nostre università si insegna ancora un’economia vecchia e
superata, tanto che si sostiene che i fattori della produzione sono terra,
capitale e lavoro, quanto meno dimenticando l’organizzazione e la
comunicazione”, è stata opposta una nota interessante. “Ma organizzazione e
comunicazione sono un lavoro e senza lavoro la terra forse non è così
interessante. E dunque, i fattori della produzione possono essere indicati come
capitale e lavoro”. La mia risposta a caldo è stata “forse sì, ma questo
implica uno sforzo di classificazione ulteriore per spiegare concetti e
fenomeni non semplicissimi”.
E’ stata la prima volta che mi si
è prospettata la possibilità di ragionare in termini di “riduzione” anziché di
moltiplicazione dei fattori della produzione. E la cosa mi ha fatto pensare,
anche perché se non erro chi mi ha lanciato la provocazione è stato l’Autore
del saggio all’onore della cronaca, ponderoso quanto interessante lavoro in
strenua difesa dell’economia libera, del liberismo e della intelligenza del danaro- perché
il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio editore).
Intanto, ho messo del tempo a
realizzare che i relatori ragionavano facendo coincidere il concetto di
“economia” con quello di “capitalismo”. La conferma l’ho avuto solo a fine
serata, quando l’alto dirigente al tavolo dei relatori ha fatto esplicito
riferimento al capitalismo, tra l’altro rispondendo – solo in parte e a mio
modo di vedere non correttamente – ad una mia domanda sul ciclo vitale del
prodotto chiamato sistema economico attuale, ciclo a mio avviso nella fase
discendente e dunque in uno stato tale da richiedere interventi “strutturali”
(come oggi si dice), preceduti da un “disegno” di un sistema che, per esser
diverso, sarebbe comunque nuovo.
Una mia carenza, senza dubbio, ma
credo dovuta alla convinzione che parlare di economia, di mercato e di finanza
non significasse assolutamente limitare il discorso al capitalismo e neppure
all’economia libera o al libero mercato, come più comunemente si dice. Dal
momento che si possono ipotizzare tipi diversi di economie e di sistemi
economici, limitare il discorso alla sola economia capitalista è certamente
fonte di equivoci.
Affermare che i fattori della produzione sono solo due, capitale e
lavoro, conduce (tra l’altro) ad una conseguenza interessante.
Questa. Anche il capitale è
frutto di lavoro e comunque di attività, e su questo non mi pare possano sussistere dubbi di sorta. In
un modo o nell’altro, disporre di capitali significa che qualcuno – non
necessariamente il capitalista del momento – quei capitali ha costruito e
incrementato. Dunque, ha lavorato per poterne disporre e il disporne è a sua
volta un lavoro.
E se così è, non vi pare che i
fattori della produzione possano essere ridotti ad uno solo, il lavoro,
appunto?
Se così fosse – se, cioè, al
lavoro fosse possibile pensare come al solo vero “fattore della produzione” –
bisognerebbe riconoscere al lavoro una funzione assolutamente preminente
rispetto a qualsiasi altro elemento. Il capitale sarebbe di secondo momento,
rispetto al lavoro, e così la natura (la quale, peraltro, dovrebbe trovare una
sua collocazione a mezza via tra il capitale ed il lavoro), e così pure
l’organizzazione e la comunicazione.
Il che porterebbe a cercare,
individuare e realizzare una scala di priorità sia in termini di retribuzione
che di sacrifici eventualmente da sostenersi per supplire le sempre possibili
debolezze del sistema.
Forse non è così; forse è e
rimane vero che i fattori della produzione sono natura, capitale, lavoro, organizzazione
e comunicazione, ma certamente al lavoro spetta quel “quid” in più che ne
fa il fattore più importante in un mondo – quello dei fattori della produzione
– nel quale la natura, il capitale, l’organizzazione e la comunicazione si
dividono con esso l’essenzialità, nel senso che non si può parlare di economia,
non esiste economia e non esiste sistema economico che non dipenda dalla
contemporanea presenza di lavoro, natura, capitale, organizzazione e
comunicazione.
Allora il problema dei sistemi economici sembra essere una questione di bilanciamento tra i fattori
della produzione – e su questo nessuno credo possa obbiettare – e dipende dalle
priorità di volta in volta riconosciute ed applicate.
Così, il sistema capitalistico
discende dalla priorità assoluta data al capitale, e dunque dalla prevalenza
data alla sua sicurezza, al suo incremento, alla sua retribuzione. Che in virtù
della natura egoistica dell’essere umano, tende ad essere perseguita a scapito
della retribuzione degli altri fattori. E quando, pur di retribuire il
capitale, di accrescerlo o comunque di metterlo al sicuro da ogni rischio, si
sacrifica il fattore lavoro fino a livelli eccessivi, il sistema entra in
crisi.
Che è quello che sta accadendo, e
che peraltro accade ogniqualvolta si ecceda nell’assegnare il peso ad uno
qualsiasi dei fattori, si’ da determinarne la forza di prevaricazione.
Un esempio per tutti potrebbe
essere rintracciato proprio in quanto è accaduto (e sembra continuare ad
accadere) per quello che concerne la comunicazione la quale, soprattutto nella
sua forma di pubblicità, ha teso e tende a creare nella mente dei potenziali
consumatori o utilizzatori una visione distorta del prodotto proprio perché
eccessivamente valorizzata.
Ragionando come noi stiamo
cercando di fare, la crisi del sistema indica una via d’uscita proprio nel
proporre un nuovo e diverso equilibrio tra i fattori dell’economia,
segnatamente tra capitale e lavoro.
E questo può ottenersi
approfondendo lo studio della componente “lavoro” presente in ogni fattore
della produzione e determinando in base alla percentuale di impegno la sua
retribuzione in ciascuno dei rispettivi “mondi”.
Che potrebbe essere una prima
indicazione per tentare di strutturare un’uscita dalla crisi attuale che è,
ripeto, crisi di sistema.
E, anche, forse la situazione di
oggi potrebbe indurre a ripensare al significato profondo di quell’aggettivo
“libera” che tanto spesso si accompagna ad “economia”, insieme realizzando una
delle più profonde e drammatiche ragioni del contendere in tutto il vasto mondo
della “società” e dunque dell’intero genere umano.
La questione potrebbe trovare una
soluzione, probabilmente affidabile, se si ricordasse che al concetto di
libertà sempre di più si è andato associando quello di assenza di ogni e
qualsiasi limite, tanto che la definizione stessa di libertà suona
“stato di autonomia essenzialmente sentito
come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di
ordine morale, sociale, politico; la situazione relativa all’assenza di
costrizioni o limitazioni.”[v]. Che in un certo
senso, neppure troppo vago, riecheggia quella anarchia che si definisce come “
stato di disordine politico dovuto a
mancanza o debolezza di governo” o anche
“dottrina sociale e politica che propugna l’abolizione, per mezzo di rivoluzioni,
dell’ordine e della autorità costituita e accentrata, nonché di ogni forma di
costrizione esterna”[vi].
Forse non sarà superfluo notare
come a proposito dell’economia si insegni –almeno nelle nostre scuole- che il
diritto e la morale non hanno molto a che vedere con la scienza economica, che
da essi prescinderebbe proprio in nome della libertà.
In altre parole: gli scambi
economici e quindi il fenomeno che noi chiamiamo in senso stretto mercato se
non limitato da elementi e principi di etica e di diritto si realizza nel modo
migliore raggiungendo un equilibrio che, se turbato, tende a rinascere dalle
proprie ceneri, come l’araba fenice.
E proprio come accade per l’araba
fenice - della quale che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa - dell’esistenza
di questo equilibrio auto rigenerantesi dubita fortemente la scuola di
Keynes. Non perché non sia vero che, nei
loro momenti migliori, i sistemi economici siano in equilibrio, bensì perché la
storia sembra dimostrare che almeno per i turbamenti rilevanti, le cose vanno
diversamente, e il sistema economico, anziché tornare alla posizione di
equilibrio iniziale, tende ad allontanarsene sempre di più.
E noi stiamo attraversando un
periodo di turbamenti inequivocabilmente epocali.
A questo si aggiunga che secondo
la scuola di Keynes le posizioni di equilibrio di piena occupazione sono
l’eccezione: la regola è rappresentata da posizioni di equilibrio con un grado
più o meno rilevante di disoccupazione.
Allora il vero problema non è “la
piena occupazione”, bensì la maggiore occupazione possibile, nel quadro del
migliore equilibrio possibile tra i cinque fattori dell’economia.
I quali, tutti, sono condizionati
dall’etica, dall’equità e dal diritto i quali si pongono come elementi
essenziali di ogni e qualsiasi quadro di riferimento economico, sociale ed
individuale.
[1] Marco Fanno, Elementi di
scienza economica, Lattes & C.
Editori, Torino 1961, quattordicesima edizione.
[2] Alfred Marshall, Principi
di economia, traduzione italiana dell’ottava edizione inglese del 1920, nella
4a collana degli economisti, UTET
[3] Qualcosa di più attorno al
concetto di scambio è nel mio Il marketing e la comunicazione nel terzo
millennio, Franco Angeli, Milano 16° edizione 2004, pagg. 63 e segg.
[4] In proposito, il mio
Product management- dalla gestione del prodotto alla gestione dello scambio –
Franco Angeli, Milano, 4° edizione 2010
[v] Devoto- Oli Dizionario
della lingua italiana. La voce prosegue indicando per il lemma “libertà” al
negativo “atto o episodio che rivela mancanza di controllo o di ritegno
riconducibile, nei rapporti sociali, o a eccessiva coincidenza o a mancanza di
rispetto”. Lo Zingarelli specifica
“condizione di chi (di ciò che) non subisce controlli, costrizioni,
coercizioni, impedimenti e simili”.
[vi] Zingarelli e Devoto-Oli
cit.