UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 23 agosto 2024

MATTEOTTI: IL PACIFISTA E L’INNAMORATO  
di Angelo Gaccione 

Giacomo Matteotti
 
Per questo centenario dell’assassinio dell’esponente socialista Giacomo Matteotti (Fratta Polesine 1885 – Roma 1924), da parte del fascismo –Mussolini ne rivendicò pubblicamente la responsabilità alla Camera dei deputati – ho deciso di concentrare l’attenzione su due aspetti: quello di avversario della guerra, per la parte pubblica, e quello di uomo profondamente innamorato della donna che sarà destinata a diventare sua moglie, per la parte privata. Anche se separare la vita pubblica dalla vita privata è una forzatura per una personalità come quella del militante attivo concretamente impegnato e del teorico e organizzatore quale Matteotti fu. Le ipocrite celebrazioni istituzionali non potevano, per loro stessa natura, insistere sulla coerenza antimilitarista e pacifista di Matteotti; non potevano perché se ne sarebbero dovute trarre le conseguenze pratiche e le conclusioni: mettere in moto una seria iniziativa diplomatica per tentare di porre fine alla guerra russo-ucraina ed evitare ulteriori morti e rovine. Ma in un clima fortemente guerrafondaio come quello in corso, e con l’asservimento europeo alle decisioni Nato-Usa, era meglio evitarlo. 

Matteotti invece non evitò di schierarsi apertamente contro guerra e guerrafondai, entrando in conflitto con il suo stesso partito. Non si preoccupò di rimanere solo: accettò isolamento e solitudine, pagò di persona il suo rifiuto e continuò a scrivere e parlare contro guerra, nazionalismo, militarismo, senza venire a patti o tradire la propria coscienza. “Noi non neghiamo l’esistenza della patria, ma essa non è la nostra idealità; un’altra e più alta assai è la nostra aspirazione. E quando a paladini della patria si ergono i clerico moderati, i nazionalisti, i militaristi, cioè tutti coloro che necessariamente si contrappongono all’idealità socialista, e si servono anzi a tale scopo dello straccetto patriottico – allora noi insorgiamo anche contro la patria”. Siamo alla vigilia della Prima guerra mondiale, Più chiaro di così…

Queste invece sono parole di Piero Gobetti: “Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo sovversivismo, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità: era, contro la guerra, un combattente generoso”. E ancora: “Matteotti parlò contro la guerra […]. Ripeté il suo discorso, anche quando non c’era più pacifista che parlasse […]. Egli rimane come l’uomo che sapeva dare l’esempio”. Ci prova come può, Matteotti, ad opporsi alla Prima guerra mondiale ma l’ubriacatura nazionalista e guerrafondaia saranno più forti della sua volontà e del suo impegno: “Noi tendiamo con tutte le nostre forze al bene del proletariato, e perciò non vogliamo assolutamente la guerra, vogliamo la neutralità”. Non ci sarà alcuna neutralità, e il suo partito si farà travolgere dal clima bellicista che si è oramai impossessato dell’intero Paese. Echi di preoccupazioni se ne riscontrano anche nelle lettere che scrive alla fidanzata Velia, destinata a diventare sua moglie da lì a qualche anno. Leggiamone un passo: “Il pensiero di coloro che stanno uccidendosi è terribile; e mi par giusta l’insurrezione se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in una guerra contro l’Austria”. È una lettera del 3 settembre 1914 spedita a Velia Titta da Fratta Polesine.


Nella selezione pubblicata recentemente da Garzanti sotto il titolo: Quando si porta una speranza nel cuore. Lettere alla moglie, di missive ce ne sono 84. Una antologia che si apre con un testo molto breve e che data 21 agosto 1912 (di anni Matteotti ne ha 27, Velia 22); il loro rapporto è agli inizi, è ancora formale e si danno del lei. L’epistolario si chiude con una lettera del 16 luglio 1923; è inviata da Roma e c’è un passaggio che suona come una lucida premonizione: “Tutto quello che può avvenire fuori di male mi è indifferente, se il mio cuore può tremare per te come la prima sera che t’ha conosciuto”. Il male si materializzerà l’anno successivo sotto forma di delitto. Il clima era peggiorato già da tempo, e le lettere registrano qua e là la violenza squadrista: “Da tutte le parti ormai giungono notizie press’appoco simili: la lotta elettorale sarà impossibile. Meno pochi grandi centri finora intatti (Milano - Torino - Genova) in tutti gli altri è la stessa preminenza della delinquenza organizzata” (lettera del 15 aprile 1921). Non era stato facile il rapporto fra Matteotti e Velia: “Sono passati alcuni anni e li abbiamo trovati seminati di dolore più che di gioia” scrive in un passaggio di una lettera datata 7 gennaio 1922. Un bilancio pesante ch’era cominciato presto, e che con l’opposizione alla guerra si era materializzato in continui trasferimenti da un luogo all’altro, per impedirgli ogni propaganda: a Rovigo, a Verona, a Cologna Veneta, a Messina. 

Il matrimonio celebrato il giorno 8 gennaio del 1916 con rito civile a Roma, in Campidoglio, non servirà a lasciarlo tranquillo; infatti, benché riformato e posto in congedo illimitato, verrà richiamato alle armi e tenuto d’occhio per l’intero arco della guerra. La nascita del figlio Giancarlo il 19 maggio del 1918 lo troverà lontano, a Monte Gallo, e il giorno dopo scrive alla moglie: “T’immagini dove vorrei essere in questo momento? e le domande che ti vorrei fare e tutto ciò che vorrei sapere? (…) sarebbe tutta una folla di domande per sapere com’è, per avere le tue impressioni…”. E tuttavia la speranza e la forza tenace del sentimento amoroso non lo abbandonano un solo istante. 

Matteotti e Velia

Tutte le lettere ne sono percorse e la scrittura si fa tenera e poetica insieme, fino a raggiungere vette di vera e propria poesia. Leggiamo questo passo: “Quando si porta nel cuore una speranza ogni peso diviene leggero, e l’albero del male s’ingemma dei fiori del bene” (lettera del settembre 1917). E ancora: “Non c’è che attendere il giorno della resurrezione: sogno un mattino di cielo che tu verrai ad annunziarmelo. Credo che ci parrà di lasciare il grave corpo e aver solo l’anima per volare” (agosto 1918). “Appena vengo, prendo il tuo cuore nelle mie mani; da lui solo voglio la verità; da lui solo non voglio illusioni che non mi basterebbero mai. L’amore tuo intero tutto rivoglio; quello stesso che a te ridoni la forza e la vita” scrive il 3 novembre del 1918 questo giurista e riformatore sociale, e davvero fa vibrare il suo di cuore come il più caldo dei poeti. Nella chiusa di una lettera del 17 novembre del 1917 era arrivato a scrivere un rigo appassionato e poetico insieme: “Il mio amore ti sta intorno e ti fa festa”.

La moglie Titta Velia

Che Giacomo Matteotti avesse una spiccata indole poetica, tutto questo carteggio lo dimostra. Proviamo a considerare come veri e propri versi questo passo della lettera del 9 dicembre del 1914 e disponiamoli graficamente come tali:

Ho visto di là
tutto il sereno che m’ aspetta:   
aveva il colore degli occhi tuoi
quando interrogano e vedono.
Potranno diventare sereni anche i miei
bevendo alla tua luce?
Ora no, sono torbidi ancora,
e la sera si fanno neri
quando attorno il viso arrossa,
e hanno ombre che nascondono.   

Matteotti con suoi compagni

Chissà cosa pensavano di questo linguaggio immaginoso le autorità militari che lo avevano in custodia e che di certo controllavano la posta. “Temo molto che le mie lettere di qui vengano aperte e lette. C’è la guerra più vicina e ne diffondono le brutture i racconti di quelli che tornano o passano” scrive da Fratta Polesine l’11 giugno del 1916. Lo tengono lontano dal fronte, in esilio, perché temono il suo disfattismo, ma sono costretti ad abbeverarsi alla prosa di un uomo che non ha rinunciato a sentire appassionatamente, e soprattutto a rivestire di umanità e di bellezza la sua personale felicità.  
 

 

 

 

 

 

 

PAUSA


 

A partire da sabato 24 agosto “Odissea” farà una pausa in modo che anche il suo direttore possa far riposare gli occhi e la mente. Riprenderemo lunedì 2 settembre.
  

CATANZARO CON SIMONA MOLINARI
 
Simona Molinari

alla Scogliera di Pietragrande per la grande chiusura di “Jazz on the rock”


Una delle voci più importanti e apprezzate del panorama jazz chiuderà la prima edizione della rassegna.


Giunge al capolinea la rassegna musicale “Jazz on the rock”. Un viaggio fatto di quattro lunedì che ha regalato forti emozioni, suggestivi appuntamenti e straordinari artisti che hanno portato il grande jazz nell’incantevole Scogliera di Pietragrande. Nella sera in cui calerà il sipario su questa prima edizione, dopo tre artisti che hanno ammaliato il pubblico con strumenti come tromba, sax e piano, l’appuntamento di chiusura sarà affidato ad una delle voci più importanti del panorama italiano di musica jazz. Quello di Simona Molinari sarà, infatti, l’unico concerto cantato di questa edizione, per un evento che si preannuncia già come uno tra i più attesi e partecipati della stagione estiva.
Un’artista poliedrica, con sei album all’attivo, numerose collaborazioni con leggende del calibro di Al Jarreau e Gilberto Gil. Il concerto di Simona Molinari che avrà luogo lunedì 26 agosto 2024 alle ore 22.30, sarà un viaggio che l’artista farà prendendo lo spettatore per mano e conducendolo, attraverso le sue canzoni e la sua musica, dentro i tempi densi della vita: quello dell’innamoramento, quello della passione, quello degli inganni, quello del disincanto, quello dell’amore, quello dell’impegno.
“Simona Molinari è un’artista che mi ha completamente rapito fin dalla prima volta che ho avuto modo di ascoltarla nel 2012 durante l’Umbria Jazz e che ho fortemente voluto per questa rassegna. Portarla alla Scogliera, un luogo cui sono sentimentalmente legato, è un’emozione che sento davvero nel profondo” ha dichiarato il direttore artistico della kermesse, Andrea Porcelli.



Biografia
Cantautrice Pop Jazz con 6 album all'attivo. Collabora con Al Jarreau, Gilberto Gil, Peter Cincotti, Andrea Bocelli, Ornella Vanoni, Renzo Arbore, Massimo Ranieri, Raphael Gualazzi. Si è esibita al Blue Note di New York e Tokyo, al Teatro Estrada di Mosca e molti altri club e teatri del mondo.
Ha partecipato in gara al festival di Sanremo, con i suoi brani “Egocentrica” e "La Felicità" e altre due volte come ospite. Nel 2019, ha debutta come attrice nel film "C'è Tempo" di Walter Veltroni, firmando alcuni brani della colonna sonora. Nel 2022 Simona Molinari è stata insignita della Targa Tenco come Miglior Interprete per l'album "Petali", premio che le è stato riconfermato nel 2024 per “Hasta Siempre Mercedes”, il suo ultimo lavoro discografico pubblicato a novembre del 2023 con cui ha voluto rendere omaggio a una delle artiste più influenti e simboliche di tutta l’America Latina, Mercedes Sosa.
Prendendo ispirazione dall’opera teatrale “El Pelusa y La Negra”, una ‘storia cantata’ di Mercedes Sosa e Diego Maradona, creata dal poeta, drammaturgo, sceneggiatore e regista Cosimo Damiano Damato e di cui è protagonista, Simona ha creato un album che racchiude undici bellissimi brani: oltre alla rilettura di alcune perle del repertorio della Sosa (tra cui “Todo cambia”, “Gracias a la vida”, “Solo le pido a Dios”, “Canciòn de las cosas simples”), troviamo i classici argentini “Volver” e “El dia que me quieras”, e alcuni riferimenti a Napoli (tra cui “Caruso”). Le collaborazioni con Tosca e Paolo Fresu, e un brano inedito di Bungaro (“Nu fil’ e voce”) arricchiscono l’omaggio della Molinari alla voce argentina più potente e ascoltata del Sudamerica, simbolo della sua terra e della lotta per la pace e i diritti civili contro la dittatura. Simona Molinari ha inoltre firmato e interpretato il brano “Swing a Roselle”, inserito nei titoli di coda dell’ultimo recentissimo film di Giovanni Veronesi “Romeo e Giulietta”. La Scogliera di Pietragrande è dunque pronta ad accogliere questa grande interprete in un concerto esclusivo in programma per lunedì 26 agosto p.v. con apertura dei cancelli alle ore 22.00 e inizio delle spettacolo alle ore 22.30. Biglietti ancora disponibili ed acquistabili al seguente link: https://xceed.me/it/catanzaro/event/jazz-on-the-rock-simona-molinari--162840


LA POESIA


 
Luna rosa
di Laura Margherita Volante 
 
La luna questa notte
è di corallo soffuso e
se ne sta...
non vede non sente e
non sa niente
di lacrime e sospiri
sulle illusioni e...
c’è chi tace con gli 
occhi chiusi per non 
vedere...
La luna questa notte 
è di corallo soffuso e...
se ne sta...
padrona del cielo...
chi prega chi piange e chi 
sospira...
fa bene vederla... 
negli spazi lontani di chi 
guarda 
con un pensiero...

 

giovedì 22 agosto 2024

LA STORIA È DAVVERO MAESTRA DI VITA?  
di Luigi Mazzella


La cosiddetta “cultura Occidentale”, oltre alla caratteristica della sua natura sostanzialmente fideistica ( si crede nelle utopie e si evita di pensare alla loro irrealizzabilità; il fanatismo ideologico da “ultras” prevale sulla razionalità) presenta l’unicità di avere l’orientamento (in buona sostanza: duplice) dei tre rami del monoteismo religioso mediorientale analogo, in definitiva,  a quello (duplice anch’esso) del doppio hegelismo che continua a coprire l’intera vita politica (fascismo e comunismo) del vecchio e nuovo Continente. In soldoni i cinque filoni del (si fa per dire) “pensiero (!)” Occidentale si riconducono a due: 1) abbiate fiducia nei popoli-guida (fuhrer) che vi condurranno alla salvezza; 2) con l’amore o con la forza rendete tutti gli abitanti della Terra “uguali”.
Altro dato saliente è che tra i vari filoni, la guerra è permanente e si sviluppa atrocemente in maniera del tutto indipendente dall’orientamento religioso o politico delle parti in conflitto. Gli ebrei in campo religioso e i nazifascisti sul versante laico avevano entrambi la convinzione di essere amati da Dio ma il giudaico popolo prediletto ha rischiato di essere totalmente annientato e distrutto dai tedeschi che sentivano di essere, essi, e soltanto essi, nel cuore della Divinità (“Gott mit uns”).
“Oremus et pro perfidis Judaeis” è la locuzione latina, presente dal VI al XX secolo nella liturgia cattolica del Venerdì Santo, che la dice lunga sui rapporti tra ebrei e cristiani, almeno fino a quando l’industria delle armi e la Finanza non hanno trovato l’accordo tra Wall Street, City e IOR a cooperare per il benessere dei figli (dopo tutto, asseritamente) di uno stesso Dio.
Sulla guerra tra Ebrei, da un lato, e Islamici (Palestinesi, in primis) sul fronte opposto è persino ultroneo e superfluo soffermarsi: le molteplici iniziative intervenute sinora hanno messo in evidenza la sterilità e l’inutilità del cosiddetto diritto internazionale a fermare massacri di massa, genocidi, distruzioni indiscriminate anche di “civili” di ogni genere ed età. A testimoniare, storicamente, a quali risultati disastrosi abbiano condotto le contrapposte visioni politiche di nazi-fascisti e dei socia-comunisti, v’è il ricordo di eventi del secolo scorso a occupare ancora la nostra mente esterrefatta.

 

NON RICORDARE PRAGA INVANO
di Franco Astengo


 

Chissà se verificheremo un completo smarrimento della memoria ignorando la ricorrenza dell’invasione di Praga (21 agosto) da parte delle truppe del Patto di Varsavia e l’implicanza di quei fatti sull’allora movimento comunista internazionale e sul complesso delle relazioni internazionali all’epoca e nei tempi a venire? È probabile che ciò avvenga e di conseguenza una ragione di più per cercare di ricostruire (molto parzialmente) quello che era il clima politico dell’epoca contrassegnato dalla logica dei blocchi che stavano irrigidendosi, dalla guerra del VietNam che stava inasprendosi, dal conflitto israelo-palestinese, dall’emergere di forti contraddizioni nel processo di decolonizzazione, dalla scissione russo/cinese e dalla fase successiva alla rivoluzione culturale maoista: il tutto nell’anno dei portenti, pochi mesi dopo il maggio parigino e tutto il mondo giovanile, da Berkeley a Dakar, in grande fermento.
In questo contesto il tentativo della “primavera di Praga” iniziò coltivando l’ipotesi che fosse possibile andare oltre le diagnosi e i rimedi proposti dal XX congresso del PCUS nel 1956, utilizzando lo spazio aperto dalla nuova politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev che in quel '68 era già arretrata dentro la normalizzazione brezneviana.



L’idea di “andare oltre” il XX congresso pur essendo presente come corrente all’interno dei partiti comunisti in tutto l’ambito del Patto di Varsavia, ebbe effettivamente una funzione politica decisiva soltanto in due casi: in Ungheria e in Cecoslovacchia. La Cecoslovacchia era il paese dove più forte era il consenso e la partecipazione della classe operaia in un paese fortemente e modernamente industrializzato almeno nella parte boema e morava.
Di fronte alla politica di “normalizzazione” seguita ai fatti ungheresi del 1956 in Cecoslovacchia si era aperta, fin dall’inizio degli anni ’60 per poi prendere corpo nel corso del decennio, l’idea di un nuovo sistema politico.
Questa idea fu al centro dei più franchi dibattiti pubblici che ebbero luogo nei Paesi dell’Est, tra il gennaio e l’agosto del 1968.



Nella sinistra in cui i comunisti lavoravano in direzione dell’emancipazione politica delle forze sociali, c’era una traccia autenticamente pluralista.
Nel loro programma c’era anche, e veniva apertamente affermato da alcuni teorici del movimento, uno sforzo per cambiare i rapporti tra stato e società civile.
A posteriori, si può vedere in questo passaggio un primo accenno a una strategia che, più tardi, sarebbe stata applicata in Polonia: basare la lotta per le riforme su un movimento sociale esterno al Partito. Ma in Cecoslovacchia questa ipotesi fu prospettata solo quando il movimento della “primavera” era ormai sulla difensiva. Dopo l’aprile del 1969 il tentativo di riforma, nel senso tradizionale del termine, non costituì più un’opzione praticabile, ma le conclusioni da trarre dalla sconfitta non erano per nulla ovvie.
Al PCI, alla sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere compiendo uno sforzo  per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell’economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all’interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.



Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema. Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un’opposizione cui dar vita dall’interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un’alternativa.
La posizione del quotidiano “il Manifesto” restò sostanzialmente isolata sia sul piano internazionale (spaventoso il ritardo del PCF in rotta con gli intellettuali e del tutto sordo al 68 studentesco), sia all’interno del sistema politico italiano con il PCI non ancora  attrezzato ad affrontare il tema del centralismo democratico (nonostante un dibattito interno “aperto” almeno fin dal convegno del Gramsci del ’62 sulle tendenze del capitalismo e poi proseguito nell’XI congresso), il PSI impigliato nelle spire dell’esito negativo delle riunificazione socialdemocratica (nonostante alcuni seri tentativi della sinistra interna) e lo PSIUP la cui maggioranza si era allineata alle posizioni dei “carristi” perdendo quelle posizioni di originalità che pure potevano trasformarlo in un soggetto critico e dialettico nell'ambito della sinistra italiana.



In seguito Rossana Rossanda introducendo, dieci anni dopo, a Venezia un convegno su “potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie” organizzato dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono per la prima volta di persona dissidenti dell’Est russi, polacchi, cecoslovacchi, sostenne che si era smarrita in quel frangente l’idea del socialismo, non come generica aspirazione, ma come “teoria di una società”, modo diverso degli uomini di organizzare la loro esistenza.
Ricordare gli elementi fondativi della primavera di Praga, oggi di fronte al fallimento epocale dell’ipotesi capitalistica seguita alla caduta dei blocchi e all’affermazione di un solo modello di egemonia sociale fondato sull’iper-liberismo e sull’assolutismo della finanza su cui si è basato fino al 2008 il modello di globalizzazione potrebbe rappresentare ancora esercizio utile se partiamo proprio dall’idea di non abbandonare l’obiettivo di una società “altra” fondata sull’eguaglianza e sulla fine dello sfruttamento indiscriminato sul genere umano e sulla natura, che erano rimastele aspirazioni di fondo anche di coloro che condussero, sconfitti, quel drammatico frangente dell’Agosto 1968.

 

 

A VARESE VOCI DA GAZA







PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


 

 Saturno

Si continuano le considerazioni sulle parole che contengono la teta.
La radice σαθ (genera il mancare il crescere), che, in greco, aveva fatto dedurre σαθή: membro virile e σάθων: giovinetto vigoroso, servì ai latini, ormai contadini, per formare il supino satum (in ciò che è stato seminato si deduce ciò che è cresciuto) del verbo sero (dal generare il mancare dallo scorrere) sevi, satum: semino/seminato e seminativo. Nel satus, in chi ha seminato/in ciò che è stato seminato, è avvenuta la crescita, conseguente al mancare del seme. Quindi, σαθ divenne una radice, da cui: satis: abbastanza, susseguente a questa perifrasi: genera il mancare il crescere, a causa del legame; quindi: satur come grembo cresciuto al massimo, da rendere con: saturo, sazio, sazietà, poi: satura lanx come piatto pieno di frutti o una sorta di panzerotto farcito come offerta votiva. Quindi: per saturam: senz’ordine, irregolarmente, da cui la satira come genere letterario, in quanto da una vicenda ingarbugliata, dove il mancare cresce, si perviene a legare l’ordito della vicenda. Inoltre, dentro il concetto di satur si deduce la divinità di Saturno, dio dell’agricoltura, dell’abbondanza (come crescita), tutt’uno come mitico dio dell’età dell’oro, cantato nelle elegie di Tibullo.


Si ricorda, incidentalmente, che, invece, dalla radice σατ, da decodificare: genera il crescere il tendere, fu dedotto satrapo, che è colui cui il sovrano, dai vasti/cresciuti territori, affida il governo di una provincia, furono ricavati: satiro, fecondatore per eccellenza, satiriasi, come priapismo per qualche pozione azzurrina e il dramma satiresco.
Dalla radice ανθ assibilata in ανς (da dentro il crescere), i greci avevano formulato: νθέω: fiorisco e νθος: fiore.
I latini dalla radice ανθ/ανς elaborarono ανθ(η): prima (nel tempo), davanti (nello spazio). I latini, presumibilmente, indicarono prima, dalla crescita del flusso gravidico, e davanti, in quanto il grembo che cresce è davanti alla gestante e agli astanti. Tengo a precisare che, i greci, in νθ-ίστημι: pongo in faccia, pongo contro, con ανθ, avevano prefigurato davanti. I latini, inoltre, da questa radice, dedussero: ansa come manico della panciuta brocca, sicuramente: anser anseris: (la grassa) oca, antiquus: antico, che è l’anteriore di prima, il prima prima (quando Berta filava!). Probabilmente, in antiquus, così come in arcaico, si può intravedere il superamento di una concezione del processo formativo!


Anche gli italici utilizzarono ansa, dando, però, il significato di protuberanza della gravida; formularono anche: ansare, ansante, ansimare, poi: ansia per l’evento nascita, per i latini: anxius (ansioso), anxia (ansia), che rimandano allo stesso contesto, ma dedotti da: γχω, in latino: ango: stringo, che contestualizza la creatura avviluppata nella fase del travaglio, con conseguente possibile nocumento per la creatura stessa e per la gestante.
Come ho già detto, la consonante θ (teta) molte volte si assibila, come in ρίς ρινός, in latino nasus (alla greca: ναθος).  Entrambi definiscono una funzione di questo organo: fiutare l’eventuale ingravidamento. I greci dissero: va a scorrere il crescere, per cui si genera (manca) ciò che annusa; i latini dissero: da dentro il crescere è quello che ci vuole: il naso. Si sottolinea che nascor/natus contengono lo stesso tassello: ναθχωρ (quindi: νασχωρ) /ναθος.  Il respiro affannoso, conseguente ad una patologia, fu reso dai greci con il conio σθμα ατος, deverbale di ω: respiro, la cui perifrasi suona così: il respiro manca (as)/genera per una crescita, che persiste legando.
Il verbo deponente reor reris/ratus sum: penso, credo, giudico, stimo ha, al perfetto, una radice completamente diversa, che ha consentito a rat, da scrivere alla greca ραθ (genera lo scorrere il crescere), sviluppi logici del tutto inattesi. Come si è detto innumerevoli volte, i verbi deponenti indicano il punto di vista di chi osserva il processo di formazione dell’essere, per cui il pastore latino asserisce che, osservando il grembo della gravida, deduce penso, credo ecc., ma, al perfetto, per indicare chi ha pensato, elaborò una perifrasi di questo tipo: ciò che è conseguito dallo scorrere il crescere l’andare a mancare per ottenere la creatura. Da qui il pastore, o chi per lui, deduce un concetto forte, contenuto in ratio rationis, il motivo per cui si attiva il processo di riproduzione, dal pochissimo (il seme di grano) ottenere moltissimo (la spiga di grano). Poi, altri, non i latini, dedussero, razionale come dedotto da ratus: pensato. Molto probabilmente, fu dedotta dagli italici la ragione, anche se, per quest’ultima, si deve pensare alla radice ραγ (dallo scorrere genera). Inoltre, dalla radice ραθ furono dedotti sicuramente il sostantivo ratto e l’aggettivo ratto: “ch’al cor gentil ratto s’apprende”.



Si riportano i significati assegnati al participio/aggettivo ratus: valido (da cui: ratifica), costante, fisso, stabilito, anche per capire il significato in italiano di razione (di cibo). Sicuramente il significato attribuito a rata, quindi a rateo e a rateizzare, è frutto di un divenire della parola, i cui germi possono essere: sulla base della crescita (dallo scorrere il crescere) si divide in quote fisse proporzionali (pro rata parte: in parte proporzionale).
Per quanto riguarda la parola razza, bisogna dire che è stata coniata dagli italici e si può pensare che, inizialmente, indicasse un animale di una stessa famiglia che aveva particolari caratteristiche. Pertanto, il significato dato dai moderni a razza e a razzismo è stato acquisito. Si può supporre che sia stata dedotta dalla radice ραθ con l’aggiunta del calco ια/ja e che, quindi, il significato della perifrasi si possa rendere così: è ciò che si genera dallo scorrere il crescere, che è una definizione sintetica e riduttiva e che, comunque, puntualizza lo sviluppo dell’animale.



Molto probabilmente la radice di grat-us rimanda al tassello χραθ, perché in greco con χάρις χάριτος, prima dell’assibilazione χαριθ, furono indicati: grazia (anche Grazia in senso cristiano), bellezza, favore, gratitudine, riconoscenza e con Χάριτες Χαρίτων: le Grazie. Infatti, in gratus (è ciò che lega il generare lo scorrere del passare il crescere) sono presenti i concetti di gratitudine per quello che la mamma ha fatto e di bellezza, se da gratus discende anche grazioso, mentre da gratia fu dedotto l’avverbio gratis. Inoltre, da grat fu dedotto il verbo deponente grat-ulor: manifesto la mia propria gioia, mi rallegro, manifesto gratitudine, ringrazio e, quindi, congratulo.
Mi piace soffermare l’attenzione sulla parola stilla, che ha dato luogo a stillare, a instillare, a distillare. Il crescere e il far crescere è proprio della femmina, per cui da θάω furono ricavati: succhio, mungo, allatto, mentre da θήλη
: mammella, capezzolo, gli italici dedussero appunto: stilla, che, come tante parole, è un deittico.

mercoledì 21 agosto 2024

TOGLIATTI
di Franco Astengo
 
Palmiro Togliatti


Il PCI, la repressione operaia e contadina.  
 
Il ricordo dei sessant'anni dalla morte di Palmiro Togliatti è stato sviluppato in diverse sedi giornalistiche analizzando essenzialmente la questione del ruolo tenuto dal PCI rispetto all’Unione Sovietica, alla divisione del mondo e - sul piano interno - nella costruzione costituzionale con un evidente riferimento al tema della “doppiezza”. Pressoché inesplorata (e dimenticata) la parte relativa al ruolo che il PCI ebbe in quegli anni della ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra. Erano gli anni ’50: quelli della polizia di Scelba davanti alle fabbriche o ai campi occupati dai contadini, quando il proletariato contava i suoi morti e lottava per affermare una diversa condizione di vita partendo da Portella della Ginestra all'assassinio di Placido Rizzotto e poi da Modena a Melissa, da Montescaglioso a Battipaglia.
L’Italia dell'emigrazione umiliante e tragica, nel ricordo imperituro di Marcinelle. Chi ha attraversato quel periodo, ad esempio abitando in una città operaia e facendo parte orgogliosamente di quella classe, ha ancora nelle orecchie il suono lacerante delle sirene, lo stridore delle gomme delle camionette che salivano sui marciapiedi dove i manifestanti cercavano di ritirarsi, il Natale trascorso sotto le ampie volte di una fredda fabbrica occupata oppure in piazza attorno a falò improvvisati, il commissario con la fascia tricolore che ordina la carica, la miseria nelle case dove ci si radunava per cercare di dare sostegno a chi proprio non riusciva più a cucire il pranzo con la cena ma anche la solidarietà dei commercianti che facevano credito e tiravano giù le saracinesche quando c’era lo sciopero.
Il PCI (e la CGIL) ebbero un ruolo fondamentale nella difesa delle grandi masse operaie e contadine, per il loro riscatto sociale e culturale realizzato anche attraverso una funzione pedagogica del tutto fondamentale e costruendo una comunità solidale e partecipe.
Quando si analizza il periodo della segreteria Togliatti, oltre alla svolta di Salerno, al “partito nuovo”, al voto sull’articolo 7, alla capacità di lettura e diffusione dei Quaderni gramsciani non si può assolutamente dimenticare il ruolo svolto dal partito e dal sindacato nel periodo di pesante repressione di marca democristiana (senza dimenticare la pressione della Chiesa pacelliana sulle coscienze di un’Italia ancora fortemente legata alla visione integralista di un paese a trazione rurale). Una fase nella quale il mondo era ancora pesantemente condizionato dal pericolo di guerra globale: periodo incrudito dall’evidenziarsi della minaccia atomica già attuata dagli USA a Hiroshima e Nagasaki. L’Italia del boom nacque in quel modo, attraverso i sacrifici immensi delle lavoratrici e dei lavoratori passati attraverso una temperie straordinariamente pesante, nel periodo - è bene ricordarlo - immediatamente seguente alla guerra, all’invasione nazista, alle deportazioni, alle fucilazioni, alla Resistenza: tutti frangenti drammatici nel corso dei quali il PCI fu fondamentale per tenere unita la classe, difenderla, preparare la controffensiva. Chi ha vissuto sulla propria pelle quei tremendi anni ’50 ha oggi la sensazione del ritorno all’indietro, ma anche di un peggioramento secco della capacità collettiva di capire la condizione nella quale ci si sta trovando alle prese con l’arroganza schiavistica di una multinazionale del potere dal volto e interessi ignoti solo apparentemente rappresentata - nel “caso italiano” - di un davvero esagerato revival della destra nazionalista e corporativa.



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