UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

giovedì 17 ottobre 2024

DEPORTAZIONI
di Luigi Mazzella



A quando una “regina” d’Italia e d’Albania?
  
L’idea di “deportare” individui per così dire “scomodi” in luoghi lontani dai propri occhi sembra essere tipicamente anglosassone. È stata inglese l’iniziativa di deportare in Ruanda gli immigrati illegali sbarcati sulle coste britanniche.
È stata statunitense quella di ammassare nella prigione americana (detention camp) sita a Guantanamo, sull’isola di Cuba, i sospetti colpevoli di terrorismo.
Dallo schieramento politico delineatosi in Italia quando vi è stato l’annuncio dell’apertura  in Albania  del primo campo di accoglienza per profughi , molto simile a una prigione (e ciò anche nelle parti del complesso privo di  sbarre alle finestre) e gestito da autorità statali della Repubblica Italiana in onerosa missione all’estero, e contestualmente dell’arrivo dei  primi sedici (diconsi: sedici) immigrati sbarcati sulle nostre coste, vi è stato chi ha colto nell’iniziativa la presenza dello  “zampino” d’oltreoceano e d’oltre manica e il segnale che Giorgia Meloni detiene sempre più “del cor di Federigo ambo le chiavi”, (nella sua versione odierna anglo-americana, bideniana e laburista). Non a caso, infatti, l’altra forza politica italiana (il partito Democratico di Elly Schlein) aspirante ad ottenere, dopo il passaggio all’ “atlantismo” di Giorgio Napolitano, il favore e la predilezione dello zio Sam, ha contestato vivamente (anche per i suoi alti costi) l’apertura del “camp”, adombrando l’ipotesi che molte caserme italiane presso che vuote avrebbero potuto essere adeguatamente e opportunamente restaurate. Anche il sistema mass-mediatico ha dato, con le interviste ai soliti “noti”, il suo contributo, utile a darci conferma dell’originaria matrice anglosassone dell’esperimento albanese. I filo-americani, anche al di fuori dello schieramento “Meloniano” (fedele, per sua natura, a Biden, Netanyahu e Zelensky, “perinde ac cadaver”) sono venuti fuori elogiando la “trovata” che riporta “in sedicesimo” (dopo i fasti mussoliniani) l’Italia in Albania, scimmiottando i tempi di Vittorio Emanuele III. Dulcis in fundo, è arrivata l’approvazione dell’Unione Europea con le parole “rassicuranti” di Ursula Von der Leyen e di molti esponenti politici fedeli alla Casa Bianca e a Downing Street n.10.
Domanda: Si può ritenere veramente infondata la preoccupazione relativa allo attuale orientamento degli angloamericani favorevole all’estrema destra in tanti Paesi Occidentali come una rinascita “vichiana” delle simpatie filo-naziste che già caratterizzarono importanti personaggi  persino della Corte Britannica oltre che dell’aristocrazia inglese e della politica Statunitense prima della seconda guerra mondiale, conclusasi con una bomba atomica a Hiroshima, del tutto inutilmente ripetuta a Nagasaki?
Ultim’ora: Dei sedici (16) immigrati sbarcati in Albania, quattro (4) sono stati “restituiti” all’Italia. Sono rientrati sani e salvi: è scomparso tra i flutti marini solo il “senso del ridicolo”.

 

LIBANO
di Maurizio Vezzosi



Quali prospettive per l’offensiva israeliana in Libano?
 
Beirut. Pur conducendo una politica di annientamento nei confronti della popolazione di Gaza e pur avendo inflitto importanti perdite ad Hamas le forze israeliane sono lontanissime degli obiettivi annunciati nell'ottobre 2023, così come dal controllo di Gaza. Impantanate lì da oltre un anno le forze israeliane stanno incontrando serie difficoltà nelle operazioni terrestri a ridosso del confine libanese, subendo perdite significative sotto il fuoco costante di Hezbollah. Oltre a colpire con sistematicità Beirut e la valle della Bekaa i bombardamenti aerei israeliani stanno radendo al suolo interi villaggi di confine, nella convinzione che questa scelta possa rendere praticabile la penetrazione terrestre, al momento pressoché in stallo. Gli scarsi successi nelle operazioni terrestri potrebbero far prediligere alla dirigenza israeliana la destabilizzazione interna del Libano, trascinando il paese in una nuova guerra civile.
In Italia è passato quasi inosservato il primo attacco israeliano ad una posizione sul confine occupata dall'esercito libanese, fino ad oggi rimasto del tutto a latere dello scontro tra Hezbollah e le forze israeliane. Come se non bastasse l'aviazione israeliana martedì scorso ha bombardato per la prima volta anche nel nord del Libano colpendo il villaggio di Aito - peraltro a maggioranza cristiana - con un bilancio di almeno 8 feriti e 21 morti. 



Un eventuale allargamento delle operazioni terrestri israeliane alle alture del Golan, alla Siria sud-occidentale e addirittura alla Giordania costituirebbe un aumento dei rischi per Tel Aviv, così come per l’intera regione. Sul confine meridionale del Libano gli attacchi israeliani al contingente UNIFIL si sono ormai fatti consuetudine: i comunicati stampa e le proteste formali difficilmente faranno ricredere l'attuale dirigenza israeliana della loro inopportunità. Certo è che UNIFIL rappresenta un ostacolo per le ambizioni di Tel Aviv che ne pretende, in un modo o nell’altro, il ritiro o addirittura lo smantellamento. Uno scenario che liquiderebbe decenni di lavoro politico e diplomatico, riducendo fortemente il ruolo dei paesi coinvolti - come l’Italia - È opportuno ricordare come la macchina bellica israeliana non avrebbe avuto e non avrebbe alcuna possibilità di realizzare i principali attacchi in tutta l’area in cui la guerra è già un dato di fatto - Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen - senza le colossali e costanti forniture statunitensi. Gli avvenimenti delle ultime settimane in Libano sembrano il prologo di una lunga guerra: rispetto a questa possibilità occorre avere chiaro come né Hezbollah e né l'Iran mai accetteranno un cessate il fuoco in Libano slegato da un cessate il fuoco a Gaza ed in Cisgiordania. Intanto Tel Aviv sta facendo già i conti con seri problemi economici causati dagli attacchi provenienti dal Libano, dal reclutamento di uomini e dalla paralisi del porto di Elat provocata dagli attacchi nel Mar Rosso delle milizie di Ansar’allah (Houthi). Sia sul piano economico che su quello politico interno Tel Aviv potrebbe non reggere l’urto di uno scontro di lungo periodo ad intensità variabile: in Libano così come a Gaza il tempo sembra giocare tutto contro Israele.
  

GUERRA: PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI
di Coordinamento per la Pace - Milano



La stragrande maggioranza dei parlamentari europei ha votato per la guerra e approvato l'utilizzo di armi a lungo raggio al di fuori del territorio ucraino, portandoci verso uno scontro aperto tra la NATO e la Russia. Mentre in Medio Oriente, con il supporto e la protezione statunitense e dei governi europei, la furia genocida sionista per realizzare la “Grande Israele” non ha limiti: commette impunemente ogni tipo di crimine e minaccia di ridurre tutta la regione a un cumulo di macerie, come del resto ha già fatto nella striscia di Gaza e sta facendo in Libano. Israele cerca inoltre di coinvolgere direttamente gli USA, con tutta la loro potenza di fuoco, nella guerra contro l’Iran e arriva addirittura ad attaccare militarmente i caschi blu dell’ONU, comprese le rispettive basi italiane.
Non si può più stare zitti. È il momento di mobilitarsi contro chi la guerra la promuove, la sostiene e la alimenta con soldi, armi e propaganda. È ora di finirla con le ambiguità e la subalternità alla propaganda di guerra: vanno individuate le cause, i responsabili e bisogna smetterla di usare gli stessi slogan con i quali la propaganda giustifica le guerre in corso.
Quando per lanciare una manifestazione di pace, ad esempio, si scrive che “la giornata mondiale di quest’anno cade a un anno di distanza dall’atroce attentato terroristico di Hamas e dallo scoppio della guerra a Gaza, in cui sono state uccise decine di migliaia di civili, di cui oltre la metà bambini (senza menzionare chi è il responsabile dell’assassinio di bimbi e civili a Gaza), non si lancia un messaggio di pace per fermare le guerre, ma al contrario si contribuisce ad alimentare il pensiero che l’unico modo per fermare i “cattivi” sia la guerra. Non si possono ignorare tutti gli eventi antecedenti il 24 febbraio 2022 e il 7 ottobre 2023.
In Ucraina abbiamo assistito all’espansione della NATO ad Est dopo il 1991, al colpo di Stato di Euromaidan del febbraio 2014 sostenuto da Washington, all’invio dell’esercito ucraino e di battaglioni di ispirazione nazista contro le regioni del Donbass insorte.
Allo stesso modo, riguardo alla Palestina si ignorano decenni di oppressione coloniale, pulizia etnica, apartheid, furti di terra e di case, massacri, distruzioni perpetrate da Israele e si arriva ad omettere il diritto del popolo palestinese alla resistenza, mentre si accetta il diritto di uno stato occupante a “difendersi”, per poi magari criticarne ipocritamente gli “eccessi”. Questi eccessi sono, nella realtà, crimini di guerra e quelle che vengono definite “azioni mirate” o “operazioni limitate” sono rispettivamente atti di terrorismo e invasioni in piena regola, come sta accadendo ora in Libano. L’occupazione della Palestina e del Golan siriano sono un chiaro esempio del metodo coloniale israeliano nei decenni.
Bisogna invece prendere consapevolezza del fatto che gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo non hanno più la capacità di imporsi su popoli e nazioni in tutto il mondo. Consapevolezza che manca nelle élites e nelle classi dirigenti occidentali, le quali nel tentativo di fermare il proprio declino e la crescita di un mondo multipolare rispondono con la guerra, il riarmo, la militarizzazione della società e la repressione del dissenso. Il nuovo “decreto sicurezza” (DDL 1660/2024) non soltanto vuole soffocare il conflitto sociale, ma anche soffocare sul nascere qualsiasi idea non in linea con la propaganda di guerra, come del resto è avvenuto vietando il corteo nazionale dello scorso 5 ottobre a Roma, indetto per manifestare contro la prepotenza colonialista e per il diritto alla resistenza e alla pace.
Le lavoratrici e i lavoratori italiani ed europei hanno pagato per primi il carovita e insieme alle nuove generazioni pagheranno anche la progressiva deindustrializzazione, anche come conseguenza delle sanzioni e della guerra contro la Russia.
La NATO, in disprezzo della nostra Costituzione antifascista, ci sta trascinando in un’economia di guerra: nel bilancio dello Stato mancherà il denaro per sanità, scuola, ambiente e tutti quei servizi già oggi insufficienti. Si ipotizza che la manovra finanziaria 2025 debba coprire un buco di bilancio di circa 22-23 miliardi di euro, a fronte di almeno 15 miliardi di euro degli italiani finiti nelle tasche del regime filonazista ucraino.
Mobilitiamoci contro il governo Meloni e la Commissione europea di Von der Leyen, i quali ci portano verso una guerra che potrebbe essere devastante per l’intera umanità... prima che sia troppo tardi.



- NON UN UOMO, NON UN SOLDO, NON UN'ARMA PER LA GUERRA
- FUORI L’ITALIA DALLA GUERRA
- STOP AL GENOCIDIO IN PALESTINA
- CON LA RESISTENZA DEL POPOLO PALESTINESE
- GIÙ LE MANI DAL LIBANO E DAL MEDIO ORIENTE
- SÌ ALLE TRATTATIVE DI PACE
- SÌ A UNA CORRETTA INFORMAZIONE
Per aderire al corteo scrivere a
coordinamentoperlapacemilano@gmail.com
Qui l’evento Facebook:
https://www.facebook.com/events/448228881567508

 

DISERTIAMO LA GUERRA



L’epoca delle guerre hi-tech non ha cancellato il bisogno di carne da cannone da mandare al fronte. Anzi. Più s’inasprisce lo scontro tra blocchi capitalistici ed avanza l’economia di guerra, più progresso tecnologico e mobilitazione totale si alimentano a vicenda. Se la macchina del consenso bellico s’inceppa, la guerra non può proseguire a lungo. Nell’epoca cibernetica, l’umano gesto di rifiuto ancora conta. È quello che sta succedendo in Ucraina. Oltre alle migliaia già fuggiti all’estero - gli “scappati nel bosco” -, decine di migliaia di arruolati non tornano al fronte e centinaia di migliaia di arruolabili si nascondono. Mentre i reclutatori - i rapitori - dell’esercito incontrano una crescente ostilità sociale.
Questo fenomeno, che si registra in maniera crescente anche sull’altro lato del fronte, in Russia, va fatto conoscere e sostenuto pubblicamente come argine alla terza guerra mondiale. Il “nostro” fronte è quello della NATO e dell’UE, ed è innanzitutto questo fronte che dobbiamo contribuire a far crollare, esprimendo la nostra solidarietà internazionalista ai disertori, agli insubordinati, ai renitenti.
Questo fenomeno, che si registra in maniera crescente anche sull’altro lato del fronte, in Russia, va fatto conoscere e sostenuto pubblicamente come argine alla terza guerra mondiale. Il “nostro” fronte è quello della NATO e dell’UE, ed è innanzitutto questo fronte che dobbiamo contribuire a far crollare, esprimendo la nostra solidarietà internazionalista ai disertori, agli insubordinati, ai renitenti.


CSOA Cox18 via Conchetta, 18 Milano
(M2 Romolo-Bus 90/91-47 tram 3)
 
DOMENICA 20 OTTOBRE 2024
ORE 16,00
Assemblea pubblica. 
 

CORRUZIONE
di Franco Astengo
 


Privatizzazioni strategiche e questione morale. 
 
Dalla vicenda Sogei (così riassumibile nel titolo per ragioni di brevità) emerge un elemento fondamentale di valutazione politica: il quadro delle privatizzazioni assume un rilievo strategico non solo per la struttura industriale del paese in relazione all’innovazione tecnologica ma proietta il fenomeno sul terreno della sicurezza del Paese (e dell’Europa) e si connette a una “questione morale” di rilevanza assoluta, ben oltre la pur notevole consistenza delle “mazzette”. L’operazione Musk si collega con quella TIM/KKR (anzi Starlink punterebbe a sostituire per intero la gestione della rete nel nostro Paese). Un vero e proprio mutamento di paradigma. Siamo di fronte all’ennesimo passaggio che segnala l’assenza dell’Italia da una qualche idea di piano di strategia industriale. Ne avevamo già accennato: in piena contraddizione “sovranista” così si dimostra ancora una volta tutta la fragilità del contorto processo di privatizzazioni avvenuto in Italia nel settore decisivo delle infrastrutture tecnologiche. Questa sì è per davvero una pericolosa cessione di sovranità. Ci eravamo permessi di segnalare come si sia creata una situazione di evidente scalabilità e debolezza, a dimostrazione di una ormai storica incapacità di programmazione dell’intervento pubblico in economia e di assenza di politica industriale (che coinvolge anche l’Europa).

POETI A LEGNANO
Sabato19 ottobre 2024 al Castello di Legnano  




 

MIGRAZIONI SANITARIE
A San Donato Milanese




A TAURIANOVA




MELZI E LA GIUSTIZIA
Alla Biblioteca Chiesa Rossa


Cliccare sulla locandina per ingrandire


RABONI - MANZONI
A San Carlo al Lazzaretto




 

mercoledì 16 ottobre 2024

GUERRA TOTALE
di Paolo Vincenti
 

Di fronte alla drammatica escalation nel Vicino Oriente, tutto l’Occidente si interroga su quali ripercussioni potrebbe avere un conflitto su larga scala, ma soprattutto ci si chiede a quale livello di barbarie giungeranno i sanguinari mastini della guerra che governano le nazioni coinvolte. I bombardamenti dell’Iran su Israele non lasciano margini di speranza. La pioggia di fuoco che si è abbattuta alcune notti fa su Tel Aviv, di una potenza anche superiore agli attacchi missilistici di aprile, che avevano avuto più che altro uno scopo dimostrativo, fanno capire che l’Iran ormai fa sul serio. Fino ad ora, abbiamo assistito al fallimento di ogni mediazione diplomatica e ogni appello al cessate il fuoco, anche ai più alti livelli, è stato vano. L’Iran vuole spazzar via Israele, è la sua missione dichiarata da sempre. Israele vuole abbattere “l’asse del male” e, per far questo, attaccare e distruggere il paese degli ayatollah, che questo asse sorregge. La guida suprema dell’Iran, Khamenei, ha intimato ad Israele di non reagire, altrimenti sarà la fine. Difficile, quasi impossibile, che le parole del leader sciita vengano ascoltate dal premier israeliano Netanyahu che ha già annunciato una terribile risposta. Caldeggiato dagli Stati Uniti, Netanyahu fa bellicose dichiarazioni di pesanti conseguenze per la repubblica islamica.



È stato un anno di violenza sempre più cieca e fanatica, iniziato il 7 ottobre 2023. In quella fatidica data, Hamas, partito terrorista palestinese, con un attacco a sorpresa, ha compiuto una strage nel territorio del nord di Israele, massacrando donne, bambini, inermi civili nei kibbutz e tantissimi giovani che tenevano un rave party, rapendo degli ostaggi, molti dei quali si trovano ancora nelle mani dell’organizzazione armata. Israele ha risposto con una mostruosa potenza di fuoco su Gaza dove sono entrate le truppe di terra. Ad oggi, si calcolano almeno 41.000 vittime palestinesi (c’è chi dice molte di più), fra militari e civili, 2000 morti libanesi, fra militari e civili, e circa 750 vittime dell’esercito israeliano, cui si aggiungono i più di 1000 morti nel raid di Hamas del 7 ottobre 2023. A luglio, un capolavoro militare di Israele (si fa per dire): l’uccisione all’interno di un albergo a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Dal Libano del sud, roccaforte dell’altro partito oltranzista degli Hezbollah, intanto, partivano ripetuti attacchi missilistici su Israele spesso contrastati dall’efficiente sistema antimissile Iron dome. Il 27 settembre Israele uccide a Beirut il leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, decapitando così l’organizzazione estremista libanese. Questo assassinio politico fa scattare la reazione dell’Iran che, su ordine del leader supremo Khamenei, tenuto nascosto in un bunker, attacca con una pioggia di missili Israele come ritorsione per l’eliminazione di Nasrallah, definito “fratello” dalla guida spirituale iraniana nel suo discorso tenuto a Teheran alcuni giorni fa. Hezbollah, organizzazione sciita nata nel 1994 e “braccio armato” del paese dei cedri, dopo la morte di Nasrallah, ha insediato Hashem Saffiedine per continuare il jihad, ma fonti israeliane hanno comunicato di aver eliminato anche quest’ultimo nei raid compiuti fra giovedì e venerdì 4 ottobre a Beirut quando hanno sganciato tonnellate di bombe sul bunker sotterraneo dove il leader islamico teneva una riunione con i suoi dirigenti. Ci si chiede quanta parte della popolazione islamica libanese approvi i metodi violenti di Hezbollah, e quanta parte invece ne vorrebbe prendere le distanze e non si riconosce nel terrorismo armato del “partito di Dio”. 


Hezbollah è finanziata dall’Iran e con quel paese i rapporti sono strettissimi, anzi il “partito di Dio” si può considerare proprio un’estensione della potenza iraniana in Libano. E sebbene rappresenti una minoranza sciita libanese, la sua presenza soprattutto militare finisce per tacitare le altre voci nel paese. È appoggiata anche dalla Siria e qualcuno sostiene che sia proprio la milizia personale del re Bashar All Assad. Di Hezbollah è stato il principale braccio armato nella lotta in Siria contro l’Isis e alla sua capacità bellica (oltre che a quella russa) si deve la tenuta del regime siriano nella guerra civile scoppiata negli anni Duemila dieci. È per effetto dei grossi finanziamenti sempre ricevuti da Iran e Siria che Hezbollah riuscì a vincere la guerra lampo contro Israele del 2006 con un arsenale militare molto sofisticato che impressionò lo stesso stato ebraico. Anche se il partito di Hezbollah è minoranza nel parlamento libanese, la sua influenza è sempre grandissima grazie al potere di corruzione degli altri parlamentari, dei ministri, di giudici e giornalisti, tutti al soldo di Hezbollah. L’organizzazione criminale li ha comprati coi proventi della vendita della droga, in particolare la cocaina, un traffico molto lucroso. Si può capire che l’afflato religioso sia l’ultima delle motivazioni che spingono Hezbollah ad agire e come il sostegno della potenza sciita iraniana su cui essa può contare ingeneri paura nella maggioranza libanese (di qualsiasi colore siano i governi che si succedono), che è di fatto ostaggio di una minoranza agguerrita e tentacolare. Ora è crisi umanitaria, dopo l’attacco di Israele, con circa un milione di libanesi in fuga dalla propria terra. Una vecchia storia, la conflittualità fra Israele e Libano. La linea di confine fra i due paesi, stabilita dalla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, fissata nel 2006, non è mai stata rispettata. La linea di confine doveva essere quella del fiume Litani mentre Israele con i suoi attacchi ad Hezbollah l’ha spostata di trenta chilometri più a nord, oltre il fiume Awali. Ora Israele spera in un governo libanese sganciato da Hezbollah ma dovrebbe prima di tutto accettare l’obiettivo di smilitarizzare la fascia di territorio di confine fra i due stati, da porre possibilmente sotto il controllo dell’Unifil.


Ad ogni colpo segue un contraccolpo e l’intervento armato di Teheran era scontato. L’Iran ha costruito grazie all’appoggio di Hezbollah e di Hamas una cintura di fuoco intorno ad Israele e ha tentato sempre di isolare il paese nel contesto sciita mediorientale in modo che fosse più facile poi muovere l’attacco decisivo, definitivo, quello della agognata sua distruzione. Il Presidente Pezeshkian aveva avvertito Netanyahu che ci sarebbero state delle gravi conseguenze. Ma Israele, fidando nell’incondizionato appoggio degli Stati Uniti, ha alzato la posta. Certo, il paese ebraico può contare sulla formidabile intelligence del Mossad, una delle più efficaci al mondo, ma la corsa agli armamenti e la virulenta progressione degli ultimi mesi è attribuibile più che altro ad un Presidente, Netanyahu, che in vistoso calo di consensi prima del 7 ottobre, ora è divenuto molto popolare e cerca di perpetrare il proprio potere evitando per quanto possibile nuove elezioni grazie allo stato di guerra. Nell’attuale situazione di emergenza infatti, sono passati in secondo piano anche i suoi processi per corruzione. Tuttavia, di fronte ad una potenza guida come l’Iran che vorrebbe far sparire Israele dalla carta geografica e che si organizza da anni per la “soluzione finale”, è saggio, ci si chiede retoricamente, che Netanyahu continui così? Da anni la popolazione israeliana è condizionata dal terrore delle bombe. La vita quotidiana a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa e nelle altre città è scandita dal suono degli allarmi. Per non soccombere nei raid i civili devono correre nei rifugi e barricarsi dentro fino al cessato pericolo. E poi di nuovo gli allarmi riprendono il giorno dopo. Chi non fa in tempo a mettere sé stesso e la propria famiglia in salvo nei rifugi, muore sotto il bombardamento di razzi e droni. Si tratta di una guerra permanente, che contrappone Israele anche agli Houthi dello Yemen, una organizzazione terroristica relativamente più giovane, che negli ultimi mesi si è distinta per i suoi attacchi proditori nel Mar Rosso destabilizzando il commercio marittimo globale.   

                  
L’obbiettivo che si è prefissato Netanyahu (il premier più longevo della storia di Israele) è addirittura il cambio di potere in Iran, e questo potrebbe costargli molto caro, rivelandosi un boomerang per la sua presidenza e per le sorti di Israele stesso. L’attacco missilistico iraniano è conseguenza della escalation militare ripetutamente stigmatizzata dal regime di Teheran, le cui minacce sono cadute nel vuoto. Israele prevedeva questa risposta dell’Iran e non ha fatto nulla per contrastarla ma l’ha anzi sollecitata. Le dichiarazioni infuocate degli ultimi tempi del Presidente Netanyahu, appoggiato da buona parte dell’intellighenzia israeliana, andavano in questa direzione e lasciavano prevedere l’ineluttabile: Israele vuole schiacciare l’Iran e attendeva il momento per farlo. Ma la strategia del Premier di Tel Aviv è azzardata e rischiosa ed e del tutto improbabile che in Iran ci possa essere un cambio di regime.



Quali sono gli schieramenti in campo? Gli analisti geopolitici ci aiutano a capirlo. Dalla parte di Israele vi sono, almeno ufficialmente, i paesi arabi di Egitto, con cui venne stipulato un accordo di pace nel 1979, e Giordania, dal 1994; inoltre i paesi interessati dagli Accordi di Abramo, stipulati nel 2020, sotto l’egida degli Stati Uniti, e cioè Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco. Gli accordi di Abramo, fortemente voluti dall’allora Presidente Trump, firmati a Washington e così chiamati dal nome del patriarca Abramo (riconosciuto da entrambe le religioni ebrea e musulmana) ora sono messi a dura prova dall’interventismo di Israele, certo poco gradito in particolare dalla Giordania. È dalla parte di Israele anche l’Arabia Saudita, la più grande regione islamica della penisola arabica e guida del fronte sunnita, sia pure in posizione critica, perché la monarchia saudita vorrebbe una normalizzazione della situazione politica regionale e depreca l’escalation militare in atto. Del resto, l’Arabia Saudita è minacciata dappresso dagli attacchi dei terroristi yemeniti nel Mar Rosso e inoltre, come paese islamico, chiede il riconoscimento ufficiale della Palestina come stato (propugnando la soluzione dei due popoli in due stati da sempre caldeggiata anche dall’Italia e da tanti paesi europei). Sono dalla parte di Israele poi gli Stati Uniti e quasi tutta l’Europa. Il Quatar e l’Oman mantengono una posizione neutrale. La Turchia è in una posizione ibrida, nel senso che da un lato condanna l’intervento militare di Israele, ma facendo parte della Nato non può scendere in campo contro lo stato ebraico. Il leader Erdogan, che ha in odio Israele, solidarizza con Gaza e la Cisgiordania.



Contro Israele, con la palestinese Hamas, c’è il contrapposto blocco sciita che vede insieme gli Hezbollah del Libano, gli Houthi dello Yemen, l’Iran. Dichiaratamente nemici di Israele sono la Siria e l’Iraq. Teniamo presente che Bassar All Assad ha più di un motivo per odiare gli Stati Uniti, fin dalla guerra di Siria, ed anche Israele, che a quella guerra prese parte a fianco degli USA (e che, ricordiamolo, ha causato mezzo milione di morti e oltre 10 milioni di profughi). Ma nel Medio Oriente si gioca una partita molto più grande, un confronto fra blocchi contrapposti e qualcuno dice persino “uno scontro di civiltà”. Uno scontro, cioè, fra la Russia, col suo protettorato su Siria, Iran e Turchia, e Stati Uniti, di cui Israele rappresenta la roccaforte mediorientale e gli alleati musulmani sunniti di Arabia, Giordania, Egitto. Ma la situazione non è così netta e schematica come è sembrato dalla succitata descrizione. Per esempio, gli Stati Uniti negli ultimi tempi hanno messo in atto una operazione di appeasement, cioè di concessioni allo stato iraniano, per evitare il conflitto, allentando le sanzioni e permettendo così che arrivassero molti finanziamenti all’Iran. Questo è il principale alleato della Russia che, come sappiamo, è in guerra con l’Ucraina, quella stessa Ucraina che gli Stati Uniti finanziano in quanto combatte una guerra per corrispondenza contro la potenza russa, che però è stata favorita dall’amministrazione Biden, solo per dirne una, dalla rinuncia alle sanzioni contro il gasdotto Nordstream 2. C’è molto di strano. Per il Medio Oriente si tratta di un mosaico non solo politico ma anche di etnie e religioni. Il quadro è talmente intricato che non è agevole decifrarlo. Oltre alla storica distinzione degli arabi fra sunniti e sciiti (pur nell’ambito della stessa religione islamica), vi sono gli ebrei, i cristiani cattolici, ortodossi, maroniti del Libano e della Siria (dove sono anche i caldei, i greco-melchiti e i siriaci), coopti d’Egitto, armeni, curdi, yazidi, e via dicendo.


Nel caso di un attacco frontale ormai imminente di Israele, ed è cronaca di queste ore, l’Iran dispone di forze armate più numerose ma Israele detiene una tecnologia più avanzata. Pensiamo all’esplosione contemporanea dei cercapersone e poi dei walki talki dei guerriglieri di Hamas di qualche settimana fa, che è sembrato un capolavoro di tecnica militare e di spionaggio da parte del Mossad. Niente di cui stupirsi eccessivamente, in realtà, per un popolo fra i più scaltri, intelligenti e organizzati al mondo. Già il vecchio leader di Hamas, Ahmed Yassin, fu ucciso nel 2004 facendo esplodere il suo cellulare. Il successore, Abdel Aziz Al-Rantisi, fu raggiunto da un missile mentre guidava la moto, quindi era un bersaglio mobile. Quelli del Mossad ne sanno una più del diavolo.
Hamas è stato una delle reazioni avverse, se così si può dire, nel tentativo di stabilizzazione della politica del complesso scacchiere. Sarà il caso di ricordare che alla sua nascita, nel 1987, Hamas venne finanziata sotto banco anche da Israele in funzione anti Olp e anti Fatah, il partito rivale di Hamas e considerato più estremista di quest'ultima. L’Olp poi, come ricordiamo, alimentava la rabbia palestinese e soffiava sul fuoco con le varie Intifada sebbene il leader Arafat fosse addirittura insignito del Nobel per la pace. In effetti, Al Fatah venne marginalizzata e tutto il potere con gli anni si concentrò nelle mani di Hamas. È proprio il caso di dire “non esistono innocenti, amico mio”, come l’ultima canzone dei Negrita.


La folla che assiepava la piazza di Teheran al discorso di Khamenei era immensa. Il regime degli ayatollah ha bisogno di legittimarsi dopo un periodo di sostanziale debolezza e per questo ha attaccato in forze Israele dichiarando anzi, il leader supremo, che l’azione intrapresa è solo una parziale risposta ai crimini commessi da Israele. Il sultano dell’Arabia Saudita, Mohamed bin Salman, alcuni anni fa ha definito Khamenei “l'Hitler dei nostri tempi”, cosa che fa un certo effetto se detta da un macellaio come il dittatore arabo e fa pensare al noto detto popolare “il bue dice all’asino cornuto”. Sul fronte opposto, i giornali e la tv riportano dichiarazioni di esponenti politici israeliani, studiosi ed analisti, che inneggiano alla fierezza ebraica e incoraggiano il leader Netanyahu a schiacciare la teocrazia. Bisogna andare dritti al cuore del problema, dicono in coro, che è l’Iran.


Chi fermerà l’assordante rumore dei bombardamenti? Biden, ormai un’anatra zoppa, continua ad incalzare l’amico Netanhyau per la de escalation ma senza esito. Il vecchio Joe ribadisce che non sosterrà un attacco israeliano alle basi nucleari iraniane ma Bibi non ci sente. Il premier israeliano in fondo aspetta e spera solo che vinca le elezioni Trump per tornare ad avere un appoggio totale e incondizionato. L’Italia non tocca palla. Il G7 convocato dalla Meloni è stato un fallimento in questo senso perché nonostante le richieste del segretario di Stato Blinken, l’Europa non ha deciso di attuare nuove sanzioni contro gli stati islamici. Il Papa invoca la pace del tutto inascoltato, ma questo va da sé. Monta la rabbia ed anche le proteste nelle piazze italiane con le eclatanti manifestazioni dei Pro Palestina. Dire che c’è da aspettarsi il peggio sarebbe come sminuire la portata di quanto è accaduto fino ad ora e non onorare la memoria delle tante vittime civili israeliane palestinesi e libanesi. Diciamo allora che il peggio può solo continuare.
 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 15 ottobre 2024

SCAFFALI
di Giancarlo Sammito



La poesia empatica di Antje Stehn
 
Benché la sua lingua di origine sia il tedesco, Antje Stehn sceglie per Guerra, sottotitolo: L’empatia è un lungo percorso di apprendimento (Rucksack Book Edizioni, pagine 70, 2024) un italiano di energica espressività e in versi liberi, con limitate concessioni liriche. Coordinatrice del progetto internazionale di poesia civile “Rucksack a poetry patchwork”, l’autrice si conferma fedele all’esigenza dello sconfinamento linguistico. Pace come contrario della guerra e comunicazione che può prevenire la violenza. Cos’è infatti la pace? “Da decenni / vogliamo parlare della pace / non esiste innocenza in questa parola / ciò che si stende tra guerra e pace / ha solo il breve respiro di una tregua”. Guerra propone visioni utopiche, purtroppo non più pre-visioni, che collocano proprio la pace nell’unica ottica possibile che ci sia dato acquisire come prospettiva politica: dichiarare, e con ogni forza, no alla guerra. Qui, con le armi della poesia. Il “minuscolo spazio tra privato e pubblico / il punto intermedio che concentra / conflitti e sangue”, il confine che potrebbe abbattere la necessità del muro e aiutarci a coltivare un seme per l’idea di limite non in quanto principio di esclusione, ma di spazio comunitario, sarà luogo di incontro e àmbito di elaborazione del male, della sua insistita banalità, nell’ascolto degli intenti e delle esigenze altrui: “I bambini dovrebbero imparare a scuola come risolvere i conflitti”. 



Se anche i testi di Guerra sono semi di pace, Antje Stehn, come il pastore delle mele Korbinian Aigner da lei presentato, che a Dachau innestava nuovi semi di mele (“battezzava le pianticelle con speranza / densa come sangue”), ci indica una verità elementare: creare la pace, e non per mezzo della guerra.

PER NON DIMENTICARE DANILO DOLCI
di Francesco Curto


Danilo Dolci
 
Perugia. Cento anni fa, il 28 giugno 1924, nasceva a Sesana (Trieste) Danilo Dolci. Conseguita la maturità artistica a Brera, si iscrisse alla facoltà di architettura a Milano. Una formazione culturale quella di Dolci, legata alla sua terra carsica, al mondo viennese, a quella musica suonata dalla madre e dal nonno. Tutta la sua vita però l’ha vissuta tra Trappeto e Partinico (Palermo), quella terra meravigliosa scoperta in un viaggio vacanza a diciassette anni con il padre ferroviere. In quella parte dimenticata da Dio, tormentata dalla miseria e dalla prepotenza dei forti, Danilo piantò le sue radici per una missione del riscatto dei poveri, ignoranti e sfruttati dalla mafia. Renitente alla leva, nella seconda guerra mondiale, si rifugiò sulle montagne in Abruzzo con le formazioni partigiane. Alla fine della guerra insegnò a Milano per mantenersi agli studi. Inizia così la sua proficua attività di poeta con la raccolta Parole nel giorno. Dal 1950, Dolci frequenta Nomadelfia, la comunità dei Piccoli apostoli di don Zeno Saltini a Fossoli, in un ex campo di concentramento nazista. Con una grande carica religiosa e cristiana Dolci, armato anche di coraggio, senso civico e morale, si batte giorno dopo giorno contro la povertà, promuovendo a Trappeto, un asilo nido e la scuola per gli analfabeti, inventandosi pure l’università. Lotta senza violenza con il primo sciopero della fame per denunciare lo stato delle persone senza diritti e la difesa degli ultimi. Una lotta da pacifista per una convinta missione di far valere le ragioni di quanti non potevano disporre di servizi e mezzi, e, soprattutto di terra. Aiuta i pescatori e promuove la difesa dell’attività di quanti disperati non potevano garantire neanche il pane ai propri figli. La poesia quindi come arma politica, la parola come strumento non violento e disarmato per fare la rivoluzione senza spargimento di sangue. La poesia come impegno etico e civile. L’Arte, infatti, deve contribuire ad aiutare gli altri e soprattutto quelli afflitti dalla malattia, dalle guerre, dalla solitudine, dai soprusi, dalle angherie, dalla violenza del potere. Insomma Dolci dà voce a chi voce non ha e restituisce diritti ai senza diritti. La Poesia per Danilo è una dichiarazione d’amore per la natura e per quanti vi abitano. Dolci è un sociologo, antropologo, un osservatore critico, un difensore degli ultimi e un costruttore di pace. È il poeta di Il limone lunare, di Poema per la radio dei poveri cristi, di Racconti siciliani, di esperienze e riflessioni, autore di Creatura di creature (1968). 


Danilo Dolci

Una voce pura e autentica, un santo laico del nostro novecento insieme ad Aldo Capitini e Giorgio La Pira. Un missionario che si dà agli altri, con un amore senza ritorno. È un uomo di qualità e quantità per bontà, un erogatore di felicità, se pure povera ma straripante di affetto per l’uomo bisognoso di tutto. Eppure in un anno non ho sentito mai una volta il nome di Dolci tra le buone notizie in questa informazione avvelenata e velenosa. Va ricordato che nel 1958 a Dolci fu attribuito il Premio Viareggio per il libro Inchiesta a Palermo e successivamente il Premio Internazionale Lenin. C’è da trarre l’amara considerazione che una nazione e la comunità che non ricorda le eccellenti personalità che hanno segnato con la loro opera, il proprio tempo, significa che così si uccide la memoria e si nega il loro ricordo alle generazioni future. Pertanto, ringrazio “Odissea” e il suo direttore Angelo Gaccione che ci dà l’opportunità di ricordare Danilo Dolci in questo spazio, e magari ricordare anche Carlo Cassola, fondatore insieme al suo direttore della Lega per il Disarmo Unilaterale, della sua opera di giornalista e scrittore, per testimoniare l’impegno di un uomo che si è speso per la pace, di un intellettuale attivo, di un onesto uomo del suo tempo, che ci ha messo in guardia per evitare la terza guerra mondiale. Siamo ormai alla vigilia dell’abisso e nessuno parla di pace. L’ONU sta a guardare, serve ancora oggi? Non ci sarà tempo per celebrare il funerale dopo l’apocalisse.
 

A MILANO IN PIAZZA SAN BABILA




AL CASTELLO DI LEGNANO
POETA? NO, GRAZIE



Seconda edizione: Venticinque autrici e autori a confronto in una kermesse di poesia, prosa, performance.

Sabato 19 ottobre 2024 - ore 9.30 - 17.30
Castello Visconteo, Sala Previati
Piazza della Concordia 1, Legnano

 
Interverranno:
Rocìo Bolaños, Tania Pleitez Vela, Elisa Malvoni, Sharon La Porta, Alessandra Corbetta, Valeria Raimondi, Massimo Maggiore, Valentina Giordano, Catia Simone, Giuseppe Carlo Airaghi, Sergio Daniel Donati, Luigi Cannillo, Mauro Ferrari, Alfredo Panetta, Luisa Cozzi, Sabrina Amadori, Riccardo Giuseppe Mereu, Nino Di Paolo, Angelo Gaccione, Cataldo Russo, Eros Olivotto, Cesare Allia, Adalgisa Zanotto, Carlo Penati, Pino Landonio.
 



Ingresso libero

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