UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 23 dicembre 2025

BELGRADO, UNA LETTERA ALLA CITTÀ
di Gianmarco Pisa



La notizia della proclamazione, da parte della European Film Commissions Network (EUFCN), la Rete delle Commissioni Cinematografiche d’Europa, delle cinque migliori “destinazioni cinematografiche” del continente, vale a dire i cinque migliori scenari di cinema, trascende l’ambito ristretto degli addetti ai lavori e dice qualcosa di più sulle città stesse, le loro caratteristiche e i loro paesaggi, ciò che può rendere queste stesse città suggestive o affascinanti. Al di là del merito della proclamazione, infatti, essa sollecita una riflessione più ampia sullo “spazio della città”, come contesto complesso di relazioni e funzioni, in cui si svolgono rilevanti attività sociali e culturali. 
Ebbene, la giuria del premio ha designato cinque finaliste: La Palma (Spagna), Figuera de Foz (Portogallo), Inari (Finlandia), Zangerhausen (Germania). E Belgrado, capitale della Serbia, storica capitale del “Paese che non c’è più”, la Jugoslavia. Delle città nominate è l’unica capitale e, insieme con le altre, una città la varietà dei cui scenari e la ricchezza della cui storia sarebbe perfino superfluo ribadire. Ciò che pare interessante evidenziare non è tanto l’iter della designazione (alla fine, la città vincitrice, quella che sarà proclamata migliore destinazione cinematografica, sarà annunciata nel mese di febbraio 2026 durante una cerimonia in occasione della Berlinale), quanto piuttosto le sue motivazioni, le ragioni che rendono Belgrado una “capitale del cinema”.



La motivazione occasionale è nota. Belgrado è stata candidata dalla Serbian Film Association (l’Associazione cinematografica serba) per le riprese della serie “The Librarians: The Next Chapter”, realizzata in Serbia dalla casa di produzione “Balkanic Media”. Si tratta di una serie fantasy di successo, ambientata a Belgrado nel 1847. Un Bibliotecario, custode di un deposito magico contenente i più potenti artefatti soprannaturali, viaggia dal passato al presente, rimanendo intrappolato nel “nostro” tempo. Quando torna al suo castello, ora trasformato in museo, inavvertitamente libera la magia in tutto il continente. Gli viene allora assegnata una nuova squadra di bibliotecari che lo aiutino a risistemare le cose. Ovviamente, è questo solo l’asse della trama, che si dipana tra eventi magici e avventure fantastiche, sorprese, e viaggi nel tempo e nello spazio.  Qui entra in gioco Belgrado. Molte location della serie sono infatti luoghi di Belgrado: il Kalemegdan, il Teatro nazionale, l’Osservatorio astronomico, l’area di Knez Mihailova. Quest’ultima è la passeggiata pedonale del centro storico di Belgrado. 



Qui nulla è come sembra e, al di là dei progetti speculativi che vorrebbero farne (e in parte già ne stanno facendo) luogo di consumo urbano e spesa compulsiva, la strada ospita un patrimonio storico e culturale che spesso sfugge alla vista degli osservatori distratti. Dalla via principale (Kolarčeva), prima di giungere in Piazza della Repubblica, immettendosi su Knez Mihailova, è un susseguirsi di sorprese: il Kulturni Centar (Centro culturale), luogo di incontri e conferenze, la fontana Delijska, lo straordinario edificio della Accademia serba delle arti e delle scienze, con l’annessa Galleria d’arte, la cui collezione comprende circa tremila opere, di ben 270 artisti nazionali e non pochi artisti stranieri. E poi ancora, la Galleriadell’Associazione degli artisti di belle arti, il Palazzo Zepter, con annesso Museo di arte moderna e contemporanea, e infine, a pochi passi dal Kalemegdan, la Biblioteca Civica, con un patrimonio di 1.8 milioni di contenuti.  
I creatori della serie, la società “Electric Entertainment”, hanno raccontato che Belgrado è per loro (non solo per loro) una vera e propria fonte di ispirazione soprattutto per il confronto tra il mondo magico dei bibliotecari e l'ambiente moderno della città contemporanea. Hanno cioè sostanzialmente confermato che, pur senza scomodare indebiti paragoni con altre celebrate capitali, Belgrado è ciò che sappiamo: una città magica, capace di mettere a confronto, spesso stridente, il mondo magico e la realtà contemporanea. Ma quali sono gli altri scenari associati a questi luoghi? Eravamo alle soglie del Kalemegdan, uno dei simboli di Belgrado. Come hanno scritto, nella loro monografia dedicata alla capitale, Tomislav Rakičević e Srečko Nikolić, “Nel corso dello sviluppo della città, si sono venuti creando differenti complessi ambientali, ognuno con i suoi monumenti caratteristici, cosa che conferisce alla città un colorito speciale. [...]



La fortezza del Kalemegdan e il suo omonimo parco costituiscono un complesso unico che, meglio di altri, parla della storia di questa città. Il suo nome è di derivazione turca (Kale, “fortezza” e Mejdan, “campo”) e indica tanto le mura dell’antica Singidunum quanto uno dei più bei parchi belgradesi. Il Kalemegdan è, senz’altro, il simbolo di Belgrado. [...] In una zona di questo parco, chiamata “Veliki Kalemegdan”, si trovano numerosi monumenti eretti a ricordo di letterati, artisti, politici e altri personaggi insigni della storia serba”.
Si tratta di un sacrario della memoria, un vero e proprio Pantheon della città e del Paese. Vi si trovano la Fontana con la statua simbolica della Lotta, di Simeon Roksandić, il Monumento memoriale sul luogo in cui i Turchi per la prima volta consegnarono le chiavi della fortezza al principe Mihailo, il “Monumento di gratitudine alla Francia”, simbolo dell’amicizia tra i due Paesi e delle battaglie combattute nella guerra del 1914-1918, i capolavori di Ivan Meštrović e il Mausoleo degli Eroi del Popolo, dove sono sepolti gli eroi della lotta di liberazione antifascista, Ivo “Lola” Ribar, Ivan Milutinović, Djuro Djaković, Moša Pijade.



Non meno importanti sono gli altri luoghi. Uno di questi è il Teatro Nazionale. È anche questo un simbolo di Belgrado e della Serbia. Si trova in Piazza della Repubblica, sul versante opposto a quello ove sorge lo straordinario Museo Nazionale. Per la sua costruzione, nel 1868, fu scelto lo spazio dell’attuale piazza, intanto bonificata; qui fu costruito il teatro, che non nasconde influenze classiche e si ispira, per alcune caratteristiche, al modello della Scala di Milano. Vi fu rappresentata, secondo alcuni come prima messa in scena operistica del teatro, la “Madama Butterfly” di Puccini nel 1919. Qui hanno poi diretto grandi direttori d’orchestra, da Lovro von Matačić a Muhai Tang. Come ha ricordato Milica Božanić dell’Associazione cinematografica serba, questo genere di partenariato è fondamentale per sostenere le produzioni cinematografiche, creando così un ambiente favorevole all’ulteriore sviluppo del cinema, incluso il turismo culturale e cinematografico a Belgrado. Belgrado è un naturale punto di incrocio e di ripartenze, di viaggi e di ritorni, in cui le storie e le memorie si stratificano e si condensano, insieme con un patrimonio storico e culturale di rilevanza assoluta, in modo singolare ed indiscutibile. Si possono riconoscere, in questa filigrana, tutti i volti di Belgrado e della Jugoslavia, antichi e moderni, storici e attuali, di volta in volta memoriali o negletti. D’altronde, parliamo di una città orgogliosa, per la sua storia e la sua memoria, come si racconta, “quaranta volte distrutta e quaranta volte ricostruita”. “È caratteristico - scriveva il Giusti - che idee di fratellanza e solidarietà si siano sviluppate specialmente presso le nazioni slave più piccole, che sentivano incerte le proprie frontiere e minacciose le forze che premevano dal di fuori: [...] questi piccoli popoli, attraverso l’idea della solidarietà slava, si sentivano partecipi di un mondo più vasto ... che popolava immense distese dell’Europa e dell’Asia” (W. Giusti, Il panslavismo, Bonacci, Roma, 1941, n. e. 1993).



Pensiamo, ad esempio, a un altro luogo cruciale, e dimenticato, di Belgrado: l’Obelisco dei Non Allineati, uno dei simboli della Belgrado della Fratellanza e Unità, opera, insieme con altri, di Svetislav Ličina. Fu eretto per lo storico Vertice di Belgrado del 1961; sebbene negletto, l’obelisco è rimasto con tutta la sua potenza, anzi, secondo l’architetto Milorad Jevtić (cui si deve l’attribuzione dell’opera a Ličina), resta una delle più significative testimonianze dello «spazio bianco» che caratterizza Belgrado (il cui nome significa, appunto, “Città bianca”). Dal canto loro, i Paesi non allineati non sono scomparsi dalla scena.
Nella loro più recente risoluzione, la Dichiarazione di Kampala del 15-16 ottobre scorsi, sottolineano che “la solidarietà internazionale, massima espressione di rispetto, amicizia e pace tra gli Stati, è un concetto ampio che comprende la sostenibilità delle relazioni internazionali, la coesistenza pacifica e gli obiettivi di equità e di emancipazione dei Paesi in via di sviluppo, il cui obiettivo finale è il raggiungimento del pieno sviluppo economico e sociale dei loro popoli”. Nel caos drammatico del tempo presente, ancora una volta dal Sud globale, trovano spazio per affacciarsi messaggi di pace, di solidarietà e di speranza.



Riferimenti:
Beograd jedna od pet najboljih filmskih destinacija na svetu, Nova, link
Dichiarazione di Kampala del Movimento dei Non Allineati, 2025, link
Tourist Organization of Belgrade, Official Site, link

PROPRIETÀ INTELLETTUALE
di Olindo Cervi
 

L’economista Olindo Cervi a proposito dell’articolo di Francesca Mezzadri apparso su “Odissea” martedì 16 dicembre scorso dal titolo “Il treno dei bambini” https://libertariam.blogspot.com/2025/12/il-treno-dei-bambini-di-francesca.html ci ha fatto pervenire questo scritto.
 
Noi economisti siamo fortemente disprezzati causa le teorie neoliberiste che hanno distrutto completamente due continenti, ma le assicuro che tanti di noi sono ancora persone umane che pensano al bene comune e non al ladrocinio e alla propaganda tanto di moda al giorno d’oggi. Da economista, oltre ad apprezzare il valore storico-culturale del suo articolo, vorrei complimentarmi per aver involontariamente (o forse no) messo in luce un caso di studio esemplare di fallimento del mercato delle idee e di inefficienza nell’allocazione dei diritti di proprietà intellettuale. La sua analisi, infatti, può essere letta come un brillante report sull’asimmetria informativa e sull’esternalità negativa in un settore cruciale: quello della produzione e distribuzione della memoria collettiva. Le fornisco una mia lettura:
1.- Fallimento del Mercato e Asimmetrie di Potere
Il suo articolo documenta un classico caso di “market for lemons” (articolo scritto da George Akerlof premio Nobel per l’economia), adattato al mercato editoriale.
Asimmetria Informativa
Il lettore (consumatore) non può facilmente distinguere, nel prodotto finale (il romanzo di successo), la “qualità” derivante dal lavoro di ricerca originale (di Rinaldi, Cappiello, Piva) da quella della rielaborazione narrativa. L’informazione sulla provenienza delle fonti è nascosta o opaca.
Spiazzamento del Bene di Qualità
Il prodotto “low-cost” in termini di investimento in ricerca (il romanzo che si appropria di narrazioni già elaborate) cattura la maggior parte del profitto e dell’attenzione, rischiando di spiazzare dal mercato i produttori del bene originale (la ricerca storica di prima mano), che ha costi più alti e rendimenti economici più bassi. Questo crea un incentivo perverso a investire in promozione più che in ricerca.


2.- Diritti di Proprietà Intellettuale e Beni Pubblici
La memoria storica documentata è un bene pubblico nel senso economico: è non-rivale (molti possono usarla contemporaneamente) e, in questo caso, non-escludibile (non si può impedire a un autore di fiction di attingervi). Non si tratta della sovra-utilizzazione tipica dei beni comuni, ma del problema opposto: la sotto-ricompensa per i creatori originari. I ricercatori investono risorse (tempo, denaro, capitale umano) per creare un bene (la narrazione documentata) che poi diventa un input a costo quasi zero per un altro agente (l’autore di fiction) che ne cattura la maggior parte del valore di mercato. Questo disallinea incentivi e può portare a una sotto-produzione futura di ricerca storica originale.
3.- Esternalità Negative e Fallimento della Coordinazione
Esternalità Negativa sulla Ricerca: L’atto di non citare le fonti genera una esternalità negativa diretta sui ricercatori: il loro lavoro viene svalutato economicamente e simbolicamente, e il loro capitale reputazionale non viene “capitalizzato”. Il mercato, da solo, non internalizza questo costo. Per i singoli ricercatori, il costo di far valere i propri diritti morali (attribuzione) e di negoziare un compenso (se dovuto) è proibitivo rispetto ai benefici attesi. Questo rende inefficiente la soluzione privata e giustifica la necessità di una norma sociale forte (l’etica della citazione) che il suo articolo contribuisce a rafforzare.



4.- Investimento in Capitale Sociale e Sovranità della Memoria
Il suo lavoro tocca un punto cruciale di economia politica: chi controlla e monetizza la narrazione della memoria collettiva? Il “lavoro di ricerca povero” descritto è un investimento in capitale sociale e culturale che produce un bene fondamentale per la coesione sociale: una memoria condivisa e affidabile. Consentire che questo bene venga privatizzato e rivenduto senza un riconoscimento adeguato crea una distorsione nel mercato delle idee e una perdita di sovranità sulla nostra stessa storia. La sua analisi è un potente argomento per la trasparenza come regolamentazione necessaria per correggere questa distorsione.



Conclusione da povero economista:
Il suo articolo non è solo un contributo etico o storiografico. È un contributo a un principio caro agli economisti con un’anima: l’efficienza del mercato culturale. Promuovendo trasparenza, attribuzione chiara e riconoscimento del lavoro altrui, lei propone un meccanismo per:
a) Ridurre l’asimmetria informativa tra produttori e consumatori di cultura.
b) Allineare gli incentivi, in modo che investire in ricerca originale torni ad essere premiato, anche simbolicamente.
c) Correggere l’esternalità negativa sull’ecosistema della ricerca indipendente.
d) Proteggere la diversità produttiva nel mercato delle idee, evitando il monopolio narrativo di pochi grandi attori.
In sostanza, ha scritto un articolo chiaro, accessibile e fondamentale per la salute del nostro mercato culturale.  

NON SOLO MUSICA
di Francesca Mezzadri


 
Il giorno in cui il rock fece beneficenza senza sapere come si fa.
 
Non era Natale. Ma come spesso accade con le cose importanti, tutti si comportarono come se fosse un Natale senza istruzioni. Nel 1971 il Bangladesh stava vivendo una guerra di liberazione, una carestia, le conseguenze di un ciclone devastante e l’indifferenza quasi totale del resto del pianeta. Milioni di profughi attraversavano confini che nessuno aveva voglia di guardare troppo da vicino. I giornali occidentali ne parlavano poco e male, quando ne parlavano. Ravi Shankar, che invece guardava eccome, fece una cosa molto poco rock: chiese aiuto. George Harrison ascoltò. E fece una cosa ancora meno rock: si mise al lavoro. Un’idea semplice, che infatti sembrava impossibile. L’idea era elementare, quasi ingenua: fare un concerto per raccogliere fondi e attenzione per il Bangladesh. Niente slogan complicati. Niente effetti speciali.
Solo musica, nomi importanti e una causa che non si poteva ignorare una volta pronunciata ad alta voce. Il 1° agosto 1971, al Madison Square Garden, si tennero due concerti nello stesso giorno. Perché quando sei in ritardo con la coscienza, raddoppi. Il pubblico applaude. Era presto. Molto presto. Lo spettacolo iniziò con la musica classica indiana. Ravi Shankar, Ali AkbarKhan, Alla Rakha, Kamala Chakravarty salirono sul palco con strumenti antichi e pazienza infinita. Shankar spiegò che il brano sarebbe stato breve. Il pubblico applaudì subito. Non per entusiasmo. Per educazione. E anche perché non aveva capito che la musica non era ancora iniziata. Shankar sorrise. Aveva visto di peggio. Poi arrivò il Natale rock. Dopo l’introduzione indiana, il palco cambiò faccia. E anche l’aria. Salirono: George Harrison, con la calma di chi sa di avere una responsabilità, Ringo Starr, che non si tirava mai indietro, Bob Dylan, che non saliva su un palco importante da anni e sembrava esserselo ricordato all’ultimo, Eric Clapton, Billy Preston, Leon Russell, Badfinger. Nessuno venne per soldi. Le canzoni non cambiarono il mondo, ma gli ricordarono che esisteva il Bangladesh.



I regali dopo la festa
Dal concerto uscirono: un album dal vivo (triplo LP), pubblicato nel dicembre 1971, un film documentario, distribuito nel 1972. L’album vinse il Grammy per Album dell’Anno nel 1973, probabilmente uno dei pochi premi musicali assegnati a qualcosa che aveva davvero provato a fare del bene. I fondi raccolti - biglietti, dischi, film - finirono all’UNICEF. Non subito. Non senza avvocati. Non senza problemi fiscali. Ma finirono lì. E questo, a volte, è già un lieto fine.



Il Bangladesh, finalmente in prima pagina
Prima del concerto, il Bangladesh era un posto lontano. Dopo, era un nome che la gente aveva sentito pronunciare da Bob Dylan - e questo, negli anni Settanta, contava. George Harrison pubblicò anche “Bangla Desh”, una canzone che non cercava metafore complicate: diceva le cose come stavano, cosa piuttosto rivoluzionaria per l’epoca. Il Concert for Bangladesh fu il primo grande concerto benefico del rock. Non sapeva di esserlo. Non aveva un manuale. Fece errori, inciampi, confusioni contabili. Ma aprì una porta.
Dopo di lui, nessuno poté più fingere che musica e mondo reale fossero due stanze separate. E forse è questo il vero spirito natalizio della storia: non la perfezione, non il miracolo, ma qualcuno che decide di fare qualcosa - anche senza sapere esattamente come.

LA POESIA
di Vitia D’Eva



 
 
Nefast’amoreeeee eee ee e
 
È imperscrutabile vero?
come un sentimento d’amore
possa ritorcersi contro
 
come a una carezza
o a sussurri di piacere
possano sovrapporsi dinamismi
nefasti d’inqueti urti
carichi di contraccolpi gesti
di lesiva ferocia
 
marchio d’espressione
d’appassita passione
che stride nell’acuto e brutale dolore
d’un corpo aggredito
 
atti di decadenza
che incidono sulle lenzuola
una linea nera
acuta
di liquefatto stridore
 
e non è l’acuto
d’un semplice gesto di gesso
quando lo si vuole stridere sulla
bianca lavagna. 

domenica 21 dicembre 2025

VERSO L’INVERNO
di Zaccaria Gallo


Monet
                                                                                         
Now is the Winter of our discontent”: sono le parole con cui, Riccardo III Gloucester, di William Shakespeare presenta sé stesso, all’inizio dell’omonima tragedia. “L’inverno del nostro scontento”, dunque, quello che è alle porte. È così anche per noi?  Per molti di noi? Per tutti quelli che ancora si trovano nel terrore di guerre e bombardamenti, perdita di persone care, bambini, mogli, mariti, padri e madri, fidanzati, case, averi, ricordi? È così per chi soffrirà la fame, per chi è in miseria, senza un lavoro, o è ricoverato in un ospedale, o in un ospizio per vecchi, o è nella cella di un carcere, o è semplicemente solo? Proprio per non dimenticarci di nessuno di loro, facciamo questo viaggio verso l’inverno, con nel cuore, nella mente, nell’anima, la speranza che, proprio dagli incontri che faremo, possa nascere una fiammella che unisca e ridia a tutti il senso della sacralità racchiusa in questa stagione. Ed ecco il nostro incontro. È preceduto dalle note del Lied di Wilhem Muller, musicato da Schubert nel 1827, un anno prima della morte, il “Winterreise” o “Viaggio d’inverno” (ciclo di canzoni, che racconta di un viaggiatore, o meglio del viandante, respinto da un amore, il cui percorso si trasforma in un viaggio notturno di solitudine, disperazione e introspezione, attraverso una natura invernale con nel cuore il dolore, la perdita e l’abbandono). Nel Lied, il nostro viandante incontrerà un sonatore di ghironda, il suo doppio spirituale, il suo destino. Invece noi abbiamo quest’altro incontro: viene verso di noi uno stranissimo personaggio, che molti di voi, che amate l’arte, avrete già certamente incontrato sulle pareti di un Museo).   

Arcinboldo

Un vecchio, fatto di tronchi e grovigli di rami stecchiti, disordinati, a far capelli, assieme a piccole foglie di verde edera (non coprono interamente la sua testa spoglia), e un’ispida, incolta, barba; e per bocca due funghi (di quelli che spuntano dalla corteccia degli alberi) e il collo e il torace fatto di attorcigliati tronchi, avvolti in una stuoia, da cui spunta un’arancia e un limone, entrambi protesi verso di noi. Lo riconoscete? È “l’Inverno” di Arcimboldo. Ora, a ben guardare, ci sovviene l’idea che il vecchio ci stia dicendo alcune cose, che vanno oltre il suo aspetto pauroso. Vero, farà freddo, ma, con tanta legna, puoi scaldare la casa. E poi, se osserviamo bene i due frutti, intuiamo che altre cose il vecchio vuole ricordarci. Quell’arancia nel mito greco, era il dono di nozze di Giunone e Giove e, dunque, simbolo di fertilità ed amore. E il limone? Simbolo di salvezza, purezza e fedeltà amorosa (vive infatti e cresce sotto al sole, di cui prende la luce e il vivo colore, in tutto l’anno, anche d’inverno). Gli faccio segno, proprio al limone, che ha sul davanti, con una interrogazione muta, come a chieder spiegazione del perché lui lo esibisce e lui mi guarda, lo guarda, sorride con la sua bocca spugnosa e improvvisamente mi recita, roco e grave, come vento di tramontana, i versi di Eugenio Montale (simbolo dell’oasi di una natura incontaminata, in contrapposizione all’inquietudine e all’illusione della città). 


Gagnon
 
Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. / Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro:/ più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell'aria che quasi non si muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. / Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa avara - amara l’anima. / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità.  


Chagal

Non è, allora, davvero l’inverno, completamente, la stagione del nostro scontento. Guardando quel vecchio, che si allontana con la sua arancia e il suo limone, tanti ricordi nascono dalle letture fatte, affiorano e sono immagini quasi tutte di luce e speranza. Per gli antichi Egizi era la stagione del Peret, quella che seguiva l’inondazione del Nilo, stagione di felice attesa per il ritorno del Sole e dell’inizio del raccolto. Per gli ebrei, l’inverno è legato principalmente alle festività di Hanukkah, la festa delle luci e, nell’antica Grecia, era stagione di preparazione e cambiamenti del quotidiano. Eventi come le Dionisiache rustiche e le Elenee, offrivano una via di fuga dalla routine invernale e dalla solitudine delle dimore. Nell’antica Roma, si celebravano i Saturnali, festa di sette giorni in onore di Saturno, durante la quale venivano sciolti i legami sociali e si organizzavano banchetti e scambi di doni. Durante quei giorni si invertivano i ruoli sociali: gli schiavi erano serviti dai padroni ed era anche la festa del Sol Invictus (25 dicembre) il“compleanno del Sole Invitto”, poi passata al Natale cristiano. L’inverno, per gli Aztechi, era un periodo importante, soprattutto legato al solstizio d’inverno, in cui si celebrava la nascita del loro Dio del sole. Luce e luci, come in Danimarca o in Inghilterra, con la celebrazione del solstizio d’inverno a Stonehenge: druidi e folle osservano, all’alba, il sorgere del sole illuminare il cerchio di pietre. Un magico momento che simboleggia il rinnovamento e il ritorno della luce. Ecco mi allontano ora, più sereno, e mi accompagnano le note dell’Inverno di Vivaldi, tratto dal “Concerto per le quattro stagioni”. Se, nel primo movimento, Vivaldi descrive la lenta caduta dei fiocchi di neve e poi l’arrivo, con un rapido violino, del Dio dei venti, nel secondo movimento è evidente la presenza di un uomo felicemente vicino al calore del suo focolare, mentre osserva e ascolta il classico suono energico prodotto dalle gocce della pioggia tipicamente invernale. Con un’atmosfera estremamente dolce, trasmette un senso di grande pace, che poi si interrompe, però, alla fine, con i suoni che provengono dalla strada, dove c’è la gioia di scivolare, danzare sul ghiaccio. Sì, si cade, ma poi ci si rialza, gioiosi. Vivaldi, così descrive quel contrasto di emozioni che l’inverno può provocare: essere duro e difficile, ma la sua grande forza e bellezza termina sempre con un finale esaltante.
 

  

MILANO. IL PALAZZO AFORMA DI ESSE...
di Angelo Gaccione


 
E le case colorate di via Balzaretti.


L’unica immagine che sono riuscito a vedere dell’ex stabilimento Rizzoli, l’ho trovata in Rete. Naturalmente è in bianco e nero e la sua stazza, che occupava un’area considerevole già allora, quand’era stato costruito, si distendeva in quelle che sono la via Pascoli, la via Balzaretti, la via Pinturicchio e affacciava, con quello che doveva essere a tutti gli effetti l’ingresso dei dirigenti e degli impiegati, sulla piazza Carlo Erba. Non avendo all’epoca pressoché niente attorno, la struttura doveva apparire ancora più vasta. Il numero non si legge; si legge, invece, con un po’ di fatica perché le foglie degli alberi coprono alcune lettere, il nome Rizzoli che campeggiava sul frontale in alto. Bombardato nel 1943 durante il Secondo conflitto mondiale, gli andò bene e la Rizzoli poté restarvi per tutto il dopoguerra fino agli anni Sessanta, quando lo spazio non bastava più e si trasferì in via Civitavecchia a Crescenzago. A comprare il complesso fu La Rinascente che vi insediò i propri uffici e vi rimase per oltre vent’anni. Alla fine degli anni Ottanta nuovo cambio di proprietà: questa volta nelle mani della compagnia immobiliare LA SA Spa, che la cederà a sua volta alla Zurich Assicurazioni. La compagnia svizzera vi rimase fino al 2009 e alcuni anni dopo il suo trasferimento, nel 2012, l’opera di demolizione ha potuto avere inizio. Il passaggio di mano ha fatto scomparire la scritta, ma ora il numero di quella che era l’entrata si legge bene: è il numero 6 e di originale è rimasto il balconcino che sovrasta il portone. Un portone in metallo dalla graziosa trama composta da fantasiosi segni geometrici. L’area era appetibilissima e gli appartamenti realizzati dagli architetti Eisenman, Degli Esposti e Guido Zuliani, avranno fruttato alla proprietà bei quattrini dai facoltosi acquirenti. Oggi la costruzione che si è elevata di diversi piani in altezza, appare ancora più massiccia. Vista dall’alto, ha la forma sinuosa di un’ansa di fiume o di una esse e non passa di sicuro inosservata. In genere quando venivo da queste parti lo facevo per vedere le belle case in cotto di via Plinio, Piazza Carlo Erba e dintorni in finto gotico, ma di recente, girando nella via Balzaretti, mi sono imbattuto in un gruppo di case “fiorite” e colorate. La Casa della Musica ha porte, serrande, finestre e balconcini colorati di un rosso squillante; pareti esterne azzurre e nere con riprodotti strumenti a fiato, mani che impugnano rossetti e, chissà perché, dondola appeso ad un balcone, la coda di uno squalo di plastica gonfiato. Sul fianco di un’altra abitazione è riprodotto un globo con dentro gli stati del Nord America; su un’altra facciata delle gigantesche rose, e giganteschi gigli su quella di un’altra casa ancora. Una vera galleria d’arte en plein aire realizzata per il Fuori Salone dal magazine Toiletpaper di Maurizio Cattelan. Negli ultimi tempi è divenuta una moda, questa di dipingere le facciate in maniera così fantasiosa, e sta interessando diversi quartieri della città. Comunque la pensiate, alcune vie diventano meno grigie, più allegre, e attirano curiosi: anche se a volte possono apparirci kitsch.


ALBUM

Il vecchio stabilimento Rizzoli


La nuova costruzione 1

La nuova costruzione 2

La nuova costruzione 3

La nuova costruzione 4

La nuova costruzione 5

La nuova costruzione 6


La nuova costruzione 7


La colorata via Balzaretti 


La Casa della Musica


Il delfino appeso


Case fiorite 1


Case fiorite 2




Casa con Globo


IL CONTORNO

















Una pietra di inciampo 
nella zona

UNA GIOIOSA FATICA
di Giuseppe Langella


 
Questa nota è apparsa domenica 7 dicembre 2025 su l’Altravoce - il Quotidiano Nazionale. Si ringrazia la Redazione per averne autorizzato la pubblicazione per i lettori di “Odissea”.
 
Una gioiosa fatica di Angelo Gaccione (La Scuola di Pitagora, Napoli 2025, pagine 160 € 16) è il libro di una vita, come confermano le date poste in coda al titolo: 1964-2022. Raccoglie, infatti, buona parte della produzione poetica dell’autore, dalle prime precocissime prove (Le ritrovate), stupefacenti per qualità di canto, alle poesie più recenti (Le ultime), una piccola Spoon River paesana d’intonazione quasi metafisica, affacciata sul mistero della morte. In mezzo, scandito in 12 stazioni tematiche disposte in ordine approssimativamente cronologico, si svolge il lungo viaggio, anche geografico, di un uomo innamorato della vita e dei suoi doni, pacifista convinto e impegnato nella difesa dei diritti e della giustizia sociale. In questo senso, Una gioiosa fatica è un libro di spiriti e umori prevalentemente civili, dove si alternano, come ha sottolineato Tiziano Rossi nell’Introduzione, «l’indignazione e l’incitamento, il giudizio pacato e la frustata polemica, la confessione inerme, la caricatura e la gelida constatazione». Ne fanno fede anche i titoli, in specie, di alcune sezioni, dalle Arrabbiate alle Dolenti, fino alle Incivili. Non per nulla, il libro è uscito nella collana “Fendinebbia”, espressamente dedicata alla poesia civile. Vediamone uno fra i testi più esemplari, si intitola “La coppia” e chiude la raccolta; lo troviamo nella sezione de Le Ultime ed è stato scritto il 28 novembre del 2022. “Un uomo con Dio e uno senza Dio / si misero in cammino per giorni. /Alla porta della città / videro un uomo che pendeva da un gelso. / Lo avevano appeso nudo per dare l’esempio. / L’uomo con Dio si levò la giacca / e l’uomo senza Dio i calzoni. / Lo vestirono e lo seppellirono in un fosso. / Fuori dalle mura l’uomo con Dio piantò la croce / e l’uomo senza Dio sparse i semi che portava in bisaccia. / Nessuno dei due varcò la porta. / Né quello con Dio né quello senza Dio.     

Per richieste alla Casa Editrice:
info@scuoladipitagora.it 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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