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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
venerdì 14 novembre 2025
SINISTRA E FRATELLI MUSSULMANI
di
Tayeed Debie
Il
riavvicinamento è segno di una crisi intellettuale o cos’altro?
Sono
sempre stata colpita dai giovani palestinesi di sinistra che sono stati tra i
partecipanti più in vista alle manifestazioni che hanno avuto luogo in
Cisgiordania dall’inizio del genocidio contro il nostro popolo palestinese due
anni fa; un genocidio che è stato ancora più brutale e sanguinoso nella
Striscia di Gaza. Il mio stupore non è dovuto solo al fatto che erano i più
ferventi, ma anche perché la loro retorica e i loro slogan erano praticamente
indistinguibili da quelli delle fazioni islamiste palestinesi. Era difficile
distinguere un uomo di sinistra da un membro dei Fratelli Musulmani, se non per
qualche dettaglio superficiale, come la kefiah rossa. Questa convergenza tra i
FratelliMusulmani e la sinistra non è nuova; è iniziata decenni fa, non solo in
Palestina ma in tutto il mondo arabo. Tuttavia, questo genocidio ha rivelato
più di una semplice convergenza tra due correnti apparentemente opposte. Mentre
l’Islam politico si è infiltrato nel discorso della sinistra, utilizzando
termini come “jihad” e “asse di resistenza”, l’Islam politico ora impiega
termini come “mondo libero” e “persone libere del mondo”. Hamas è arrivata
persino a invitare i lavoratori di tutto il mondo e i sindacati professionali
il Primo Maggio 2025 a sostenere la causa palestinese e a chiedere la fine del
genocidio! Ma a un esame più attento del discorso dei movimenti dell’Islam
politico, questi termini sembrano essere nient’altro che un “esercizio di
facciata”, limitato ad affermazioni e dichiarazioni utilizzate per promuoversi
come movimenti politici “moderni”, al passo con i tempi e adatti a partecipare
alla vita politica come qualsiasi altro. Usano questi termini anche per deviare
accuse che da tempo vengono loro rivolte, come reazionarismo e violenza. Mentre
la situazione appare più profonda e grave a sinistra, i suoi leader, i suoi
quadri e la sua retorica si sono trincerati dietro Hamas, diventando alcuni dei
più importanti difensori del movimento. Ciò ha portato a una situazione in cui
la sinistra, consapevolmente o inconsapevolmente, è diventata un “membro
funzionale della Fratellanza”, svolgendo le funzioni della Fratellanza e contribuendo
al successo del suo progetto. La domanda che sorge qui è: come può un’ideologia
che considera la religione l’oppio dei popoli accettare di svolgere un ruolo
promozionale per un progetto basato sull’intorpidimento delle masse con
questo oppiaceo e su un passato glorioso per il quale è accettabile
sacrificare un’intera società per farla rivivere?
La sinistra giustifica questo riavvicinamento sostenendo che tutti devono ora stringersi attorno a coloro che rappresentano la “resistenza”, perché questa è una lotta di liberazione nazionale e dovremmo mettere da parte le nostre divergenze fino al raggiungimento della liberazione e della vittoria. Dimenticano, o scelgono di ignorare, che il progetto dei Fratelli Musulmani non può dare vita a uno Stato forte o a una patria libera. Nulla esprime il concetto di patria nell’ideologia dei Fratelli Musulmani in modo più eloquente dell’affermazione di Sayyid Qutb: “La patria non è altro che un pugno di polvere marcia”. Mentre Marx rifiutava il capitalismo perché trasforma le persone in meri strumenti di produzione, l’ideologia dei Fratelli Musulmani ignora fondamentalmente i concetti di società e giustizia sociale. Considera l’intera popolazione nient’altro che un mezzo per prendere il potere, e la giustizia nient’altro che la giustizia divina, di cui si autoproclama unico rappresentante. Le differenze fondamentali tra le ideologie dei Fratelli Musulmani e del marxismo suggeriscono che le giustificazioni di un nemico comune e di una giusta causa non siano sufficienti a spiegare questa convergenza, che a volte rasenta l’indistinguibilità, dove le differenze si riducono a semplici etichette. Un uomo di sinistra potrebbe chiamarsi Abu Guevara o Abu Watan e rivolgersi al suo collega di partito chiamandolo “compagno”, mentre un membro schietto della Fratellanza potrebbe chiamarsi Abu Hudhayfa o Abu Dujana e rivolgersi al suo collegachiamandolo “fratello”. Nonostante le influenze reciproche tra la sinistra e i movimenti islamisti politici, questi ultimi sono stati i principali beneficiari di questa convergenza. Dopo la nascita della Fratellanza, che mirava a demonizzare la sinistra, i Fratelli Musulmani sono riusciti a domare la forza di sinistra - una forza originariamente creata per difendere la libertà e la dignità delle nazioni - al servizio del proprio progetto, che mira a creare ulteriori crisi e conflitti che devastano le società, consentendo loro di svolgere il ruolo del salvatore scelto da Dio per salvarle dalla loro situazione. Questo riavvicinamento non sarà pagato solo dalla sinistra, senza trascurare la responsabilità di tutte le fazioni senza eccezioni, il cui ruolo si è ridotto alla difesa di Hamas o alla sua piena responsabilità, ignorando completamente la responsabilità di tutti per quanto sta accadendo al popolo palestinese. Piuttosto, il suo prezzo sarà alto anche per la causa palestinese e per la nostra esistenza su ciò che resta della nostra terra, che è diventata più presa di mira e minacciata che mai.
giovedì 13 novembre 2025
“INDIPENDENZA” ALL’ITALIANA
di Luigi Mazzella
Come creatore
(allo stato, unico e inascoltato) della teoria (filosofico-politica) dei cinque
irrazionalismi (tre religiosi e due politici) come causa del caos
dominante in Occidente, mi sento obbligato a segnalare, a riprova della mia
tesi, le maggiori incongruenze riscontrabili nella nostra vita individuale
collettiva. Oggi scriverò
del monstrum dell’indipendenza e dell’autonomia nella Pubblica
Amministrazione e, in particolare, di quanto sta accadendo per
l’organo di protezione della Privacy. È noto che gli uffici Statali
italiani, come la maggior parte di quelli Europei, risultano modellati sulle
idee elaborate da Jean Baptiste Colbert e da lui concepite in modo tale da dare
al Re Sole (il monarca assoluto, francese, Luigi XIV) un vero esercito di
fedeli servitori (compresi quelli destinati a fare “giustizia”), pagati dallo
Stato e muniti di penna e di inchiostro al posto delle armi. Gli Anglosassoni il cui illuminismo, in Gran
Bretagna, non aveva seguito le orme di quello francese (sfociato nel Terrore e
nel Bonapartismo), come di consueto avevano le loro perplessità sulle scelte
dei “cugini” d’oltre Manica e negli Stati Uniti d’America, sul finire del XIX
secolo, affidarono ad estranei all’Amministrazione la scelta, in vario modo
indiretta, dei civil servant inquadrati
in Authorities e Agenzie, keeping out of politics. Sul territorio dello Stivale, passando per
Napoleone e Mussolini il modello francese prevalse e dominò, fino all’inizio
degli anni Novanta del secolo scorso. Poi,
l’italica tendenza allo scimmiottamento ebbe il sopravvento e non
rinunciò all’imitazione dei modelli anglosassoni. Furono così
introdotte , nel nostro ordinamento, le Autorità dette indipendenti e
autonome, definite “enti pubblici che discostandosi dal modello tradizionale di
pubblica amministrazione, non dipendono dal Governo e non subiscono ingerenze
di natura politica”.
E ciò, anche
se i suoi ben pagati membri sono rigorosamente scelti dal potere politico
dominante al momento della costituzione (o del rinnovo). Dopo un
tale bluff, tipicamente italiano, di chiamare “indipendenti” Autorità
amministrative messe in piedi con la nomina dei loro componenti con
modalità esclusivamente e rigorosamente politiche, stiamo assistendo, in questi
giorni, a una “farsa” relativa all’Autorità per la protezione della
“privacy”, che più ignominiosa non potrebbe essere (e che a definirla
Arlecchinata” significherebbe soltanto recare ingiuria a una nota maschera
della nostra Commedia dell’Arte). Forze di
governo e forze di opposizione (la Destra di Giorgia Meloni e la Sinistra
di Elly Schlein), infischiandosene di far mostra di credere che quell’Autorità
sia stata e sia veramente ‘indipendente’, in buona
sostanza, concorderebbero nell’intento di mandare a casa i suoi
componenti (ognuna di esse pensando di potere così nominare altri membri
di più provata e certa fede politica). In altre
parole se “s’ode a destra uno squillo di tromba e a sinistra risponde uno
squillo” non si tratta dell’annuncio di una manzoniana e napoleonica
battaglia, ma in piena concordia di suoni è il canto di
un identico leit motiv comune delle due pulzelle (la “rossa” e
la “nera”), per altri aspetti rivali. L’unico grido, nella pugna
dissonante, è quello del Presidente della Privacy che, autocraticamente
(?), dice: “Se sono autonomo e indipendente, decido io con i miei
membri del Collegio quando andare via!”. Il discorso
sino a questo momento appare in fase di stallo. Vedremo come andrà a
finire.
P.S. Mi sembra che qualche
considerazione ulteriore possa essere fatta, a beneficio della mia tesi
che non piace ad alcuni lettori di “Odissea”. Gli eventi
della Autorità della Privacy di questi giorni confermano che il “cul de sac” in
cui s’è cacciato l’Italia non è fatto di stoffa perforabile o a trama
larga: è veramente senza via d’uscita. Anche se non è da escludere,
infatti, che sia in progressivo aumento il numero degli abitanti dell’Ovest del
Pianeta che coglie la falsità, l’ipocrisia, la menzogna palese e
sconvolgente della maggior parte delle pretese verità divulgate da “alti”
dignitari della religione e della politica Occidentale l’opera di denunciarne
la finzione è accusata - essa - di contribuire al “crollo dei Valori”
della nostra cosiddetta “civiltà. In altre parole, se si sostiene che
Hobbes non è stato mai smentito sul detto “Homo homini lupus” perché i
fautori più tenaci della solidarietà universale e
dell’uguaglianza umana si sono dimostrati solo capaci di rendere ricchi i
propri Alti Prelati o i Membri della Nomenklatura bolscevica,
facendone gli oligarchi del post-comunismo e che le buone intenzione dei popoli
amati da Dio (i Tedeschi) o dal medesimo addirittura prediletti (gli
Ebrei) hanno clamorosamente smentito la loro buona volontà salvifica della umanità (da essi considerata bisognosa di guida perché di rango
inferiore) con i campi di sterminio nazisti e i bombardamenti di
Netanyahu su Gaza, si rischia di passare per cinici denigratori e
distruttori di plurisecolari miti valoriali.
SCAFFALI
di Massimo
Del Pizzo
Il senso
del passaggio: Il giallo del semaforo di
Valeria Di Felice
Oggi vorrei ricordare il futuro e non il
passato.
Jorge
Luis Borges
È una questione di soglie, una questione di attimi:
quelli (fra passi e passaggi) che si presentano all’attenzione del viaggiatore
metropolitano (e non). Segni e segnali del Semaforo, cioè il verde del via
libera, il rosso del divieto e, quello più importante, il giallo dell’attesa. Fra
queste soglie, tra questi segni esegnali, sta la prova poetica di Valeria Di
Felice con un nuovo volume pubblicato nella elegante veste grafica proposta
dalla Società Editrice Fiorentina (SEF), come primo volume della Collana
“Pasifæ”, diretta da Mario Fresa, con prefazione di Giuseppe Girgenti, in
libreria da maggio 2025. Dell’autrice conosciamo le opere poetiche precedenti: L’antiriva (2014), Attese (2016), Il battente
della felicità (2018). La nuova offerta editoriale si articola in quattro
sequenze, secondo un andare che definiamo sussultorio, invece che ondulatorio, orientato
cioè verso il verticale: un poetare spesso inquieto, mai inquietante, però non
tranquillizzante. Una ricerca del nuovo alfabeto / a scrivere i geroglifici
del senso (La chiamata, p.17). Non crediamo alla
poesia come liberazione, terapia e consolazione. Solo i “conciliati” possono
credere (o far finta di credere), che sia tale. Solo chi ha paura di affrontare
e inventare la vita in parole può credere che la poesia offra un orizzonte di
pace. La poesia è esattamente il contrario: è danno, tormento e condanna,
negazione e scompiglio, scandalo e dubbio. Così per lo scrittore, ma anche per
chi legge. Del resto, il rapporto intimo fra scrittore e lettore è già da tempo
indicato nel grido definitivo (e “scandaloso”) di Baudelaire che, nell’incipit
de I fiori del male, proprio a
quest’ultimo si rivolge: “(…) mio simile,
fratello mio”.

Massimo Pizzo
con Valeria Di Felice
Accenti di
non conciliazione col presente e col senso comune li troviamo anche in Valeria
Di Felice, la quale si muove tra presenze note, familiari, siano oggetti d’uso
comune (il semaforo, in primis, ma
anche Ombrelli chiusi, La panchina
appisolata, I bordi del panino, Scarpe da calcio, I tergicristalli, L’ idrovora,
La carta copiativa, La penna), siano
animali (La talpa dal muso stellato, La gallina). Per definire (se possibile)
i quali, viene però utilizzato un linguaggio straniante. Ne derivano una
oggettistica stravolta da una inattesa collocazione e un bestiario metamorfico
che nessuno zoo può ingabbiare.
Il
registrare presenze verificabili e note, non garantisce un accesso al reale. Ma
il monito, in Valeria Di Felice, è perentorio, e si veda per esempio, L’editore: Gli chiese perché lo fosse. / “Non lo sono un editore” rispose.
/ “Non posso più mettere a fuoco / la tavola delle parole” (p.66).
Ed ecco
il punto: la poesia (anche quando finalmente è a stampa e ha dunque un corpo
reale che è il libro) non chiarisce, non descrive, non semplifica, non rende chiaro
ciò che è oscuro (… ) e sentiamo il filo
rosso tirare / dall’ignoto (La chiamata, p.17) e si legga allora soprattutto,
e per intero, La signora verità (p.67):
Bussò alla porta la signora verità. / Era
leggera, truccata, / aveva tacchi a spillo / che bucavano il pavimento. / Non
disse nulla / batté le ciglia / e mosse i capelli / sventolandomi contro /
l’avvenenza del gesto. / Non la feci entrare. / Avevo ancora addosso / il
pigiama della notte e - negli occhi / i sogni più irraggiungibili.

con Valeria Di Felice
Non ci si
lasci ingannare quindi: nei versi di Valeria Di Felice, l’universo dell’ovvio è
collocato in un altro quando verbale straniante, perché: Lui voleva restare / nel caos dell’indecisione / ma lei era già altrove
(La lavagna e l’altrove, p. 60),
ovvero perché: Non poteva sapere – la
folla / che i mimi del vero / fossero altrove (I mimi, p. 57).
Per
quanto codificati e prevedibili siano i messaggi che l’avvicendarsi dei colori
del semaforo veicola, resta un che di interrotto, un margine di incertezza: se
sia opportuno e necessario passare, se sia opportuno e necessario arrestarsi e
infine, o se non sia piuttosto il caso di vivere il momento dell’attesa del
transito.
Il colore
giallo, in questo senso, crea una sospensione fondamentale, una luce possibile,
per quanto fugace: Ancora noi che
ricordiamo il futuro nelle illusioni di luce, oppure: (…) noi,
in esilio dall’universo / mentre scontiamo gli inganni / della ragione (ancora
in La chiamata, p. 18).
Una parola
in movimento: Il viaggio era la
segnaletica / che stavo cercando
(Il giallo del semaforo, p.33).
Finalmente
il viaggio è possibile, perché il giallo del Semaforo non lampeggia in nessuna delle
città geograficamente localizzabili.
POETI
di Francesca Mezzadri
Tra
silenzio e fuoco: la soglia umana del divino.
Nella silloge Le cose invisibili di Francesco Aprile (Edizioni Dialoghi, pagg.
78, euro 14), si dispiega un percorso poetico che assomiglia più a un
itinerario spirituale che a una semplice raccolta. Ogni testo è una tappa di
trasformazione, una pagina del diario di chi attraversa la notte dell’anima per
ritrovare, nella parola, un barlume di verità.
Fin
dall’inizio, in A Est della Montanara,
la parola appare come luogo di conflitto: dono e condanna insieme. “Ho
regalato ad altri parole che meritavo, / ne ho ricevuto i silenzi che meritano
loro”. Una dichiarazione di poetica: la parola come strumento di
conoscenza che, nel momento stesso in cui illumina, ferisce. Il linguaggio si
fa corpo, materia che pesa e che resta, come accadrà più tardi nel doloroso Il
Dono. Nei testi successivi si alternano visioni corali e confessioni intime. Giugno
trasforma la sconfitta in immagine di grazia: “L’esercito sconfitto è un
campo di girasoli / allineati, col capo chino”. La perdita si
tramuta in epifania, in umile bellezza. In Ritratto
di famiglia, il poeta si spoglia davanti ai defunti, trovando nella loro
nudità la misura della verità: “In essi la nudità è più vera e Maggiore”.
La morte, qui, è vicinanza, non assenza. Il tono diventa profetico in Il
Dono: l’io lirico scopre in sé un potere medianico - “Mi hanno dato orecchie /
per chi non parla più” - ma
il carisma è una condanna. “Questo dono / non salva, non consola, non
guarisce. / Solo pesa”.
È la consapevolezza che ogni
conoscenza autentica è anche perdita dell’innocenza, una croce che non si
sceglie. Con Chi sei, che bussi? La
voce si fa dialogica, interrogando l’ombra di sé. Il poeta non trova risposte,
solo il riconoscimento del proprio timore: “Se ho vissuto per amore…?
/ Per paura”. È una confessione laica, in cui la
verità coincide con la vulnerabilità. Il silenzio
piccolo e Preghiera inversa
introducono la riflessione più alta: il silenzio come grembo del senso, la
preghiera come negazione del rito. “Non darmi volto… Non tendermi la mano…”: la liturgia si rovescia in gesto
umano. È qui che la poesia si fa teologia negativa, accettazione del mistero
invece che bisogno di risposta. Con Fuoco
al Cielo l’immaginario si fa alchemico: il fuoco brucia la materia muta e
la trasforma in luce. E con Metamorfosi
dell’occulto l’autore compie la propria trasmutazione: dall’alchimia dei
segni alla purezza dell’umano, dall’incantesimo alla pietà. Da Ruah (Rugiada) in poi, introduce un tono
più contemplativo e terreno. Ruah (soffio, spirito) riprende il tema biblico
della creazione e lo piega alla fragilità dell’io: “Io sono / solo / un uomo”.
L’essere si riconosce frammento del Tutto, non padrone ma parte.
Veronica e i testi contigui costruiscono
una scena medianica, quasi teatrale. La voce di una donna che “soffre per
amore” parla dal vuoto, invocando aiuto. Il poeta ascolta e risponde con
empatia disarmata: “Anch’io soffro, Veronica. / Per errore”.
È il punto in cui la compassione diventa comunione.
In Fame piena e Resta in attesa l’esperienza mistica assume toni di corporeità: la
fame, la presenza, l’alito sul collo sono epifanie sensoriali del divino. “Che
tu veda la mia fame già mi sfama” -
la conoscenza si compie nello sguardo, non nella risposta.
Domanda
aperta suggella la scelta della non-conclusione: “Anima, lascia che il
mistero resti”.”La verità non è nell’esito, ma nella
disponibilità a restare nella domanda. È un’etica dell’attesa, preludio a Il canto degli angeli, forse il testo
più luminoso: “Non portano messaggi, ma presenza”. Gli angeli non annunciano,
ma esistono: come la poesia, sono la bellezza inutile ma necessaria del
restare.
La
memoria domestica riappare in I gigli
della sabbia, dove l’infanzia e la figura di Zia Ada restituiscono il senso
dell’origine. I gigli, la sabbia, il tè al gelsomino diventano emblemi della
diversità accettata: “Quando fa male, è lì che prendi forma”.
La poesia si riconcilia con le proprie ferite.
In Ho peccato abbastanza, il poeta si
confessa con ironia sommessa e tono liturgico. Non cerca espiazione, ma
riconoscimento: “Ogni volta che torni insonne / dal letto di
paglia / brucerei l’incenso”. Il rito diventa gesto interiore, privo
di chiesa ma non di fede.
Con Il riflesso del cielo si raggiunge la
contemplazione finale: il mare come specchio che “inghiotte e risputa ciò che
ha tenuto ma non gli appartiene”. È una visione di libertà dolorosa, la
consapevolezza che l’anima non può trattenere nulla, nemmeno sé stessa.
La Ricetta
Ci sei?
Per un
attimo ho sentito l’odore
Del tuo
sugo caldo -
Quel
vapore lento che saliva
E diceva:
“Resta ancora qui.”
Ci sono,
non come vuoi, ma ci sono.
Abbassa il fuoco:
le patate si disfano
se le cuoci distratto.
Mi
manchi.
A volte
vorrei solo
Il tuo
profumo in questa stanza.
Ci sono, nei gesti:
quando lavi il basilico,
quando ti si appannano gli occhiali
prima di assaggiare,
quando aggiungi il sale
con paura di sbagliare.
Da
piccolo
Mi tenevi
stretto.
Ora stringi gli altri.
È lo stesso battito.
È una ricetta senza tempo,
che cuoce ancora, altrove.
Dov’è Dio?
Nel modo in cui ascolti
Senza chiedere perché.
Dio è dove smetti
Di voler capire tutto.
Cosa devo
cambiare?
Dimmi la
verità.
Smettila
Di pensarti rotto.
Smettila
Di volerti giusto.
Ama anche le crepe:
Dio passa da lì.
E ora gira.
Gira in senso antiorario,
come facevo io.
Perché?
Così si confondono
Il tempo, la fine, il presente.
E quando sarà
La cena giusta,
la riconoscerai
dal profumo.
“La
Ricetta” racchiude l’intera architettura spirituale della raccolta, trasponendo
il divino nel gesto quotidiano. La memoria materna, il profumo del sugo, il
basilico lavato sono icone di una teologia domestica: Dio non abita nel dogma,
ma “nel modo in cui ascolti / senza chiedere perché”. La fede si rivela come
disponibilità a non comprendere, come amore per l’imperfezione: “Ama anche le
crepe: Dio passa da lì”. È la stessa poetica del frammento di Ruah, ma
riscattata nella tenerezza. La lingua qui si fa narrativa, quasi prosastica, ma
conserva la densità simbolica del resto del corpus. La cucina diventa rito, la
ricetta liturgia, il profumo epifania. Il poeta conclude non con una risposta
ma con un gesto: “Gira in senso antiorario”. È un ritorno al mistero, alla
circolarità del tempo e dell’amore. Dalla prima all’ultima poesia, il percorso
compiuto è quello di una trasmutazione: dal dolore alla compassione,
dall’alchimia oscura alla semplicità quotidiana, dal silenzio alla presenza.
L’io poetico attraversa la perdita, l’attesa, la domanda, per approdare a una
fede senza religione, a una spiritualità umana, incarnata. Lo stile, pur
libero, è sempre rigoroso: sintassi breve, lessico alto e terreno insieme,
ritmo interno più musicale che metrico. Si avverte una parentela ideale con
Rilke, Caproni, Gualtieri e Campo, ma la voce resta autonoma, più terrestre,
nutrita di polvere e sale.
COMUNICATO STAMPA
Oltre l’ultimo cielo. Omaggio e
controcanto a Mahmoud Darwish
Venerdì 14
novembre alle ore 18.00, presso la Sala del Carroccio in Campidoglio, si terrà
l’evento “Oltre l’ultimo cielo. Omaggio e controcanto a Mahmoud Darwish”, promosso
dal Comitato Nazionale per la Buona Lettura Inchiostro in collaborazione con
l’Associazione Calabresi Capitolini.
Ospite d’onore sarà Sua
Eccellenza Mona Abuamara, Ambasciatrice di Palestina. Porteranno i saluti
istituzionali: Dario Nanni, Consigliere capitolino e Presidente della
Commissione Giubileo, Elisa Zumpano per Direttivo di Inchiostro, Rosario
Sprovieri per l’Associazione Calabresi Capitolini.
Seguiranno gli interventi di:
Hatem Abed-Sabra, interprete della Comunità Palestinese in Italia; Prof. Paolo
Canettieri, ordinario di Filologia e Linguistica romanza all’Università di Roma
“Sapienza”; Pier Paolo Di Mino, scrittore; Marco Giovenale, autore, editor e
traduttore, docente di storia delle scritture italiane contemporanee e Filippo
Golia, giornalista e autore.
La conduzione sarà affidata a Pino Nano,
giornalista, autore televisivo.
L’iniziativa è dedicata a Mahmoud
Darwish, poeta nazionale palestinese e una delle voci più autorevoli della
letteratura araba contemporanea. Nato nel 1941 in Galilea, Darwish, considerato
da Saramago uno dei maggiori poeti del Novecento, ha vissuto l’esilio e la
perdita della terra natale, temi centrali nella sua opera. Le sue poesie,
tradotte in molte lingue, sono diventate simbolo della resistenza e della speranza
del popolo palestinese.
Inchiostro nasce da un’idea e
sotto la direzione degli scrittori Nicola Argenti e Leonardo Floriani e della
Direttrice del Centro Culturale Connessioni Elisa Zumpano, con la
collaborazione del Chiosco Letterario dell’Università Sapienza. Organizza e
promuove eventi letterari liberi e gratuiti, coinvolgendo scrittori, poeti,
critici, editori e traduttori.
L’Associazione Calabresi
Capitolini è un’organizzazione senza scopo di lucro che promuove la cultura
all’ombra del Colosseo, favorendo la rete tra associazioni e creando occasioni
di confronto e dialogo per un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo.
L’evento è aperto al pubblico e
rappresenta un’occasione unica di incontro e dialogo nel segno della poesia e
della memoria.
Per info e prenotazioni: centroculturaleconnessioni@gmail.com
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