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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
martedì 23 dicembre 2025
BELGRADO, UNA LETTERA ALLA CITTÀ
Qui nulla è come sembra e,
al di là dei progetti speculativi che vorrebbero farne (e in parte già ne
stanno facendo) luogo di consumo urbano e spesa compulsiva, la strada ospita un
patrimonio storico e culturale che spesso sfugge alla vista degli osservatori
distratti. Dalla via principale (Kolarčeva), prima di giungere in Piazza della
Repubblica, immettendosi su Knez Mihailova, è
un susseguirsi di sorprese: il
Kulturni Centar (Centro culturale), luogo di incontri e conferenze, la fontana
Delijska, lo straordinario edificio della Accademia serba delle arti e delle
scienze, con l’annessa Galleria
d’arte, la cui collezione comprende circa
tremila opere, di ben 270 artisti nazionali e non pochi artisti stranieri. E poi ancora, la Galleriadell’Associazione degli artisti di belle arti, il Palazzo Zepter, con annesso Museo di arte
moderna e contemporanea, e infine, a pochi passi dal Kalemegdan, la Biblioteca
Civica, con un patrimonio di 1.8 milioni di contenuti.
La fortezza del Kalemegdan e il suo omonimo parco costituiscono un complesso unico che, meglio di altri, parla della storia di questa città. Il suo nome è di derivazione turca (Kale, “fortezza” e Mejdan, “campo”) e indica tanto le mura dell’antica Singidunum quanto uno dei più bei parchi belgradesi. Il Kalemegdan è, senz’altro, il simbolo di Belgrado. [...] In una zona di questo parco, chiamata “Veliki Kalemegdan”, si trovano numerosi monumenti eretti a ricordo di letterati, artisti, politici e altri personaggi insigni della storia serba”.
PROPRIETÀ INTELLETTUALE
di Olindo Cervi
L’economista
Olindo
Cervi a proposito dell’articolo di Francesca
Mezzadri apparso su “Odissea” martedì 16 dicembre scorso dal titolo “Il treno
dei bambini” https://libertariam.blogspot.com/2025/12/il-treno-dei-bambini-di-francesca.html ci ha fatto pervenire
questo scritto.
Noi
economisti siamo fortemente disprezzati causa le teorie neoliberiste che hanno
distrutto completamente due continenti, ma le assicuro che tanti di noi sono
ancora persone umane che pensano al bene comune e non al ladrocinio e alla
propaganda tanto di moda al giorno d’oggi. Da economista, oltre ad apprezzare
il valore storico-culturale del suo articolo, vorrei complimentarmi per aver
involontariamente (o forse no) messo in luce un caso di studio esemplare di
fallimento del mercato delle idee e di inefficienza nell’allocazione dei diritti
di proprietà intellettuale. La sua analisi, infatti, può essere letta come un
brillante report sull’asimmetria informativa e sull’esternalità negativa in un
settore cruciale: quello della produzione e distribuzione della memoria
collettiva. Le fornisco una mia lettura:
1.- Fallimento del Mercato e
Asimmetrie di Potere
Il suo articolo documenta un
classico caso di “market for lemons” (articolo scritto da George Akerlof
premio Nobel per l’economia), adattato al mercato editoriale.
Asimmetria Informativa
Il lettore (consumatore) non può
facilmente distinguere, nel prodotto finale (il romanzo di successo), la
“qualità” derivante dal lavoro di ricerca originale (di Rinaldi, Cappiello,
Piva) da quella della rielaborazione narrativa. L’informazione sulla provenienza
delle fonti è nascosta o opaca.
Spiazzamento del
Bene di Qualità
Il prodotto “low-cost” in termini
di investimento in ricerca (il romanzo che si appropria di narrazioni già
elaborate) cattura la maggior parte del profitto e dell’attenzione, rischiando
di spiazzare dal mercato i produttori del bene originale (la ricerca storica di
prima mano), che ha costi più alti e rendimenti economici più bassi. Questo
crea un incentivo perverso a investire in promozione più che in ricerca.
2.- Diritti di Proprietà
Intellettuale e Beni Pubblici
La memoria storica documentata è
un bene pubblico nel senso economico: è non-rivale (molti possono usarla
contemporaneamente) e, in questo caso, non-escludibile (non si può impedire a
un autore di fiction di attingervi). Non si
tratta della sovra-utilizzazione tipica dei beni comuni, ma del problema
opposto: la sotto-ricompensa per i creatori originari. I ricercatori investono
risorse (tempo, denaro, capitale umano) per creare un bene (la narrazione
documentata) che poi diventa un input a costo quasi zero per un altro agente
(l’autore di fiction) che ne cattura la maggior parte del valore di mercato.
Questo disallinea incentivi e può portare a una sotto-produzione futura di
ricerca storica originale.
3.- Esternalità Negative e
Fallimento della Coordinazione
Esternalità Negativa sulla
Ricerca: L’atto di non citare le fonti genera una esternalità negativa diretta
sui ricercatori: il loro lavoro viene svalutato economicamente e
simbolicamente, e il loro capitale reputazionale non viene “capitalizzato”. Il
mercato, da solo, non internalizza questo costo. Per i
singoli ricercatori, il costo di far valere i propri diritti morali
(attribuzione) e di negoziare un compenso (se dovuto) è proibitivo rispetto ai
benefici attesi. Questo rende inefficiente la soluzione privata e giustifica la
necessità di una norma sociale forte (l’etica della citazione) che il suo
articolo contribuisce a rafforzare.
4.- Investimento in Capitale
Sociale e Sovranità della Memoria
Il suo lavoro tocca un punto
cruciale di economia politica: chi controlla e monetizza la narrazione della
memoria collettiva? Il “lavoro di ricerca povero” descritto è un investimento
in capitale sociale e culturale che produce un bene fondamentale per la
coesione sociale: una memoria condivisa e affidabile. Consentire che questo
bene venga privatizzato e rivenduto senza un riconoscimento adeguato crea una
distorsione nel mercato delle idee e una perdita di sovranità sulla nostra
stessa storia. La sua analisi è un potente argomento per la trasparenza come
regolamentazione necessaria per correggere questa distorsione.
Conclusione da povero economista:
Il suo articolo non è solo un
contributo etico o storiografico. È un contributo a un principio caro agli
economisti con un’anima: l’efficienza del mercato culturale. Promuovendo
trasparenza, attribuzione chiara e riconoscimento del lavoro altrui, lei
propone un meccanismo per:
a) Ridurre l’asimmetria
informativa tra produttori e consumatori di cultura.
b) Allineare gli incentivi, in
modo che investire in ricerca originale torni ad essere premiato, anche
simbolicamente.
c) Correggere l’esternalità
negativa sull’ecosistema della ricerca indipendente.
d) Proteggere la diversità
produttiva nel mercato delle idee, evitando il monopolio narrativo di pochi
grandi attori.
In sostanza, ha scritto un
articolo chiaro, accessibile e fondamentale per la salute del nostro mercato
culturale.
NON SOLO MUSICA
di Francesca Mezzadri
Il giorno in cui il rock fece
beneficenza senza sapere come si fa.
Non era
Natale. Ma come spesso accade con le cose importanti, tutti si comportarono come
se fosse un Natale senza istruzioni. Nel 1971 il Bangladesh stava vivendo una
guerra di liberazione, una carestia, le conseguenze di un ciclone devastante e
l’indifferenza quasi totale del resto del pianeta. Milioni di profughi
attraversavano confini che nessuno aveva voglia di guardare troppo da vicino. I
giornali occidentali ne parlavano poco e male, quando ne parlavano. Ravi
Shankar, che invece guardava eccome, fece una cosa molto poco rock: chiese
aiuto. George Harrison ascoltò. E fece una cosa ancora meno rock: si mise al
lavoro. Un’idea semplice, che infatti sembrava impossibile. L’idea era
elementare, quasi ingenua: fare un concerto per raccogliere fondi e attenzione
per il Bangladesh. Niente slogan complicati. Niente effetti speciali.
Solo musica, nomi importanti e
una causa che non si poteva ignorare una volta pronunciata ad alta voce. Il 1°
agosto 1971, al Madison Square Garden, si tennero due concerti nello stesso
giorno. Perché quando sei in ritardo con la coscienza, raddoppi. Il pubblico
applaude. Era presto. Molto presto. Lo spettacolo iniziò con la musica classica
indiana. Ravi Shankar, Ali AkbarKhan, Alla Rakha, Kamala Chakravarty salirono
sul palco con strumenti antichi e pazienza infinita. Shankar spiegò che il
brano sarebbe stato breve. Il pubblico applaudì subito. Non per entusiasmo. Per
educazione. E anche perché non aveva capito che la musica non era ancora
iniziata. Shankar sorrise. Aveva visto di peggio. Poi arrivò il Natale rock. Dopo
l’introduzione indiana, il palco cambiò faccia. E anche l’aria. Salirono: George
Harrison, con la calma di chi sa di avere una responsabilità, Ringo Starr, che
non si tirava mai indietro, Bob Dylan, che non saliva su un palco importante da
anni e sembrava esserselo ricordato all’ultimo, Eric Clapton, Billy Preston,
Leon Russell, Badfinger. Nessuno venne per soldi. Le canzoni non cambiarono il
mondo, ma gli ricordarono che esisteva il Bangladesh.
I
regali
dopo la festa
Dal concerto uscirono: un album
dal vivo (triplo LP), pubblicato nel dicembre 1971, un film documentario,
distribuito nel 1972. L’album vinse il Grammy per Album dell’Anno nel 1973, probabilmente
uno dei pochi premi musicali assegnati a qualcosa che aveva davvero provato a
fare del bene. I fondi raccolti - biglietti, dischi, film - finirono
all’UNICEF. Non subito. Non senza avvocati. Non senza problemi fiscali. Ma finirono
lì. E questo, a volte, è già un lieto fine.
Il Bangladesh, finalmente in
prima pagina
Prima del concerto, il Bangladesh
era un posto lontano. Dopo, era un nome che la gente aveva sentito pronunciare
da Bob Dylan - e questo, negli anni Settanta, contava. George Harrison pubblicò
anche “Bangla Desh”, una canzone che non cercava metafore complicate: diceva le
cose come stavano, cosa piuttosto rivoluzionaria per l’epoca. Il Concert for
Bangladesh fu il primo grande concerto benefico del rock. Non sapeva di
esserlo. Non aveva un manuale. Fece errori, inciampi, confusioni contabili. Ma
aprì una porta.
Dopo di lui, nessuno poté più
fingere che musica e mondo reale fossero due stanze separate. E forse è questo
il vero spirito natalizio della storia: non la perfezione, non il miracolo, ma
qualcuno che decide di fare qualcosa - anche senza sapere esattamente come.
LA POESIA
di
Vitia D’Eva
Nefast’amoreeeee
eee ee e
È
imperscrutabile vero?
come
un sentimento d’amore
possa
ritorcersi contro
come
a una carezza
o
a sussurri di piacere
possano
sovrapporsi dinamismi
nefasti
d’inqueti urti
carichi
di contraccolpi gesti
di
lesiva ferocia
marchio
d’espressione
d’appassita
passione
che
stride nell’acuto e brutale dolore
d’un
corpo aggredito
atti
di decadenza
che
incidono sulle lenzuola
una
linea nera
acuta
di
liquefatto stridore
e
non è l’acuto
d’un
semplice gesto di gesso
quando
lo si vuole stridere sulla
bianca
lavagna.
domenica 21 dicembre 2025
VERSO L’INVERNO
di
Zaccaria Gallo

Monet
“Now is the Winter of our discontent”: sono
le parole con cui, Riccardo III Gloucester, di William Shakespeare presenta sé
stesso, all’inizio dell’omonima tragedia. “L’inverno del nostro scontento”,
dunque, quello che è alle porte. È così anche per noi? Per molti di noi? Per tutti quelli che ancora
si trovano nel terrore di guerre e bombardamenti, perdita di persone care,
bambini, mogli, mariti, padri e madri, fidanzati, case, averi, ricordi? È così
per chi soffrirà la fame, per chi è in miseria, senza un lavoro, o è ricoverato
in un ospedale, o in un ospizio per vecchi, o è nella cella di un carcere, o è
semplicemente solo? Proprio per non dimenticarci di nessuno di loro, facciamo
questo viaggio verso l’inverno, con nel cuore, nella mente, nell’anima, la
speranza che, proprio dagli incontri che faremo, possa nascere una fiammella
che unisca e ridia a tutti il senso della sacralità racchiusa in questa
stagione. Ed ecco il nostro incontro. È preceduto dalle note del Lied di Wilhem
Muller, musicato da Schubert nel 1827, un anno prima della morte, il “Winterreise”
o “Viaggio d’inverno” (ciclo di canzoni, che racconta di un
viaggiatore, o meglio del viandante, respinto da un amore, il cui percorso si
trasforma in un viaggio notturno di solitudine, disperazione e introspezione, attraverso una
natura invernale con nel cuore il dolore, la perdita e l’abbandono). Nel Lied,
il nostro viandante incontrerà un sonatore di ghironda, il suo doppio
spirituale, il suo destino. Invece noi
abbiamo quest’altro incontro: viene verso di noi uno stranissimo
personaggio, che molti di voi, che amate l’arte, avrete già certamente
incontrato sulle pareti di un Museo).

Arcinboldo
Un vecchio, fatto di tronchi e
grovigli di rami stecchiti, disordinati, a far capelli, assieme a piccole
foglie di verde edera (non coprono interamente la sua testa spoglia), e
un’ispida, incolta, barba; e per bocca due funghi (di quelli che spuntano dalla
corteccia degli alberi) e il collo e il torace fatto di attorcigliati tronchi,
avvolti in una stuoia, da cui spunta un’arancia e un limone, entrambi protesi
verso di noi. Lo riconoscete? È “l’Inverno” di Arcimboldo. Ora, a ben guardare,
ci sovviene l’idea che il vecchio ci stia dicendo alcune cose, che vanno oltre
il suo aspetto pauroso. Vero,
farà freddo, ma, con tanta legna, puoi scaldare la casa. E poi, se osserviamo
bene i due frutti, intuiamo che altre cose il vecchio vuole ricordarci. Quell’arancia nel mito greco,
era il dono di nozze di Giunone e Giove e, dunque, simbolo di fertilità ed
amore. E il limone? Simbolo di salvezza, purezza e fedeltà
amorosa (vive infatti e cresce sotto al sole, di cui prende la luce e il vivo
colore, in tutto l’anno, anche d’inverno). Gli faccio segno, proprio al limone,
che ha sul davanti, con una interrogazione muta, come a chieder spiegazione del
perché lui lo esibisce e lui mi guarda, lo guarda, sorride con la sua bocca
spugnosa e improvvisamente mi recita, roco e grave, come vento di tramontana, i
versi di Eugenio Montale (simbolo dell’oasi di una natura incontaminata, in
contrapposizione all’inquietudine e all’illusione della città).



Gagnon
Ascoltami,
i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati:
bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi /
fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra
i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. /
Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro:/
più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell'aria che quasi non si
muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in
petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace
la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore
dei limoni. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce nel
profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si
vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. / Ma
l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l'azzurro
si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la
terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa
avara - amara l’anima. / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli
alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore
si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della
solarità.


Chagal
Non è, allora, davvero l’inverno,
completamente, la stagione del nostro scontento. Guardando quel vecchio, che si allontana
con la sua arancia e il suo limone, tanti ricordi nascono dalle letture fatte,
affiorano e sono immagini quasi tutte di luce e speranza. Per gli antichi Egizi
era la stagione del Peret, quella che seguiva l’inondazione del Nilo, stagione
di felice attesa per il ritorno del Sole e dell’inizio del raccolto. Per gli
ebrei, l’inverno è legato principalmente alle festività di Hanukkah, la festa
delle luci e, nell’antica Grecia, era stagione di preparazione e cambiamenti
del quotidiano. Eventi come le Dionisiache rustiche e le Elenee, offrivano una
via di fuga dalla routine invernale e dalla solitudine delle dimore. Nell’antica
Roma, si celebravano i Saturnali, festa di sette giorni in onore di Saturno,
durante la quale venivano sciolti i legami sociali e si organizzavano banchetti
e scambi di doni. Durante quei giorni si invertivano i ruoli sociali: gli schiavi
erano serviti dai padroni ed era anche la festa del Sol Invictus (25 dicembre)
il“compleanno del Sole Invitto”, poi passata al Natale cristiano. L’inverno,
per gli Aztechi, era un periodo importante, soprattutto legato al solstizio d’inverno,
in cui si celebrava la nascita del loro Dio del sole. Luce e luci,
come in Danimarca o in Inghilterra, con la celebrazione del solstizio d’inverno
a Stonehenge: druidi e folle osservano, all’alba, il sorgere del sole
illuminare il cerchio di pietre. Un magico momento che simboleggia il
rinnovamento e il ritorno della luce. Ecco mi allontano ora, più sereno, e mi
accompagnano le note dell’Inverno di Vivaldi, tratto dal “Concerto per le
quattro stagioni”. Se, nel primo movimento, Vivaldi descrive la lenta caduta
dei fiocchi di neve e poi l’arrivo, con un rapido violino, del Dio dei venti,
nel secondo movimento è evidente la presenza di un uomo felicemente vicino al
calore del suo focolare, mentre osserva e ascolta il classico suono energico
prodotto dalle gocce della pioggia tipicamente invernale. Con un’atmosfera estremamente
dolce, trasmette un senso di grande pace, che poi si interrompe, però, alla
fine, con i suoni che provengono dalla strada, dove c’è la gioia di scivolare,
danzare sul ghiaccio. Sì, si cade, ma poi ci si rialza, gioiosi. Vivaldi, così
descrive quel contrasto di emozioni che l’inverno può provocare: essere duro e
difficile, ma la sua grande forza e bellezza termina sempre con un finale
esaltante.

MILANO. IL
PALAZZO AFORMA DI ESSE...
di Angelo Gaccione
E le case colorate di via Balzaretti.
L’unica immagine che sono riuscito a vedere dell’ex
stabilimento Rizzoli, l’ho trovata in Rete. Naturalmente è in bianco e nero e
la sua stazza, che occupava un’area considerevole già allora, quand’era stato
costruito, si distendeva in quelle che sono la via Pascoli, la via Balzaretti,
la via Pinturicchio e affacciava, con quello che doveva essere a tutti gli
effetti l’ingresso dei dirigenti e degli impiegati, sulla piazza Carlo Erba. Non
avendo all’epoca pressoché niente attorno, la struttura doveva apparire ancora
più vasta. Il numero non si legge; si legge, invece, con un po’ di fatica
perché le foglie degli alberi coprono alcune lettere, il nome Rizzoli che
campeggiava sul frontale in alto. Bombardato nel 1943 durante il Secondo
conflitto mondiale, gli andò bene e la Rizzoli poté restarvi per tutto il
dopoguerra fino agli anni Sessanta, quando lo spazio non bastava più e si
trasferì in via Civitavecchia a Crescenzago. A comprare il complesso fu La
Rinascente che vi insediò i propri uffici e vi rimase per oltre vent’anni. Alla
fine degli anni Ottanta nuovo cambio di proprietà: questa volta nelle mani
della compagnia immobiliare LA SA Spa, che la cederà a sua volta alla Zurich
Assicurazioni. La compagnia svizzera vi rimase fino al 2009 e alcuni anni dopo
il suo trasferimento, nel 2012, l’opera di demolizione ha potuto avere inizio. Il
passaggio di mano ha fatto scomparire la scritta, ma ora il numero di quella che
era l’entrata si legge bene: è il numero 6 e di originale è rimasto il
balconcino che sovrasta il portone. Un portone in metallo dalla graziosa trama
composta da fantasiosi segni geometrici. L’area era appetibilissima e gli
appartamenti realizzati dagli architetti Eisenman, Degli Esposti e Guido Zuliani, avranno fruttato
alla proprietà bei quattrini dai facoltosi acquirenti. Oggi la costruzione che
si è elevata di diversi piani in altezza, appare ancora più massiccia. Vista
dall’alto, ha la forma sinuosa di un’ansa di fiume o di una esse e non passa di
sicuro inosservata. In genere quando venivo da queste parti lo facevo per
vedere le belle case in cotto di via Plinio, Piazza Carlo Erba e dintorni in
finto gotico, ma di recente, girando nella via Balzaretti, mi sono imbattuto in
un gruppo di case “fiorite” e colorate. La Casa della Musica ha porte,
serrande, finestre e balconcini colorati di un rosso squillante; pareti esterne
azzurre e nere con riprodotti strumenti a fiato, mani che impugnano rossetti e,
chissà perché, dondola appeso ad un balcone, la coda di uno squalo di plastica
gonfiato. Sul fianco di un’altra abitazione è riprodotto un globo con dentro
gli stati del Nord America; su un’altra facciata delle gigantesche rose, e
giganteschi gigli su quella di un’altra casa ancora. Una vera galleria d’arte en
plein aire realizzata per il Fuori Salone dal magazine Toiletpaper di
Maurizio Cattelan. Negli ultimi tempi è divenuta una moda, questa di dipingere
le facciate in maniera così fantasiosa, e sta interessando diversi quartieri
della città. Comunque la pensiate, alcune vie diventano meno grigie, più allegre,
e attirano curiosi: anche se a volte possono apparirci kitsch.
ALBUM
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| Il vecchio stabilimento Rizzoli |
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| La nuova costruzione 1 |
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| La nuova costruzione 2 |
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| La nuova costruzione 3 |
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| La nuova costruzione 4 |
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| La nuova costruzione 5 |
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| La nuova costruzione 6 |
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| La nuova costruzione 7 |
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| La colorata via Balzaretti |
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| La Casa della Musica |
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| Il delfino appeso |
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| Case fiorite 1 |
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| Case fiorite 2 |
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| Casa con Globo |
IL CONTORNO
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| Una pietra di inciampo nella zona |
UNA GIOIOSA FATICA
di
Giuseppe Langella
Questa
nota è apparsa domenica 7 dicembre 2025 su l’Altravoce - il Quotidiano
Nazionale. Si ringrazia la Redazione per averne autorizzato la pubblicazione
per i lettori di “Odissea”.
Una
gioiosa fatica di Angelo Gaccione (La Scuola di Pitagora, Napoli
2025, pagine 160 € 16) è il libro di una vita, come confermano le date poste in coda al titolo: 1964-2022.
Raccoglie, infatti, buona parte della produzione poetica dell’autore, dalle
prime precocissime prove (Le ritrovate), stupefacenti per qualità di
canto, alle poesie più recenti (Le ultime), una piccola Spoon River
paesana d’intonazione quasi metafisica, affacciata sul mistero della morte. In
mezzo, scandito in 12 stazioni tematiche disposte in ordine approssimativamente
cronologico, si svolge il lungo viaggio, anche geografico, di un uomo
innamorato della vita e dei suoi doni, pacifista convinto e impegnato nella
difesa dei diritti e della giustizia sociale. In questo senso, Una gioiosa
fatica è un libro di spiriti e umori prevalentemente civili, dove si
alternano, come ha sottolineato Tiziano Rossi nell’Introduzione,
«l’indignazione e l’incitamento, il giudizio pacato e la frustata polemica, la
confessione inerme, la caricatura e la gelida constatazione». Ne fanno fede
anche i titoli, in specie, di alcune sezioni, dalle Arrabbiate alle Dolenti,
fino alle Incivili. Non per nulla, il libro è uscito nella collana “Fendinebbia”,
espressamente dedicata alla poesia civile. Vediamone uno fra i testi più
esemplari, si intitola “La coppia” e chiude la raccolta; lo troviamo nella
sezione de Le Ultime ed è stato scritto il 28 novembre del 2022. “Un
uomo con Dio e uno senza Dio / si misero in cammino per giorni. /Alla
porta della città / videro un uomo che pendeva da un gelso. / Lo
avevano appeso nudo per dare l’esempio. / L’uomo con Dio si levò la
giacca / e l’uomo senza Dio i calzoni. / Lo vestirono e lo
seppellirono in un fosso. / Fuori dalle mura l’uomo con Dio piantò la
croce / e l’uomo senza Dio sparse i semi che portava in bisaccia. / Nessuno
dei due varcò la porta. / Né quello con Dio né quello senza Dio”.
Per richieste alla Casa Editrice:
info@scuoladipitagora.it
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