UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

sabato 6 dicembre 2025

ULIVI E LIBERTÀ
di Giuseppe Cinà
 


Hanno paura degli ulivi
 
Questa foto, scattata a Susya in Cisgiordania alcune settimane fa da Elena Castellani, attivista di Assopace Palestina, si presta ad alcune considerazioni.
Essa appare come un ritratto composto da due ritratti sovrapposti, quello di due uomini della Settlers Security (che potrebbero essere militari, coloni o mercenari) in servizio di vigilanza e quello di un paesaggio che rappresenta il territorio oggetto della loro attenzione. I due uomini sono armati fino ai denti, esprimono forza e potenza, ma sono lungi dal somigliare ai due bronzi di Riace, non sprizzano certezze. Ambedue guardano di lato, ciascuno sorvegliando le spalle dell’altro, forse hanno visto il fotografo e non vogliono essere fotografati, oppure non sanno di essere fotografati e stanno semplicemente facendo il loro lavoro: assicurarsi che nessun pericolo si annidi nel territorio affidato. Ma quale territorio? 
Quello del secondo ritratto, il desolato paesaggio che comprende 1) il poggio su cui si ergono i nostri eroi, coperto da terriccio compattato presumibilmente per la sistemazione di un’area di sosta e avvistamento, in prossimità di un’area appena occupata dai coloni, con due dimesse costruzioni subito sotto, ultima propaggine di un abitato palestinese che su quel poggio si concludeva; 2) la arida piana che appare non essere più coltivata; 3) gli spelacchiati resti della macchia in una timpa denudata probabilmente per il pascolo intensivo. Questa timpa è attraversata da un ampio e serpeggiante stradone a cavalcapoggio con connesse stradelle poderali ma le case sparse che dovettero abitarla non ci sono più. L’area risulta dunque ‘bonificata’. Dei pericoli connessi a un territorio che potrebbe ospitare terroristi sotto ogni pianta di lentisco non c’è più l’ombra.


Chi pianta un ulivo salva la vita

Noi non vediamo i volti dei due uomini, peraltro nascosti da un cappuccio a maschera, e dunque non sappiamo se loro, non potendo ignorare che sotto i loro occhi si muovono ormai solo lucertole e poco altro, siano per questo rilassati. Sono in servizio chissà da quando e potrebbero essere stremati, annoiati e pensare solo all’ora di fine servizio. O potrebbero essere ben reattivi e nutrire un vivo sentimento per quello che vedono. Uno di loro potrebbe guardare a quelle smunte colline come a un sito ideale per costruirvi un ennesimo insediamento illegale di coloni, già alla sua nascita ripulito da ogni scoria di sapore palestinese e in grado di far diventare quel luogo un rigoglioso giardino mediterraneo; potrebbe pensare dai, siamo a buon punto, facciamola finita.  L’altro, ci auguriamo, potrebbe invece pensare di sentirsi prigioniero del fucile che imbraccia, pensare che mai avrebbe voluto partecipare a questa guerra, pensare che difficilmente il suo paese potrà riportare a una vita normale quel deserto che ha sotto gli occhi e quell’inferno che ha visto quando ha servito all’interno delle città bombardate; potrebbe pensare che Israele è in guerra da settantasette anni, che a ogni stagione di crisi ne esce rafforzato con l’annessione di nuovi territori, ma che alla fine resta sempre allo stesso punto. 
I due sono immobili e forse, svuotati dalle tensioni cui sono continuamente sottoposti, si sono abbandonati per alcuni minuti al lusso di non pensare a niente. Sono immobili, guardano lontano per tenere tutto sotto controllo entro il loro sguardo, ma non vedono quello che hanno accanto a sé che poi è, per dirla con Roland Barthes, il punctum della foto. Un ulivo, un piccolo innocuo ulivo di due-tre anni, piantato sul limitare del poggio. È una pianta che sembra comprata da un vivaio, innestata con modalità standard su un porta-innesti selvatico, piantata su una terra pietrosa che sembra aver sofferto poco l’aridità, se no non avrebbe tanti rametti, ma che appare da poco abbandonata. Risulta infatti non potata nella parte alta della branca principale, che avrebbe dovuto essere cimata nello scorso inverno per consentire alla pianta di accrescersi anche in larghezza. Perché sarebbe stata abbandonata, se l’uomo che l’ha piantata lo avrà fatto con grande amore pur nelle condizioni più drammatiche, nell’incertezza totale del futuro? Non lo sappiamo, sappiamo solo che l’ulivo sta lì, anche se i palestinesi giorno dopo giorno ne sono allontanati. Sta lì in Palestina da 6000 anni o più, a sentire la Bibbia ben prima che essa fosse abitata dagli ebrei (Deuteronomio 6,11: «abiterai presso vigneti ed oliveti che non hai piantato»; e Giosuè 24,13: «vi ho concesso un paese che non avete coltivato, eppure mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti che non avete piantato») e da allora non se ne è andato più, propagandosi anche per tutto il bacino Mediterraneo. È stato e rimane lì non solo nella sostanza biologica, nella doppia forma di Olea europaea sativa (coltivata) e sylvestris (selvatica), ma anche a testimonianza dei significati che esso ha assunto sotto molteplici profili culturali presso tutti i popoli mediterranei dall’antichità ai tempi nostri. E, caso notevole, dal Mediterraneo si è propagato nel resto del mondo nonostante la progressiva laicizzazione delle società occidentali ne abbia di molto disconosciuto le valenze culturali. Tutte tranne una: quella alimentare che anzi, marginale fin dall’antichità, è cresciuta esponenzialmente solo dal XIX secolo a oggi riaccendendo il nostro interesse nei suoi riguardi. Ma in Palestina, anche a motivo della sua particolare vicenda storica, le tradizionali valenze culturali dell’ulivo sono per molti aspetti sopravvissute ed esso rimane esposto al cielo come la bandiera nazionale, simbolo del radicamento dei palestinesi alla propria terra e della loro straordinaria capacità di resistenza. Anche per questo i palestinesi non smettono mai di piantarne e per i coloni che vogliono scacciarli dalla loro terra estirpare un ulivo equivale ad abbattere un indomabile combattente, distruggere un uliveto equivale a disperdere la popolazione di un intero villaggio. 



Questo succede in tutta la Palestina e succede nel territorio ripreso dalla foto. Infatti nel 1983 la colonia di Susya è stata fondata accanto al preesistente e omonimo villaggio palestinese e da allora l’area è diventata uno dei punti più critici del conflitto agricolo-territoriale della West Bank. Risultato: gli ulivi mutilati, estirpati, bruciati o avvelenati non si contano più. E il nostro piccolo ulivo, piantato da un Enea in fuga, farà la stessa fine o riuscirà a invecchiare reclamando pacem in terris? Diventerà l’orgoglio di un colono che lo ha rubato e lo crescerà davanti casa sua o tornerà nelle braccia di chi lo ha piantato? La storia lo dirà. Intanto i palestinesi continuano a piantare ulivi portando avanti una sorta di lotta di liberazione non violenta che viene silenziata dai maggiori organi di informazione insieme alle azioni con cui i coloni la reprimono ferocemente con la complicità degli organi governativi.

APPELLO SCIOPERO GENERALE DELLA CGIL
di Franco Astengo


Spesa sociale sì
      Spesa di guerra no

12 dicembre 2025
 
Lo sciopero generale indetto dalla CGIL per il prossimo 12 dicembre aveva, al momento della sua proclamazione, come oggetto immediato l’iniqua manovra finanziaria che il governo della destra sta preparando allo scopo di accrescere le disuguaglianze economiche e il disagio sociale. Di questi tempi i fatti corrono più velocemente delle intenzioni e oggi ci troviamo di fronte ad una azione di lotta che sta assumendo caratteri di vera e propria difesa della democrazia repubblica: questo elemento ci è stato indicato con chiarezza dall’attacco “fisico” rivolto ai siderurgici genovesi in lotta per la difesa del posto di lavoro. Un attacco accompagnato dal tentativo di imporre alla Città medaglia d’oro della Resistenza protagonista della cacciata dei fascisti nel luglio ’60 il ritorno alla “zona rossa” di memoria (tragica) del G8 2001.
Per questi motivi molto precisi la CGIL non va lasciata sola in questo suo tentativo di promuovere una opposizione e una resistenza sacrosantemente motivata dal punto di vista del movimento dei lavoratori. Ci rivolgiamo dunque ai soggetti associativi di cultura politica che già avevano risposto positivamente ai nostri precedenti appelli sui temi della pace e della stessa manovra finanziaria fornendo in quelle occasioni un ottimo riscontro di presenza e di impegno. Ricordo che le sottoscrizioni debbono rappresentare un soggetto collettivo e in attesa delle vostre adesioni aggiungo a memoria come la data del 12 dicembre rappresenti un momento storico di snodo nella vicenda politica del nostro Paese: il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana iniziò un periodo di terrorismo nero attraverso il quale si provò a fermare il movimento operaio sulla strada delle sue conquiste di diritti e di presidio della Costituzione Repubblicana.
 
Le adesioni devono pervenire a questo indirizzo email
astengofranco@gmail.com 

CONVEGNO SU ANTONIO PORTA
Università degli Studi di Milano Via Conservatorio n. 7








venerdì 5 dicembre 2025

MILANO TRA VECCHIO E NUOVO   
di Angelo Gaccione


 
N
ella storica zona di Porta Garibaldi, a ridosso dei grattacieli, resistono, almeno per ora, alla furia della demolizione del “vecchio”, singolari e fascinosi edifici primi Novecento. Li vedi far capolino qua e là, seminascosti fra anonime e banali costruzioni realizzate per lo più negli anni Cinquanta o giù di lì. Si tratta di una “architettura” modesta, “veloce” nei tempi di realizzazione e anche alquanto economica, resasi necessaria ed urgente per sopperire alla mancanza di alloggi a causa dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale, e dare un tetto a chi l’aveva perso. Il boom degli anni Sessanta del Novecento avrebbe fatto il resto, badando più alla funzionalità che alla bellezza, e non del tutto aliena da un intento speculativo. Tutto l’opposto dei solidi edifici degli anni precedenti la guerra, ancora oggi fieri della loro robustezza e con corti e giardini interni, anche quelli cosiddetti popolari. 



Dietro c’era un’idea di decoro e di rispetto della dignità degli abitanti, oltre ad un evidente orgoglio per la propria città. Ricostruire senza criterio è stata la regola per molto tempo nel nostro Paese in generale. La furia edificatoria della Milano di oggi sale in verticale, divora ogni spazio possibile là dove si è reso disponibile dalle dismissioni industriali. Produce edifici di forte impatto visivo, costosi e alla portata di pochi: fondi anonimi esteri e ricconi, indifferente ai ceti sociali più poveri e ad un ceto medio sempre più in difficoltà e costretto a trasmigrare altrove perché la città merce non è più alla sua portata. 



Tra il nuovo ardito che li schiaccia e li sovrasta, a volte affiorano, questi meravigliosi gioielli architettonici del passato. Si fanno notare come possono, perché il nuovo ha modificato la percezione visiva di molti angoli della città, e quando avviene se ne prova una piacevole sensazione. Come accade trovandosi davanti il gradevole palazzo liberty del numero civico 14 sul Viale Monte Grappa, ora in mano ai Russi, e dove Berezka ha aperto una Russian Bathhouse.

PIOMBINO, GAS, ECONOMIE E GUERRE
di Associazione volontariato Idra



Qualcuno ha aperto la stalla, e i buoi sono scappati. Adesso, chi li riacciuffa? Di quale stalla stiamo parlando? Quella del gas liquefatto. I primi buoi a scappare sono stati i valori ambientali: al loro posto, pratiche aberranti di produzione dell’energia fossile mai viste, come quelle indispensabili a estrarre il metano dalle viscere della terra con la fratturazione idraulica, poi liquefarlo, poi trasportarlo attraverso gli oceani e rigassificarlo con un ennesimo dispendio di energia. Il secondo gruppo di buoi fuggiti sono le regole del buon governo della spesa pubblica: l’abbandono forzato degli approvvigionamenti provenienti via gasdotto e a buon mercato ha condannato famiglie e imprese a prezzi e condizioni di vita dettate da oligarchie onnipotenti, col grazioso beneplacito delle amministrazioni ‘pubbliche’ acquiescenti. Una terza schiera di garanzie evaporate con la Golar Tundra, e tutte le consorelle d’Italia, è la salute e la sicurezza delle popolazioni costrette a conviverci, lasciate alla mercé della dea bendata contro ogni sana cultura della precauzione, il cui rispetto Mario Draghi ha definitivamente archiviato in queste ore a beneficio del business dell’intelligenza artificiale…



Infine, a Piombino è stato sottratto il diritto all’autodeterminazione e alla pace. Nell’attuale delirante contesto internazionale, l’imposizione alla città e al Paese di gas liquefatto made in USA viaggia in sinergia con un processo grottesco di demonizzazione di avversari immaginari e con una corsa paranoide agli armamenti: c’è già chi si spinge a accarezzare l’ipotesi di un “attacco preventivo” che possa essere considerato “un’azione difensiva”, come ha avuto la cortesia di annunciarci l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del comitato militare NATO. Per tutti questi motivi, contrastare la conferma dell’oltraggio alla città di Piombino dopo tre anni di bocconi amari non è solo compito dei residenti di quella città. È compito della nazione. La fase che viviamo, caratterizzata da livelli preoccupantemente mediocri di informazione e di analisi, attesta uno scollamento sempre più profondo delle élites dirigenti dalle esigenze delle popolazioni, e persino dalla percezione della realtà. Riusciranno dunque i politici di ‘destra’ e di ‘sinistra’ che hanno aperto la stalla a recuperare i buoi fuggiti?



Tutti lo speriamo, e tutti ci adoperiamo perché ciò avvenga. Ma assai più certo e salutare sarà l’esito di questa vicenda se a imprimere una svolta nella direzione della tutela del pianeta, dell’economia, della salute e della convivenza fra i popoli saranno le azioni e le coscienze di una collettività finalmente risvegliata.

VE LO DICO IN VERSI
di Marcello Campisani



Fine della storia?
 
L'animale è retto dall'istinto,
la sua ferocia, la sua atrocità
hanno un loro tragico recinto.
Ben più bestiale la disumanità!
Nessun altro come l'uomo è atroce
nel massacrare la sua stessa specie.
Dedito da sempre a guerreggiare,
si fece un solo Dio tutto bontà,
così da potere meglio odiare  
combattendo le altrui divinità.
Ma sempre assolutissimo fetente
venne considerato il miscredente.
Crocifisso, ora in divina gloria,
ci fu, per vero, qualche vagabondo
che incise i gironi della storia
purgando la caligine del mondo.
Quel messaggio suo, mal digerito,
risulta fino ad oggi il più tradito.
Sto parlando di storie superate.
Ora langue persin l'ipocrisia
con la quale venivano ammantate
le spedizioni della ruberia.
Ormai si vuol che la brutale forza
sia di per sé ragione, senza scorza.
Nell'ideale dell'iperliberismo,
culla del suicidio universale,
culmine di qualunque peggior ismo
s'annida la franchigia d'ogni male.
Le guerre posson ora cominciare
senza che le si debba dichiarare.
Da noi sta per essere ultimata
quella che da più luogotenenti
ai poveracci venne scatenata,
cementando fascisti e delinquenti.
Perciò si vieta d'arrestar l'infame  
e protestare a titolo di fame.
Formalmente ancor non abrogate,
della Costituzione si fa autodafè
delle norme di fatto cancellate:
S'annuncia dell'Italia gran decollo.
Basterà vietare ogni controllo!
Ogni stipendio vige illimitato!
Altro che comunismo osceno:
il tetto del massimo è saltato,
ed al minimo mai si pose freno.
La Regione toscana ci ha provato
Ma Giorgia prontamente l'ha impugnato.
Va aumentando la criminalità.
Che sia grave ormai la situazione,
pur distinguendone la casualità,
sono concordi con l'opposizione.
D'accordo, sì, ma che problema c'è?
Vuoi sicurezza? E fattela da te!
Certo lo Stato iperliberale
coglie il bandolo della matassa:
l'inesorabil legge universale
di chi langue e di chi se la spassa.
L'età della pietra è ritornata
e la storia può dirsi completata.

LA GUERRA È STUPIDA
di Maria Antonietta Montella



Posso lanciare la mia invettiva contro la Guerra?
 
La guerra è la massima espressione della stupidità umana. Quando mai ha portato benefici se non all’industria delle armi e della ricostruzione oltre che al vincitore? Ma, attenzione, al vincitore non per tanto tempo, la ribellione che cova nei perdenti sarà tutto a suo danno e ai suoi sodali. Per cui grido: ‘Abbasso la guerra, sempre. È stupida e inutile. Studiamo la Storia, invece, è necessario, per capire quanto è abissale la stupidità della guerra’.
Come avrete notato la maggior parte delle guerre nascono su diatribe di confini e frontiere. Confini mai naturali ma stabiliti e imposti che danneggiano tutti e provocano altre guerre di logoramento. Frutto di patti e accordi di natura politica, come quelli che vengono stipulati al termine di una guerra e che disegnano nuovi confini politici, non corrispondenti a quelli naturali. Non sopporto i confini stabiliti dall’uomo, la maggior parte con l’inganno. Per quanto riguarda uscire dalla Nato - se sono contro la guerra sono anche contro la Nato - io uscirei subito, ma non certo per recuperare la sovranità nazionale. Sempre per gli stessi motivi di cui sopra: confini come barriere che causano molti dei mali che fingono di prevenire.



Bisogna augurarsi come Einstein la creazione di un organismo internazionale che riunisca tutti gli stati e a cui essi sacrifichino parte della loro sovranità e che sia in grado di bloccare le guerre. Una federazione di pace come già proponeva Kant. Per lui era necessario che gli Stati superassero la forma dello Stato nazionale e trasferissero la propria sovranità a un organismo sovranazionale. Che non era la Società delle Nazioni che Freud criticava perché priva di effettivi poteri. Che non è l’Europa di oggi, priva di effettivi poteri. Sono per l’Europa vera, senza confini, che comprenda anche la Russia. Sì, anche lei - a dispetto di alcuni suoi governanti dittatori - perché ha creato con noi la Pace dopo la seconda guerra mondiale. Quindi iniziamo da qui: facciamo l’Europa davvero.
Se la guerra è la massima espressione della stupidità umana, e qui concludo, il dialogo è la massima espressione dell’intelligenza umana. Sul dialogo dobbiamo impegnarci fino in fondo. Con la volontà di superare i conflitti lavorando per una soluzione che soddisfi tutti. Fino ad essere esausti e firmare con un abbraccio.

 

USCIRE DALLA NATO?



(…) Uscire dalla Nato va bene. Ma non mi è chiaro dove, sic rebus stantibus, Mazzella voglia andare. I termini “recupero della sovranità nazionale e popolare” mi mettono i brividi.
Si spieghi meglio!
 
Gabriele Scaramuzza -  già docente di Estetica


 
Caro Angelo, 
Dove deve andare l’Italia? Perché non sta bene dove sta? La Svizzera dove è andata? E la Svezia dove stava prima del suo grosso errore (ovviamente, a mio giudizio) di entrare nella NATO? La neutralità non implica spostamenti e a me la guerra procura più brividi della sovranità. Inoltre, mi piace poco il servilismo che nel nostro caso non è più nemmeno verso un Paese ma verso un Partito (e il Deep State) che in quel Paese è stato sconfitto. Un caro saluto. 
 
Luigi Mazzella - Vice Presidente emerito della Corte Costituzionale
 

 

RIVISTE


È nata Claim: una nuova rivista bimestrale libera, gratuita e senza pubblicità. Ieri, giovedì 4 dicembre c’è stata la presentazione del primo numero alla Redazione di Scomodo (Via Carlo Emanuele I, 26 - Roma). Una pubblicazione libera, senza pubblicità, con una tiratura massiva e una vocazione chiara: aprire spazi di discussione nel presente, attraverso una pluralità di linguaggi, stili narrativi e punti di vista.

Di futuro si Muore / Di futuro si Vive
Il numero inaugurale di Claim, è un esperimento editoriale e si articola lungo due poli opposti e complementari: Di futuro si muore e Di futuro si vive. Due copertine, due estremi che si incontrano nello sfoglio della rivista. Il primo numero indaga i nodi centrali del presente - politici, sociali e culturali - liberandoli dall’ossessione di leggerli soltanto attraverso le categorie del futuro. Se il futuro come promessa ci imprigiona, esiste un presente da trasformare. Tra le firme del primo numero di ClaimKen LoachBasel Adra (premio Oscar 2025 per No Other Land), Joan Claire TrontoMarco CastelloDavid YambioInsaf Dimassi, Franco La Cecla, Nicola Zolin.

Ogni numero ruota attorno a una presa di posizione netta, approfondita attraverso testi narrativi, saggi, contributi artistici, reportage, analisi e linguaggi eterogenei. La stessa presa di posizione che contraddistingue ogni numero si declina in maniera specifica anche negli articoli, introdotti sempre da un sottoclaim, che non vuole essere un titolo, ma una tesi frutto di un processo di sintesi degli articoli in dialogo con gli autori e le autrici, per proporre in modo diretto ma ragionato delle rivendicazioni. La rivista è bimestralecartaceagratuita e indipendente. Ha una distribuzione capillare in tutta Italia: luoghi di lavoro, scuole, università, spazi sociali e culturali, librerie indipendenti, strade ed eventi. Edita dalla Filcams Cgil, la federazione delle lavoratrici e dei lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi, Claim vuole farsi carico di istanze concrete. A partire dalla condizione di subalternità che le persone vivono in un presente dove il desiderio di rivincita è troppo spesso distante dal riscatto collettivo. Claim ha una linea editoriale indipendente, ma è in dialogo costante con la Filcams. Il dialogo con la Filcams si traduce nella volontà comune di indagare il contemporaneo e contrastare individualismo, sfruttamento, solitudine e condizioni di subalternità che molte persone vivono nel presente. Claim nasce come uno spazio di incontro tra approfondimento e rivendicazione, un luogo dove sperimentare nuove forme di comunicazione. Sei numeri in un anno. Ogni numero è una presa di posizione netta sulla realtà che viviamo e che ci circonda.

Contatti: infoweb@edizionizero.com

A GORIZIA CONTRO L’ECONOMIA DI GUERRA




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