UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 28 marzo 2025

ODESSA, VITA QUOTIDIANA E BOMBARDAMENTI
di Christian Eccher



In centro

Il bagliore delle luci gialle del centro si riflette sul selciato bagnato e sulle nuvole basse, da ore sospese e immobili sulla città; lungo la via pedonale “Primorskaya”, luccicante e pulita, che inizia nei pressi del Teatro dell’Opera e del Municipio, ci sono poche persone a passeggio, quasi tutti giovani. Sulla sinistra si ergono maestosi e fieri palazzi, che, con i loro stucchi e gli eleganti balconi, guardano al mare: in passato, Odessa si presentava così ai naviganti, con l’orgoglio e la fierezza di una ricca e gentile architettura. La parte destra della passeggiata è invece aperta e, come da una terrazza, permette la visione dell’intero golfo e del porto, da cui sopraggiungono rumori di camion che scaricano le merci, di treni in arrivo e di gru che caricano container carichi di grano su navi invisibili: a causa dei continui attacchi dei russi all’infrastruttura portuale, le imbarcazioni ancorate ai moli tengono spente l’illuminazione di bordo.



Tranquillità e poi droni

Le giornate trascorrono tranquille, Odessa è una città viva e la guerra sembra lontana, relegata alle zone più orientali dell’Ucraina. La gente va a lavorare, i tram gialli e rossi si scuotono al passaggio lungo gli spaziosi boulevard che portano in periferia e tutto sembra essere normale e in perfetto ordine. Quando però cala la sera e la notte si distende sul Mar Nero e sui territori stepposi del sud dell’Ucraina, l’ululato sinistro delle sirene antiaeree ricorda alla gente, già chiusa nelle proprie case e nei propri appartamenti, che il conflitto è presente, e che si combatte anche qui. In una sera di marzo, in cui l’aria di brezza dal mare profuma già di primavera, proprio nei giorni in cui i primi teneri germogli sbocciano sugli alberi che costeggiano la scalinata Potemkin, la Russia scaglia l’ennesimo attacco contro Odessa, questa volta con droni di tipo “Shahed”. Fra l’urlo delle sirene, si sentono distinti i colpi di contraerea che rimbombano in tutta la città. Nel cielo, compaiono le scie rosse dei proiettili della contraerea, come fossero stelle cadenti che hanno però origine dal mare e che vanno verso il cielo. Un boato scuote la zona dell’aeroporto: un drone o i resti di un drone hanno colpito un edificio civile della periferia, un deposito di giocattoli e una zona in cui si trovano anche dei depositi di carburante. Dopo mezz’ora di dura battaglia celeste, l’allarme aereo finisce e la città ritrova la calma della notte. Al mattino, il cielo è cupo e un sole pallido fa capolino a est. Non si tratta di nuvole ma della coltre di fumo proveniente dalla zona bombardata. Una colonna altissima e nera si alza da un punto indefinito all’orizzonte e il vento in quota la disperde ad alta quota. L’odore di bruciato è ovunque e l’incendio e il fumo rimarranno visibili per altre 24 ore.



Il porto
La colonna di fumo si estende verso la periferia orientale della città, spinta dai venti occidentali. Nella zona del porto, sormontata dalla coltre di foschia nera, c’è un gruppo di case unifamiliari incassate fra la periferia e i moli. Ci si arriva con il tram che segue la strada magistrale per Mykolaiv. In prossimità del porto, ci sono edifici distrutti e incendiati; Odessa è stata colpita più volte dai russi con droni e missili proprio nel suo punto nevralgico, il porto appunto. Dopo il mancato rinnovo dell’accordo sul grano, nel 2023, il Cremlino ha continuato a bombardare quest’area della città, che comunque continua a essere produttiva e funzionale. A livello infrastrutturale, solo il 30-40% degli edifici del porto è in funzione, ma l’export è tornato quasi ai livelli prebellici. Da Odessa partono soprattutto grano e prodotti siderurgici.



La periferia e la casa di Maria
Cala la sera e subito appare chiaro il contrasto fra la periferia e il centro della città. Qui le vie sono poco illuminate, la strada principale è molto trafficata e, verso l’interno, dalla parte opposta del porto, si vedono soltanto le luci fioche delle case unifamiliari a un piano. In una di queste vive Maria con la mamma Irina e i suoi due figli Vladimir e Anna (i nomi sono inventati). L’abitazione è molto vecchia, è stata costruita dai tedeschi che abitavano a Odessa negli anni ’40 e all’interno ci sono tre stanze e un bagno, composto soltanto da un cesso e un lavandino. Non ci sono né la doccia né la vasca da bagno. “Sono tornata a vivere qui con mio figlio dopo che mio marito è morto in guerra, per abbattere i costi e per non lasciare sola mia madre” dice Maria, mentre beviamo un tè alla luce fioca del soggiorno. Accanto al tavolo, c’è un divano letto su cui dorme la madre, che in questo momento riposa perché non si sente bene. Le chiedo di parlarmi delle circostanze in cui è morto il marito. “È partito volontario per il fronte ed è ufficialmente scomparso senza lasciare traccia nel luglio scorso. Per lo Stato non è morto, per questo non prendo neanche la pensione che spetta alle vedove”. Le chiedo come faccia a essere certa della morte del marito: “Per prima cosa, se un soldato finisce prigioniero dei russi, si viene sempre a sapere. Seconda cosa, basta guardare le mappe di avanzata del fronte: il giorno in cui mio marito è morto, ci sono stati dei combattimenti furiosi proprio nella zona in cui si trovava, che non è controllata da nessuno degli eserciti. Mio marito è rimasto lì, né lo hanno catturato né è tornato indietro. Probabilmente non è stato neppure sepolto...”. 



Maria ha lo sguardo duro, gli occhi vitrei di chi è abituato alle difficoltà. Da bambina, la madre alcolizzata l’ha abbandonata; lei è cresciuta in un internato sovietico, dove ha vissuto violenze di ogni tipo. Una volta maggiorenne, la madre, che è riuscita a disintossicarsi, l’ha cercata e lei l’ha perdonata. A 20 anni ha partorito Vladimir, che adesso ha 24 anni, e si è sposata. In un secondo tempo è nata Anna, che ora ha 15 anni. Ironia della sorte, i genitori del marito vivono in Russia, a Mosca, e non sanno della fine del congiunto. Sono anziani e non reggerebbero al dolore. Il marito di Maria, prima di partire per la guerra, aveva esclamato: “Vado a sparare addosso ai miei, e i miei spareranno addosso a me!”.
Maria lavora come donna delle pulizie per un’azienda di Odessa e presta servizio anche in case private. Nella fabbrica per cui lavora, guadagna 900 grivenj al giorno (circa 20 euro). “Adesso stiamo abbastanza bene economicamente, ma io devo lavorare 14 ore al giorno - continua Maria - vorrei ristrutturare questa casa, ma Vladimir non vuole, dice che è meglio aspettare la fine della guerra”.



Progetti futuri e il missile Iskander
Mentre la mamma parla, Vladimir entra nella stanza. Un fisico atletico, la barba lunga e rossa e un tatuaggio sul braccio destro, con scritte indecifrabili. “Mamma, te l’ho già detto! Devi essere razionale: viviamo vicino al porto, un missile potrebbe distruggere tutto da un momento all’altro. Ristruttureremo a guerra finita!”. Maria risponde prontamente: “Io dico che dobbiamo ricostruire ugualmente. È un modo per essere attivi e per non arrendersi alla guerra. Continuare, continuare, continuare, se poi ci danneggiano la casa, lo Stato ci aiuterà a ristrutturarla di nuovo!”. “Se invece il missile ci colpisce direttamente, il problema è risolto per sempre”, dice Vladimir, mentre ride e prende una bottiglia di rum dalla credenza appoggiata sul muro antistante al letto. Vladimir è uno dei tanti giovani che si nasconde per non essere arruolato nell’esercito. “Ho perso molti amici e mio padre, mia madre insiste perché io non mi arruoli. Ci avevo pensato, ma credo di avere delle responsabilità nei confronti della mia mamma, di mia sorella e di mia nonna”. 



Alla domanda sul perché volesse arruolarsi, risponde con lo sguardo serio di chi ha riflettuto a lungo: “Vedi, ritengo che l’invasione della Russia vada fermata, ma non è per questo che avevo preso la decisione di andare al fronte. Se vai in guerra, devi prima di tutto risolvere il tuo rapporto con la morte, e, di conseguenza, anche con la vita. Una riflessione interiore, lunga e dolorosa, che ti porta ad accettare il fatto di andare incontro a ciò che noi esseri umani continuamente rimuoviamo, a cui non vogliamo pensare: alla morte. Bene, io avevo risolto questo nodo ed ero pronto a morire. Poi, mia madre - mentre pronuncia queste parole si alza e la abbraccia - mi ha fatto capire che avevo delle responsabilità e che per questo era più importante che io vivessi. Lo devo soprattutto a mia sorella”. Maria è riuscita anche a raccogliere i 15.000 euro necessari per ottenere il passaporto (illegalmente, l’Ucraina non ha ancora del tutto risolto la piaga della corruzione) e per permettere a Vladimir di lasciare il Paese, ma il figlio non li ha accettati. Rimarrà a Odessa fino alla fine del conflitto. La discussione continua, finché le sirene antiaeree non cominciano a suonare. “I soldi messi parte li utilizzeremo per pagare l’istruzione per mia sorel...”. Un tuono sordo e cupo interrompe Vladimir. Una fortissima onda d’urto spalanca la finestra appena accostata, nelle orecchie si sente la pressione dell’aria, come quando il treno entra di colpo in galleria. Un missile russo, un Iskander, è caduto sul porto. Sapremo solo dopo qualche ora che ha colpito una nave algerina carica di grano. 4 uomini dell’equipaggio sono morti, 3 siriani e un ucraino.



Geopolitica e speranze
Nella zona denominata Fontana, sul lungomare, vicino al grattacielo in vetrocemento che qualche tempo fa è stato colpito da un drone e mostra ancora gli ultimi piani sventrati, mi aspetta Arthur, un professore dell’Università di Mykolaiv, a Odessa per un incontro di lavoro con alcuni colleghi. Parliamo della situazione politica non certo felice in cui si trova l’Ucraina. “Gli ucraini non hanno voltato le spalle al proprio Presidente, come alcuni media occidentali vogliono far credere. Zelensky è sempre popolare, anche e soprattutto dopo lo scontro con Trump. Ha sempre dimostrato coraggio e non ha mai abbandonato il Paese”. Gli chiedo quale sia lo stato d’animo suo e della popolazione ucraina in questo momento e lui conferma l’impressione che ho avuto in questi giorni parlando con la gente di Odessa: “Siamo stanchi, siamo tutti molto stanchi. Vorremmo che questa guerra finisse. Missili, droni, se non ci sono esplosioni urlano le sirene, non si riesce mai a dormire per una notte intera!”. Questa, infatti, è anche una guerra del sonno: spesso, i russi fanno alzare droni da ricognizione a tarda notte solo perché sanno che così suoneranno le sirene in tutta l’Ucraina e che la gente si sveglierà, cosa che, alla lunga, può portare a problemi di salute e a crisi di nervi. 



Chiedo al professore se fra la gente regnino anche pessimismo e disperazione dopo il rifiuto di Trump di aiutare l’ucraina: “Pessimismo c’è, disperazione no. Il quadro geopolitico cambia molto rapidamente, non è escluso che Trump litighi con Putin e che torni ad aiutare gli ucraini. In ogni caso, Zelensky si sta muovendo bene, continua a intessere rapporti diplomatici con Washington, sa che senza l’aiuto degli americani l’Ucraina è persa”. E l’Europa?. “Sull’UE non possiamo ancora contare. A Bruxelles si parla di riarmo, ma il processo è lento e a noi le armi servono subito. Sarebbe utile dar vita a un esercito comune europeo che, nell’ottica di una vera e propria confederazione di Stati europei di cui un giorno farebbe parte anche l’Ucraina, difenderebbe gli interessi comuni del nostro continente”.
Si fa buio, la notte scende e insieme a lei un manto di nebbia fitto che arriva dal mare e nasconde la sommità del grattacielo in vetrocemento, sfregiata dal drone.



Erwartung
Nel rifugio del Teatro dell’Opera, a cui si accede attraverso corridoi e scale misteriose che portano nel sottosuolo, va in scena un’opera di Arnold Schönberg, Erwartung, ‘Attesa’. Il rifugio antiaereo diventa palcoscenico e platea e le note del Maestro austriaco, intonate dal soprano Yulia Tereshchuk, ricordano ai presenti che la realtà in cui viviamo è estremamente complessa e che può essere descritta (e quindi compresa) solo grazie a un linguaggio altrettanto complesso, quello che ci offre l’arte, appunto. La musica e l’arte danno un senso e riempiono l’attesa che stanno vivendo in questo momento Odessa e l’Ucraina. L’attesa della fine della guerra e dell’inizio di un nuovo mondo, che stenta a nascere, mentre quello vecchio, fatica a morire.
 
[Odessa, Primorskyi raion, 14-16 marzo 2025]

PER NOVALIS


A 224 anni dalla scomparsa prematura del poeta, teologo e filosofo Novalis, vorrei rendere omaggio al genio tedesco romantico del Blaue Blume (Il Fiore Blu), attraverso la traduzione del Secondo Inno, tratto dagli Hymnen an der Nacht, una raccolta di poesie dedicata alla sua amata Sophie, dopo la sua morte, pubblicata sulla rivista tedesca Athenaeum nel 1800, in cui il poeta si raccoglie in sé stesso nella luce della notte per “romanticizzare” il divino, araldo di infiniti segreti. Se ogni atto traduttivo, nella lingua e cultura d’arrivo, comporta sia una perdita che una aggiunta di elementi, dovuti a differenti variabili di natura socio-linguistica e culturale, il mio è un tentativo di essere quanto più fedele a quel sentimento della “Sehnsucht” tedesca tipica dei poeti romantici del circolo di Jena, di cui Novalis si fa esemplarmente portavoce.
Anna Rutigliano



Secondo inno alla notte
 
Farà sempre ritorno il mattino?
Finirà mai la violenza sula Terra?
Infausta frenesia che divora
l’avvicinarsi celestiale della Notte.
Arderà mai in eterno
il segreto sacrificio d’Amore?
Alla Luce è stato attribuito il suo Tempo;
ma il regno della Notte non possiede
tempo né spazio.
Eterno è il sonno.
Sacro Sonno, non rallegrare troppo di rado
il devoto alla Notte, in questo giorno di fatica terrena.
Gli stolti soltanto ti rinnegano e
non conoscono sonno
se non quello dell’ombra.
che tu infondi su di noi, con pietà,
in questo crepuscolo di vera Notte.
Non ti percepiscono
Nel torrente dorato dei grappoli,
nel miracoloso olio del mandorlo e
nel bruno succo del papavero.
Non sanno che Tu sei lì,
fluttuante ai seni della tenera fanciulla
 a rendere Cielo il suo grembo,
non sospettano che ti opponga
da antiche storie aprendo Cieli e
che conduca la chiave alle dimore dei beati,
Tu, silenzioso messaggero di Infiniti Segreti.  

POESIA TRE
di Massimo Cecconi



Il volume, con il sottotitolo “poesia e poeti nel territorio del Municipio 3”, è stato presentato il 21 marzo scorso presso la sede del Municipio
 
È decisamente piacevole avere per le mani una copia di un piccolo libro di 80 pagine dedicato alla poesia, a partire dalla copertina rigorosamente bianca con un segno grafico di Josef Weiss, incisore e tipografo d’arte ticinese. Come è stato stimolante presenziare alla sua presentazione nell’aula consiliare del Municipio 3 con la partecipazione di moltissimi giovani che quel libro hanno contribuito a costruire con la loro adesione al progetto “Mandaci una poesia”, dedicato a under 35 che volessero cimentarsi con un linguaggio che oggi sembra sempre più lontano dai canoni, sempre più “perversi”, della scrittura e della comunicazione. Da un’idea di Giovanni Bonoldi, che della promozione della poesia ha fatto uno scopo di vita, con il sostegno di Caterina Antola, presidente del Municipio 3, e di Valeria Borgese, già assessora alla cultura, si è sviluppato un progetto che, in pochi mesi, ha permesso, attraverso la diffusione di un apposito bando, per quanto informale, di raccogliere 150 opere alcune delle quali, selezionate da una Commissione di lettura composta da Antigone (Eugenia Giancaspro), Luigi Cannillo, Paolo Cerruto, Maddalena Loi e Paolo Massari, hanno poi trovato collocazione nel libro che stiamo descrivendo. In quarta di copertina, una nota descrive bene il progetto e le sue intenzioni:” Poesie lineari, per lo più. Alcune poesie visive (verbo visuali). Una prosa poetica. Arrivate da persone che abitano, studiano, lavorano a Milano nel territorio del Municipio 3. E testi poetici, poesie visive, opere d’arte prevenienti da fuori zona (persino da fuori città o regione) e prescindendo dall’età anagrafica. Queste le risposte al messaggio-invito “Mandaci una poesia” del Municipio 3. Questo libro ne ospita una parte, e informa su alcuni “Luoghi della poesia” del territorio. Sì, stiamo parlando di poesia”. E, quasi a sottolineare l’eccezionalità e persino l’eccentricità della proposta, la stessa quarta di copertina contiene un pensiero di Franco Loi, immenso poeta milanese che ha trascorso la sua giovinezza nelle vie del Casoretto.
“Ho cominciato a scrivere, come dire, perché sentivo il bisogno di dire certe cose, e di esprimermi, e quindi scrivevo. Perché certe cose poi sono cose che magari tu non puoi dire, ai genitori men che meno, ma anche agli amici magari certe volte, e allora le scrivi…”. Anche oggi molti giovani hanno sentito “il bisogno di dire certe cose”, come Anna Sessa che scrive: “Calde e salate scivolano sul viso/ Le rare belle affiancano un sorriso”, laddove l’espressione “le rare belle” rappresenta da sola un’esplosione di significati.
Oppure il ritmo dei versi di Alice Bulloni in ‘Tutto’: “Poesia lussuria ironia fu. E poi, qualsiasi cosa”.
Il volume ospita poi testi più articolati ma altrettanto significativi. Sono molte e contrastanti le immagini, le emozioni e le sensazioni che emergono dai versi contenuti in “Poesia Tre” che dà finalmente voce a pensieri che altrimenti sarebbero stati nascosti forse per sempre. Nel tardo pomeriggio di venerdì 21 marzo, non a caso Giornata mondiale della poesia, si è consumato il rito insolito di ascoltare parole non vane, non fini a se stesse. I numerosi giovani presenti hanno testimoniato che esistono modi e tempi per confrontarsi civilmente scegliendo con la poesia una strada non certo scontata, non certo banale. Nell ultime pagine, il volume ospita le schede di alcuni luoghi del territorio di pertinenza in cui si “pratica” poesia: le biblioteche comunali Lambrate e Venezia, la Fondazione Mudima, Officina Coviello e Quindici Palazzi. In chiusura, Filippo Rossi, il nuovo assessore alla cultura del Municipio 3, ha promesso altre puntate di questo raffinato racconto dedicato all’incanto/disincanto della parola.
P.S. Per chi fosse interessato, copie del libro sono disponibili sino a esaurimento presso la sede del Municipio 3 in via Sansovino n. 9.
Oppure il ritmo dei versi di Alice Bulloni in ‘Tutto’: “Poesia lussuria ironia fu. E poi, qualsiasi cosa”.
Il volume ospita poi testi più articolati ma altrettanto significativi. Sono molte e contrastanti le immagini, le emozioni e le sensazioni che emergono dai versi contenuti in “Poesia Tre” che dà finalmente voce a pensieri che altrimenti sarebbero stati nascosti forse per sempre. Nel tardo pomeriggio di venerdì 21 marzo, non a caso Giornata mondiale della poesia, si è consumato il rito insolito di ascoltare parole non vane, non fini a se stesse. I numerosi giovani presenti hanno testimoniato che esistono modi e tempi per confrontarsi civilmente scegliendo con la poesia una strada non certo scontata, non certo banale. Nell ultime pagine, il volume ospita le schede di alcuni luoghi del territorio di pertinenza in cui si “pratica” poesia: le biblioteche comunali Lambrate e Venezia, la Fondazione Mudima, Officina Coviello e Quindici Palazzi. In chiusura, Filippo Rossi, il nuovo assessore alla cultura del Municipio 3, ha promesso altre puntate di questo raffinato racconto dedicato all’incanto/disincanto della parola.
P.S. Per chi fosse interessato, copie del libro sono disponibili sino a esaurimento presso la sede del Municipio 3 in via Sansovino n. 9.

A TRADATE




giovedì 27 marzo 2025

A TRIESTE
28 marzo ore 17 davanti alla sede Rai



D
icono che non ci sono i soldi per la sanità, per l’istruzione, per salari e pensioni, ma trovano subito un milione di euro per un giullare di regime, che va nella televisione pubblica a incensare un’Unione Europea, intenzionata a spendere 800 miliardi per preparare la terza guerra mondiale con la Russia. Per chi vuole esprimere la sua rabbia verso tutto questo, ci vediamo venerdì 28 alle 17.00 in via Fabio Severo 7, davanti alla sede della televisione. 
Coordinamento No Green Pass e Oltre

SIAM PRONTI ALLA MORTE?
di Luigi Mazzella


 

L’inno di Mameli tra dissensi e scongiuri.


Passiamo per essere un popolo di pantofolai, pacifici e sedentari, ma nessuno ci eguaglia quando cantiamo i nostri canti di guerra. A parte quelli del Ventennio Mussoliniano (“All’armi siam fascisti!”, “Vincere e Vinceremo”; “Passano i sommergibili”; e frasi come “Ridere in faccia a monna Morte ed al destino”) anche il nostro inno “nazionale” o “inno di Mameli”, quanto a desiderio di morire in guerra, non scherza! Goffredo Mameli era un giovane che sapeva “muoversi” nell’ “Italietta dei troppi Staterelli”, era mazziniano, garibaldino e come loro massone. Il suo inno era rivolto ai “fratelli muratori” da lui ritenuti i veri protagonisti del Risorgimento. Le sue “vibranti” parole furono messe in musica da Michele Novaro, il cui nome però, non passò alla storia. Per rendere l’idea di ciò che avvenne, si potrebbe dire che se Enrica Bonaccorti si fosse iscritta alla Massoneria la Canzone “La lontananza” sarebbe stata attribuita a lei e non a Domenico Modugno.
In realtà, non so se i suoi fratelli in grembiulino abbiano fatto a Mameli un vero regalo. Agli occhi degli ironici italiani del Terzo Millennio (non molti, ovviamente) la musica di Novaro piace ancora molto e i giovani, anche quelli per così dire in età di leva, la ripetono nei cadenzati suoni con orgoglio, ma stenderebbero volentieri sulle parole un velo pietoso di silenzio (addirittura, cancellando, dopo averle sottolineate con la matita rosso-blu, le parole: siam pronti alla morte! ritenute piuttosto iettatorie).
Non sembra comunque ipotizzabile che i molti testi alternativi al grido di guerra di Mameli (tra essi quelli di Bonaccorti e di Gaccione) possano sostituire un canto che a giudizio della massoneria inglese (e internazionale) ha avuto il merito di infondere negli Italiani quel coraggio che non contrassegnava, di certo, i connazionali di Don Abbondio. 



All’epoca delle guerre del cosiddetto “Risorgimento” italiano, la magia di un “popolo di morti” che si era messo, secondo Carducci, “dietro” il volto tutt’altro che accattivante di Mazzini era stata compiuta dall’Inghilterra. L’Albione (pre-mussoliniana e non ancora “perfida”), avendo deciso di combattere e di ridimensionare il potere dell’Austria in Europa, con l’aiuto del suo “Sancho Pansa” abituale (la Francia era tale anche prima di Macron), aveva spronato gli Italiani ad “andare incontro alla morte” per regalare l’intero Stivale ai fidati Piemontesi, distruggendo ogni residuo collegamento italico con la casa regnante di Vienna.
Anche oggi che l’Italia è divenuta, nel corso dell’imperio del Partito Democratico nord americano (lo stesso, peraltro, di Giorgio Napolitano) grazie alla sua tendenza servizievole, filo-statunitense, il bellicismo italico è stato sollecitato da un decadente Joe Biden, anglosassone. E ciò nonostante che a palazzo Chigi fossero giunte forze politiche sedicenti “diverse” ma che, comunque, avevano, nel loro DNA politico, antichi “ardimenti” anche se di segno opposto. Con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca il bellicismo italico ha conosciuto un momento di smarrimento. E l’idea di essere pronti alla morte
non più per lo zio Sam ma per Ursula Albrecht Von der Leyen, qualche  disorientamento l’ha procurato.



Esso continua a essere il grido di mezzo Partito Democratico, di un super agitato Carlo Calenda (desideroso di portare ancora il figlio in Ucraina, sotto le bombe, come ha dichiarato in televisione), di un Matteo Renzi, avvezzo alla litigiosità contradaiola della periferia fiorentina ma desideroso di cimentarsi in più ampi campi di battaglia. È, invece, flebilmente contrastato dall’altra metà del partito che fu di Togliatti e di Berlinguer, da Giuseppi Conte, di cui Trump non ha ancora declinato il nome di battesimo al singolare, da un Antonio Tajani con i “sali da annusare” a portata di mano per non svenire nel bel mezzo del grido bellico, da Giorgia Meloni che non riesce a impossessarsi di una delle due chiavi necessarie per aprire il cor di Federico (Donald, ovviamente).



Forte del grido di Un nemico del popolo di Ibsen “L’uomo solo è il più forte del mondo”, Matteo Salvini, deciso, memore dei versi leopardiani, a “procombere” in battaglia da solo, si è dichiarato contro il “riarmo” proposto dalla neo alleanza franco-inglese-tedesca. Fedele a Trump, in odio al Partito Democratico divenuto Trasversale (o più semplicemente Occidentale, tout court).
La situazione per il già titubante segretario della Lega non è facile. Dopo gli atteggiamenti (a volere essere generosi) “cauti” di Antonio Tajani sulla guerra russo-ucraina, dopo la sua posizione chiaramente ammantata di scettica prudenza circa i tentativi in atto per giungere alla pace, compiuti da Trump e Putin, dopo il suo parere sul  riarmo proposto dalla bellicosa Von der Leyen, dopo la versione per così dire “ufficiale” di Forza Italia sulle origini della guerra diametralmente opposta a quella data da Berlusconi nel 2014 che parlava chiaramente  di massacri di filo-russi e russofoni ad opera dei battaglioni nazisti di Zelensky, dopo la sostanziale cessione da parte degli eredi del Cavaliere al sinistrismo più spinto delle reti Mediaset (per avere un minimo “contraltare” a ciò che vi si ascolta, meglio passare a “Otto e mezzo” dove qualche voce discorde “efficace” si può ancora trovare ), dopo tutto quello che si è detto si deve necessariamente desumere che i nemici dell’“indomabile Silvio” stessero proprio in famiglia. 



È vero che anche la RAI, dopo la cosiddetta “conquista” del centro-destra continua a essere egemonizzata dai soliti “intellettuali di sinistra”, ma sorprende di più che ciò rappresenti la scelta degli eredi del Cavaliere. 
Conclusione: Mal comune mezzo gaudio. Schlein sta contro la metà del suo partito e in un ambiguo disaccordo-accordo con Conte; Calenda è sempre di più contro Renzi; Bonelli e Fratoianni sono contro tutti (forse anche contro se stessi); Meloni e Tajani avversano le iniziative di Salvini (con Vance). In buona sostanza, il bellicismo italiano, allo stato, appare ancora “casalingo. Il “siam pronti alla morte”, con buona pace di Mameli, risuona, allo stato, solo negli stadi.  

 

 

I POETI DI ANGELO GACCIONE
di Franco Curto



Perugia. Con la recente raccolta dal titolo Poeti, con sottotitolo, Ventinove cavalieri e una dama, (Di Felice Edizioni 2025 pagg. 56 € 10), ritorna a coinvolgere il lettore, il canto melodioso e struggente di Angelo Gaccione. L’opera, con note di Vincenzo Guarracino e Alessandra Paganardi, è un viaggio poetico attraverso tutto il Novecento, arrivando fino ai giorni nostri. L’idea geniale di Gaccione è affidarsi ai poeti, molti di loro conosciuti e frequentati, altri incontrati nello studio della nostra storia letteraria. Si dipana il suo canto su un verso iniziale di uno dei poeti nel testo; con un intimo sentire consente all’autore un dialogo nel tema che svela sentimenti, impegno sociale, il proprio privato, la strenua difesa di diritti e l’aspirazione alla libertà. Gaccione, uomo del nostro tempo, è la prova della fedeltà alla parola scritta, che in mezzo secolo, resta la testimonianza di coerenza e comunque mai sottomessa al Potere. Gaccione si chiede perché “vengono al mondo i poeti” e la risposta che egli ci dà, dopo tutto, è quella di “gravarli della pena / che solo la fatica di vivere comporta”. Ha ragione quando Caproni svela che la poesia “è il sale del mondo”, come il sole che tutto illumina e a Gaccione indica la strada seguendo la propria ombra. Con Sbarbaro, Angelo concorda nella grazia concessa ai poeti, perché anche egli è convinto che la parola genera felicità. Si riaffaccia altresì l’incubo del male. Il ricordo di Hiroshima è il fantasma che aleggia nel mondo e con Raboni si chiede allora che ne sarà della nostra stoltezza se non evitiamo che l’idea della guerra possa prevalere. Un verso che a volerlo metabolizzare spezza il cuore. Tematiche nella poesia di Gaccione affrontate con un linguaggio lieve ma incisivo, una filosofia che sa d’antico. Una celebrazione genuina di una religiosità laica della natura e la denuncia coraggiosa di tutte le offese provocate dalla nostra follia disumana. Il ricorso al ricordo e la forte nostalgia del ritorno ai luoghi dell’infanzia povera e felice, nonostante tutto, è allo stesso tempo la grande voglia di emergere per farsi parola. Nei sui versi c’è anche lo sconforto verso la meta e il bisogno di una compagnia per non restare soli. Il suo pensiero va a quell’unica dama nel volume nella voce di Antonia Pozzi. La parola è la medicina giusta per i nostri malesseri interiori che quasi sempre salva la vita. Pavese è vivo ancora oggi perché ci ha insegnato il mestiere di vivere in questa giungla che non ha più regole ma disordine. Gaccione dialoga con Ungaretti, Quasimodo e Montale, pilastri della nostra poesia, ma ama Penna e la felicità per una giovinezza interiore che non ha baricentro ma sa lasciarsi andare “come foglia in attesa di volare o cadere”. La poesia di Gaccione è musica che affascina e sconvolge, essa domanda il lettore e si domanda dando anche risposte che in verità sono segni e sogni di speranze a volte disperate per l’insensatezza di noi “Uomi…” malati di soldi e di potere. Del resto tutto quanto previsto da Pasolini di cui Angelo si era già occupato. Ma niente di nuovo oggi sotto questo cielo. Ci salverà la poesia? Nessuno è in grado di darci una risposta, so solo e lo sanno i poeti che senza poesia il mondo sarebbe più povero, forse da tempo finito. Gaccione nella sua opera canta l’amore, grida senza paura contro ogni guerra, contro l’ingiustizia e rivendica con la sua opera di scrittore, a tutto tondo, i diritti per i senza diritti, per fermare la violenza che dilania l’animo umano e annienta bambini innocenti che domani forse cercheremo. Un ritorno felice al primo amore di Gaccione per la poesia, con questa bella raccolta, che lascia un segno indelebile nel lettore per il suo stile chiaro e suggestivo, che non può che essere il rumore della coscienza per scuotere l’individuo dal proprio torpore e dall’assenza di partecipazione alla salvezza di un pianeta che rischia di questo passo di andare a rotoli.

  

SPAZIO MERINI




mercoledì 26 marzo 2025

LA PROSPETTIVA DELL’OCCIDENTE
di Franco Astengo


 
Scrivendo un brillantissimo articolo  Alessandro Portelli (“il Manifesto” 25 marzo 2025) ha affrontato il tema del ruolo storico di quello che chiamiamo Occidente (che fa coincidere con il maschio bianco tendenzialmente suprematista) riportando un passaggio dall’ultimo libro di Amitav Gosh Fumo e Ceneri (2023, non ancora edito in Italia): “un altro concetto dell’illuminismo che ha svolto un ruolo importante nel dare forma all’immagine che l’Occidente ha di sé, la Storia come una narrativa di progresso che si evolve verso certi fini trascendenti fondata su una concezione del tempo e della storia, come una narrativa di ininterrotto Progresso ascensionale.
Proprio questo è il punto (paradigmatico) sul quale le forze progressiste -appunto - dell’Occidente (sempre inteso coincidente con il maschio bianco tendenzialmente suprematista) dovrebbero interrogarsi: la prospettiva dell’Occidente dovrebbe oggi contemplare la necessità di interrompere proprio questa narrativa di “ininterrotto Progresso ascensionale.
Rispetto a quello che abbiamo pensato per un lungo periodo di tempo occorre ripartire dall’idea dell’impossibilità di procedere sulla linea dello sviluppo infinito inteso quale motore di una storia inesorabilmente lanciata verso “le magnifiche sorti e progressive identificando il progresso tecnologico e militare con l’assoluta superiorità di una etnia, di un genere, di un sistema politico. Si dovrebbe interrompere proprio questa narrazione fondata sull’assoluto progresso progettando un gigantesco spostamento di risorse tale da modificare profondamente il meccanismo di accumulazione dominante e ricostruendo una nuova consapevolezza del rapporto tra individuale e collettivo: “si realizza la vita d’insieme che è solo la forza sociale, si crea il blocco storico” (Gramsci Quaderno 11).
Serve una dimensione teorica capace di comprendere quanto di “senso del limite” sia necessario acquisire proprio al fine di realizzare quel mutamento sociale posto nel senso del passaggio dall’individualismo competitivo fin qui egemone nella post- modernità verso forme di soggettività collettiva. L’obiettivo da porsi dovrebbe essere identificato nel riuscire a proporre una nuova libertà posta al di fuori della schiavitù della competizione individuale e della voracità consumistica approdando a una forma di libertà garantita dalla coscienza del singolo e dalla volontà del collettivo.
 

 

VITA DELLA POESIA  


 
Appunti di un filosofo di estetica, Gabriele Scaramuzza, e di una musicista, Tiziana Canfori, sul libretto di poesie di Gaccione presentato di recente alla Biblioteca Ostinata di Milano.


Gabriele Scaramuzza

Angelo Gaccione ci ha di recente lasciato Poeti. Ventinove cavalieri e una dama, con note introduttive di Vincenzo Guarracino e Alessandra Paganardi, edito nella Collana “La Carena” (diretta da Silvia Elena Di Donato per le Edizioni Di Felice, Martinsicuro 2025). I poeti sono per lo più grandi nomi sulla bocca di tutti, ma anche poeti meno noti, ma non per questo insignificanti. Tutti devono esser stati amati da Gaccione, “gli hanno detto qualcosa”, in modi e sotto luci diverse. 
Del tutto originale, e unico a quanto ne so, è l’impianto del libro: ogni composizione prende l’avvio da un verso di un poeta affermato, spesso grandissimo, e da lì si innescano versi personali di Gaccione. Parole che si inseriscono nella corrente di vita sprigionata da quei versi, e testimoniano la risonanza che tuttora esercitano nelle esistenze di altri. Nella fattispecie di Angelo Gaccione, che si fa qui portavoce di innumerevoli (si spera) altri, in cui tuttora si danno esistenza autori scomparsi, ma le cui voci non si sono estinte nella nostra coscienza.
Un caso particolare per me è il ritorno dell’unica donna presente nella raccolta di Gaccione: Antonia Pozzi. Figura anche a me intensamente vicina, densa di risonanze interiori pur nelle differenze che ci separano.
Gabriele Scaramuzza

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IL LEGAME DELLA POESIA DI GACCIONE CON LA MUSICA


Tiziana Canfori

Un incontro di poesia potrebbe svolgersi nell’imbarazzo, sotto la cappa sinistra della citatissima frase di Croce secondo cui chi scrive poesie dopo i 18 anni è un poeta o un cretino. L’autore potrebbe infatti sentirsi a disagio nel dirsi “poeta” e lottare fra l’amore per le proprie creature e la necessità di mantenere un profilo convenientemente umile e basso; il pubblico potrebbe rimanere impantanato fra mille schemi per decidere se collocare il protagonista fra i poeti o fra i cretini. Per evitare di inciampare in questa trappola ricordo che Fabrizio De André, si affrettava a rifuggire da ogni chiamata in causa come poeta, con il dichiarato timore (maniman… avrebbe detto lui da genovese) di poter passare nell’altra ridicola schiera crociana.
Niente di tutto ciò alla Biblioteca Ostinata di Milano nell’incontro con Angelo Gaccione: complice un ambiente nato per la condivisione attiva della cultura, in cui si convive con i libri in modo confortevole, la presentazione di Poeti. Ventinove cavalieri e una dama è stata una serata piena di energia e di vero piacere. Alessandra Paganardi, che ha presentato il libro, ce ne ha saputo proporre la cifra più autentica, offrendo all’autore la possibilità di raccontarci con sincerità il suo rapporto con la scrittura poetica.
Da musicista, ho apprezzato profondamente il legame di questa poesia con la musica, e non solo dal punto di vista del ritmo e del colore sonoro delle parole, ma più sottilmente nell’atteggiamento dell’autore. Gaccione ci propone infatti un saggio d’interpretazione, simile a quello che porta a termine uno strumentista, un cantante o un direttore d’orchestra: sceglie una schiera di poeti del Novecento fra i suoi preferiti, ne propone un verso come incipit e da quel verso prosegue in un approfondimento nel quale la sua vita e la sua scrittura si esprimono tenendo conto della personalità e dello stile del poeta con cui dialoga.
In musica, se non si potesse fare questo, non varrebbe la pena di accostarsi allo strumento; nello stesso tempo, qualsiasi opera musicale nascerebbe morta, costretta ad essere uguale a se stessa ovunque e per sempre. Simile al diciottenne crociano, il musicista dovrebbe chiedersi costantemente “che diritto ho, proprio io, di far rivivere Bach o Puccini o chiunque altro?”.
Invece bisogna avere l’istinto di riprendere in mano quei mattoni e il coraggio di riutilizzarli per dire una cosa personale, di nuovo unica e viva. Questo è l’insegnamento di Gaccione, che dialoga con la propria sensibilità poetica fin da ragazzino e la nutre di letture ed esperienze per restituircela in questo gioco di specchi in cui ci invita. L’arte non è un processo lineare, con sviluppi e scadenze obbligati, ma un misto di intuizione, scuola, fatica, che si sviluppa attraverso la capacità di filtrare il pensiero di altri e la realtà. È da questo presupposto che l’arte, e quindi anche la poesia, diventa cibo nutriente da condividere: perché il cibo va condiviso, non solo celebrato. Gaccione ci ha servito, con gentilezza e autentica passione, un cibo molto nutriente di cui lo ringrazio.
Tiziana Canfori


 
Poeti. Ventinove cavalieri e una dama contiene 30 testi poetici ispirati ai versi di altrettanti grandi maestri della poesia del Novecento: Caproni, Santucci, Barile, Sbarbaro, Sereni, Raboni, Pavese, Loi, Betocchi, Calogero, Bertolucci, Pozzi, Quasimodo, Tessa, Sanesi, Pasolini, Rebora, Montale, Testori, Sinisgalli, Ungaretti, Fortini, Roversi, Saba, Luzi, Turoldo, Gatto, Penna, Zanzotto, Giudici.

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