CONTRO IL
LAVORO
di Franco Astengo
Elaborazione di Giuseppe Denti |
In principio del
ragionamento che s’intende sostenere con questo intervento ecco un breve
riassunto del discorso marxiano sul lavoro: “Marx coglie da una parte il lavoro
come “essenza dell’uomo”, come ricambio organico “uomo-natura”, mezzo per la
realizzazione dei bisogni dell’uomo e perciò dimensione universale del rapporto
stesso tra uomo e natura. Dall’altra parte individua nel lavoro salariato, la
forma storica e determinata del lavoro produttivo nella realtà dei rapporti di
produzione capitalistici, il vero centro, perno della produzione all’interno di
questi rapporti. Superando la teoria del valore degli economisti classici, Marx
afferma che alla radice della determinazione del valore c’è non una quantità
fisica, in termini di orario, di lavoro, ma una quantità storica e sociale di
valore, che la concretezza del doppio carattere della merce (attraverso il
mercato), valore d’uso e valore di scambio, e del lavoro che vi mette capo
manifesta, ma allo stesso tempo nasconde e mistifica (in quanto i valori
quantitativi non rispondono).
Lavori
produttivi (e all’opposto improduttivi), nei rapporti sociali di produzione
capitalistici, sono quelli che mettono capo non alla produzione di merci,
fisicamente riscontrabili, ma alla formazione di valore e plusvalore. Non è il
lavoro concreto, che realizza il valore d’uso della merce, a determinare il
lavoro produttivo, bensì la determinazione formale, puramente quantitativa: il
lavoro astratto.
È
la sussunzione formale del lavoro, la sottomissione completa della forza lavoro
al capitale, a rendere il lavoro completamente produttivo. Questo caratterizza
anche l’appartenenza di classe: la collocazione del rapporto sociale di
produzione determina la condizione oggettiva di appartenenza alla classe
subalterna.”.
Fino
a qualche tempo fa sulla base di quest’assunto si sarebbe commentato in questo
modo: la condizione soggettiva, la coscienza di classe e lo schieramento nel
conflitto con la classe borghese, e quindi con l’espressione politica di
questa, determinava lo spazio della politica e della lotta per il potere. Fin
qui la valutazione di carattere generale ma si sarebbe constatato anche che:
oggi è andato definitivamente in crisi il tentativo che ha segnato i decenni
centrali del XX secolo di attenuare la contraddizione di classe attraverso uno
sviluppo delle politiche sociali rivolte all’estensione dei diritti (welfare
state) e dello sviluppo del “pieno impiego” attraverso politiche attive del
lavoro sostenute dall’intervento statale. Aggiungendo inoltre: la crisi acuta
di queste politiche ha aperto una fase di pesante ristrutturazione rivolta
prima di tutto al ristabilimento dei rapporti di forza dalla parte del
capitale. La “politica” è così apparsa impotente a contrastare questa tendenza
che sta determinando una fase di paurosa regressione. Sorge, a questo punto, un
interrogativo di fondo sulla validità di queste risposte che, appunto, avremmo
formulato fino a qualche tempo fa. Un interrogativo generato essenzialmente
dall’ingresso sulla scena della storia di un processo d’innovazione tecnologica
fortemente accelerato, mai immaginabile in precedenza. Un processo
d’innovazione tecnologica che sta sottraendo quote molto ampie di quello che
poteva essere classicamente considerato come “lavoro vivo” pur in una fase di
arretramento di quella che, impropriamente, nel decennio appena trascorso era
stata definita come “globalizzazione”. Un fenomeno, questo dell’accelerazione
nell’innovazione tecnologica accompagnato dallo spostamento secco verso
l’ingigantirsi dello spostamento verso la finanziarizzazione dell’economia, di
vastissime proporzioni che si sta imponendo al punto da porre il tema di una
chiusura della dimensione lavorativa così come questa l’avevamo compresa tra il
XIX e il XX secolo.
Siamo
al punto in cui questo fenomeno, assieme a quello delle guerre, pare provocare
una vera e propria situazione di sopravvivenza per intere fasce di popolazione in
varie parti del mondo, cui rispondono imponenti fenomeni migratori rivolti in
varie direzioni e non semplicemente verso quello che è stato definito
“Occidente sviluppato”.
Il
quadro complessivo è quindi segnato da una crescita disperante delle disuguaglianze,
ben rilevato da molti economisti. La sottrazione di “lavoro vivo” riguarda sia
il lavoro manuale sia il lavoro intellettuale. Emerge una vera e propria “crisi
del lavoro” che, dalle nostre parti in Occidente, ha posto una questione(in
questi termini inedita) che può essere riassunta sotto la voce “reddito di
cittadinanza” ma che contempla anche tanti altri elementi sui quali riflettere.
Ci troviamo così stretti tra domande molto stringenti che di seguito si
riducono in un’assoluta semplificazione.
Dobbiamo
essere “contro” questo lavoro del soggiacere ai voleri di questo capitalismo
dell’ipersfruttamento, dell’allargamento della materialità della contraddizione
di classe ben oltre a quella che abbiamo sempre considerato la “frattura”
principale, del precariato assunto come quasi forma esclusiva dello stare (in
bilico) nel mondo del lavoro, della crescita degli infortuni e delle morti
definite “bianche”, della crescita della sopraffazione di genere,
dell’adattamento dei ritmi di lavoro ai modelli insensati della società
consumistica. Nello stesso tempo esiste la necessità di proporci di essere
“per” il lavoro non solo come elemento fondamentale di sopravvivenza soggettiva
ma anche come punto di crescita della dignità umana, del concorso di tutti a
una maggiore capacità non solo operativa ma culturale. Sono tanti i motivi che
ci riportano, non tanto paradossalmente in questa fase di “arretramento
storico”, al momento storico nel quale attraverso l’aggregazione sociale
realizzata attraverso la comunanza del lavoro e la consapevolezza della lotta
contro lo sfruttamento si realizzò la presenza politica del movimento operaio.
E’ questo il motivo di fondo per il quale dobbiamo ritrovare la strada per
stare dalla parte del lavoro ridefinendo anche idee e modelli di progresso.
“Per
il lavoro” nella nostra progettualità alternativa a quella dei padroni. Siamo
di fronte quindi a un bivio, a una contraddizione storica al riguardo della
quale emerge la necessità di una sintesi, di una riunificazione di senso e di
proposizione per obiettivi di riscatto in forme cui la riflessione collettiva
non è ancora arrivata a determinare. Il
punto di partenza per riprendere il cammino perduto potrebbe essere allora
quello di essere consapevoli di tutto ciò, delle difficoltà inedite che ci
troviamo di fronte e del tentativo in atto di ricacciare il lavoro
esclusivamente dentro la categoria dello sfruttamento indiscriminato
costringendo a un ritorno alla condizione di “plebe”: una folla indistinta in
una condizione di ricerca di mera sopravvivenza materiale. In tempi di ricerca sul lasciato marxiano
forse si potrebbe affermare che la ripresa del Marx del lavoro come “essenza
dell’uomo” potrebbe rappresentare, a questo punto, l’appoggio ideale non
meramente teorico, al fine di recuperare una visione pienamente politica
dell’oggi e del futuro. Sull’idea del lavoro come “essenza dell’uomo” si può
far riprendere la lotta per il riscatto sociale su tutti i fronti, ponendoci al
riparo dall’angoscia di questa presunta avvilente “modernità”.
1° Maggio.
Festa alla memoria dei lavoratori.
[Laura Margherirta Volante]