UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

LA CARBONERIA

L’ANNIVERSARIO

La locandina di "Odissea" nella bacheca
della Biblioteca "Sormani" di Milano



Nell’estate del 2013 “Odissea” cartacea compiva 10 anni di vita. Il 27 Settembre di quello stesso anno, alla presenza di tanti amici e collaboratori, in una Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano bella piena, un incontro pubblico tirava le somme di quella esperienza, e decideva di passare ad una nuova fase: dal cartaceo alla Rete; da Gutenberg a Bill Gates, come avevamo titolato la prima pagina dell’ultimo numero, con la lettera ai lettori che abbiamo poi riprodotta sulla prima pagina dell’edizione on line. In quell’incontro, presero la parola diversi amici: dal filosofo Fulvio Papi al filosofo Gabriele Scaramuzza; dal saggista e scrittore Giovanni Bianchi al saggista e critico d’arte Giorgio Colombo, dal filosofo Roberta De Monticelli al sociologo Nando Dalla Chiesa. Tante anche le testimonianze di affetto, i messaggi, le presenze qualificate in quella Sala.
Dalla Chiesa, che intervenne subito dopo il direttore Angelo Gaccione, accolse la decisione di quel passaggio con molto entusiasmo, e predisse un’espansione esponenziale di contatti e di lettori a seguito dell’immissione in Rete del giornale. Cosa che è davvero e fulmineamente avvenuta, sia per la disponibilità di “Odissea” a sostenere tutte le battaglie civili e culturali possibili come aveva fatto con l’edizione cartacea, sia per la sua autorevolezza morale che ne fa un punto di riferimento e di vicinanza ideale per gli strati sociali e culturali più diversi. Ora siamo qui a festeggiare un altro anniversario: il primo di “Odissea” in Rete, testata rossa come il suo appassionato rosso cuore. In questo primo anno gli scritti ospitati sono stati tantissimi (solo la prima pagina ne ha ospitati circa 500) e i contatti sono diventati decine di migliaia. Probabilmente sono cambiati i lettori, altri se ne sono aggiunti e sicuramente il mezzo virtuale della Rete è molto diverso dallo strumento cartaceo. In più, concepito come strumento di Rete, “Odissea” ha finito per svolgere, accanto alla funzione di analisi e riflessione a più lungo termine che aveva già, anche una funzione tipica del quotidiano. Da questo punto di vista è incredibile la quantità di materiale che arriva dalla società civile, dai movimenti sociali e dagli ambienti culturali. “Odissea” ha sempre sostenuto questa ricchezza e questa pluralità e continuerà a farlo. Sarà sempre dentro la conflittualità dialettica, fuori dagli intrighi di potere che combatterà, e in prima fila per la difesa dell’etica pubblica e degli interessi collettivi. Più di un amico ha segnalato che fra i meriti di “Odissea”, c’è quello di aver messo al centro della sua azione, la moralità pubblica; per noi è un motivo di orgoglio e di onore, soprattutto in anni di degenerazione etica della politica. È un compito che ci siamo assunti e a cui non verremo meno. “Odissea” continuerà ad essere la coscienza critica e morale della Nazione, ai lettori chiediamo di essere solidali e di difendere assieme a noi queste ragioni.
Angelo Gaccione


A sin. Max Luciani, a des. Angelo Gaccione



















CENTO AUTORI PER ODISSEA

Grande successo per: “Cento autori per Odissea”
per festeggiare il 1° anniversario in Rete del giornale
dopo 10 anni di vita cartacea. (Ottobre 2013 – Ottobre 2014)

Cari amici, possiamo dirlo, è stato un successo: abbiamo superato il traguardo che ci eravamo prefisso. Oltre 100 gli interventi giunti alla nostra Redazione dall'Italia e dall'estero. La Rubrica “Fuori Luogo” è completa e comprende 37 autori in totale; è completa anche la Rubrica “Campi Elisi” con 48 autori; mentre la Rubrica “La Carboneria” ospita il resto degli autori. 


Elenco degli autori inseriti nella Rubrica “Fuori Luogo”.

1.Fulvio Papi
2.Morando Morandini
3.Arturo Schwarz
4.Giuseppe Bonura
5.Tomaso Kemeny
6.Laura Margherita Volante
7.Pier Luigi Amietta
8.Franco Manzoni
9.Don Luigi Ciotti
10.Giulio Stocchi
11.Attilio Mangano
12.Fabio Minazzi
13.Adamo Calabrese
14.Franco Dionesalvi
15.Adele Desideri
16.Stefano Raimondi
17.Dino Ignani
18.Adam Vaccaro
19.Paolo Maria Di Stefano
20.Dario Pericolosi
21.Maria Carla Baroni
22.Livia Corona
23.Rinaldo Caddeo
24.Meeten Nasr
25.Annalisa Bellerio
26.Lisa Albertini
27.Fabiano Braccini
28.Ornella Ferrerio
29.Graziella Poluzzi
30.Tiziano Rovelli
31.Leonardo Nobili
32.Alberto Casiraghy
33.Giuseppe De Vincenti
34.Angela Passarello
35.Roberto Carusi
36.Maria Gabriella Carbonetto
37.Maria Cristina Spigaglia

Elenco degli autori inseriti nella Rubrica “Campi Elisi”

38.Emilio Molinari
39.Gabriele Scaramuzza
40.Emilio Renzi
41.Giorgio Colombo
42.Lidia Sella
43.Cesare Vergati
44.Ottavio Rossani
45.Giuseppe Denti
46.Luca Marchesini
47.Cataldo Russo
48.Francesco Piscitello
49.Franco Esposito
50.Claudia Azzola
51.Francesca Romana Di Biagio
52.Giovanni Bianchi
53.padre Alex Zanotelli
54.Maurizio Meschia
55.Roberto Marelli
56.Marilena Vita
57.Gilberto Finzi
58.Mauro Della Porta Raffo
59.Luigi Caroli
60.Anita Guarino Sanesi
61.Renato Seregni
62.Raffaele Talarico
63.Pino Corbo
64.Antonio Lubrano
65.Silvana Borutti
66.Michela Beatrice Ferri
67.Valerio Fantinel
68.Tiziana Canfori
69.Gilberto Isella
70.Alessandro Zaccuri
71.Alice Cappagli
72.Luigi Tasso
73.Felice Carlo Besostri
74.Donatella Bisutti
75.Gio Ferri
76.Giacomo Guidetti
77.Barabara Gabotto
78.Lelio Scanavini
79.Leandro Fossi
80.Mariella De Santis
81.Alessandra Paganardi
82.Tiziano Rossi
83.Vittorio Sedini
84.Carlo Cipparrone
85.Edoardo Walter Pozzi

Elenco degli autori inseriti nella Rubrica "La Carboneria"

86.Franco Toscani
87.Mario Rondi
88.Çlirim Muça
89.Elio Veltri
90.Alberto Figliolia
91.Dante Maffìa
92.Luigi Marsiglia
93.Noam Chomsky
94.Sergio Azzolari
95.Giuseppe Puma
96.Michele Sangineto
97.Carlo Rovelli
98.Vincenzo Guarracino
99.Giovanna Rosadini
100.Piero Lotito
101.Alice Scialoja (Legambiente)
102.Filippo Gallipoli
103.Medici Senza Frontiere
104.Roberto Cicala
105.Fiorenza Casanova
106.Giorgia Monti (Greenpeace)
107.Christian Eccher
108.Jacopo Gardella
109.Angelo Gaccione





FIORENZA CASANOVA



Fiorenza Casanova "Un'artista per Odissea" Ottobre 2014



                                                


JACOPO GARDELLA

Jacopo Gardella

 “IDEA DI CITTÀ”

“Idea di città” è espressione che compare di frequente negli scritti e nelle conversazioni di urbanistica. Molto usata ma non molto chiara per i meno informati sulla disciplina. Che significa “Idea di città”? Significa avere in mente due visioni ben distinte: anzitutto come si configura lo spazio fisico della città; ed in secondo luogo come si organizza la vita all'interno della città. Per avere una “Idea di città” che non sia una vuota espressione priva di un contenuto concreto e chiaro, occorrono due precise condizioni: immaginare l’aspetto con cui la città di presenta alla nostra vista; conoscere il complesso delle attività che nella città vediamo esplicarsi. Sarebbe velleitario voler creare la forma spaziale e architettonica della città senza saper concepire la vita cittadina che in essa si svolge; sarebbe irreale pensare allo svolgimento della vita cittadina senza acquisire una visione degli spazi e delle architetture che a quella vita devono dare accoglienza. I due aspetti che costituiscono la realtà urbana sono indissolubilmente connessi fra loro; non esiste città senza abitanti e non esistono abitanti senza città. Nel primo caso si avrebbero gusci vuoti; edifici deserti; dimore spettrali; nel secondo caso comparirebbero tribù di nomadi, raggruppamenti instabili, popolazioni mobili, erranti, non radicate a nessuna terra. La città è uno spazio fisico formato da un insieme di edifici a da una comunità di cittadini: unità inscindibile di costruzioni e di persone.

Se si vuole proporre una “Idea di città” che non sia una formula astratta, imprecisa, vaga, occorre avere in mente entrambi questi concetti, chiarirsi queste idee: una idea della forma edilizia che si desidera realizzare; ed una idea del modo di vivere che si intende istituire. Occorre prevedere una struttura urbanistico-architettonica e nello stesso tempo concepire una organizzazione economico-sociale; entrambe le condizioni sono interdipendenti e reciprocamente condizionate; ad ogni configurazione urbanistico-architettonica si adatta e conviene un corrispondente sistema sociale; ad ogni modo di vivere dei cittadini  corrisponde un appropriato insieme urbanistico-architettonico. In ogni epoca storica la forma delle città si modifica, si evolve, si adegua alla natura della società e degli abitanti. Se cambia la costituzione politica della società cambia la struttura spaziale delle città.

La città dell'Antica Grecia abitata da una società democratica riservava ai suoi abitanti residenze uniformemente simili ma metteva in risalto gli edifici di interesse collettivo, sedi delle principali attività pubbliche: attività politiche che si svolgevano nell'Agorà, luogo delle Assemblee Popolari; attività religiose che si esplicavano nel Tempio; attività sportive che si esercitavano nello Stadio; attività culturali che si tenevano nel Teatro. Tutti questi luoghi erano veramente pubblici cioè aperti a tutto il popolo e non solo ad una sua parte privilegiata di esso; godevano di una visibile e chiara collocazione nella planimetria della città; spiccavano con evidenza all’interno del tessuto urbano (FOTO 1). L’"Idea di città" sanciva la eguaglianza dei cittadini nella somiglianza delle abitazioni; riconosceva la dignità del loro Potere nell’emergenza degli edifici pubblici.

Foto 1

Nella Roma Imperiale avvengono radicali mutamenti: i luoghi collettivi, divenuti gli spazi di esaltazione e celebrazione dell’Imperatore, denunciano l'avvenuta trasformazione dell’ordinamento politico. L’“Idea di città” dà visibilità concreta al luogo dove risiede il Potere e dove avviene la sua celebrazione. L’Agorà democratica si trasforma nel Foro Imperiale; da luogo di discussione pubblica diventa sede di esaltazione del Potere, visibile manifestazione dell’autorità assoluta (FOTO 2). Le abitazioni cessano di essere tutte uniformemente simili e si differenziano in due categorie nettamente distinte: edifici popolari, o “insule”, abitate da strati sociali poveri ed ininfluenti; edifici di lusso, o “domus”, occupate da ceti ricchi e potenti.

Foto 2

Nel Medioevo la città è contrassegnata da due visibili edifici monumentali. Essi emergono al di sopra del tessuto fitto e compatto delle case popolari ed accolgono e nello stesso tempo rappresentano le due massime autorità di governo: da un lato il Castello, sede del potere politico-militare; dall’altro la Cattedrale, sede del potere politico-religioso. Il tessuto delle residenze non segue un piano geometrico come avveniva nella città greca; al contrario si adatta alla conformazione irregolare del terreno su cui sorge la città e segue la variabile configurazione geografica del posto scelto per la fondazione. Se collocata in prossimità di un lago la città si sviluppa lungo la riva del lago; se posata su di un colle la città segue la pendenza del colle; se posata vicina ad un fiume la città si dimezza ed occupa le due sponde del fiume. La trama geometrica scelta dalla città greca -in omaggio ad un desiderio di chiarezza, di regolarità, di ordine- viene sostituita da una conformazione flessibile ed irregolare, propria di un atteggiamento pratico, disposto ad accettare la situazione naturale e a modellare la forma della città conformemente a quella situazione. A Mileto la trama viaria -rigida, uniforme, ossessivamente ripetuta- si sovrappone ad un terreno movimentato di cui ignora le irregolarità altimetriche e trascura le articolazioni planimetriche. La mente dell’urbanista greco impone una visione di assoluta regolarità, sorda ed indifferente alle particolari conformazioni fisiche che offre la natura del luogo. Idealista è la città greca così come naturalista o meglio organica è la città medioevale; dove il termine “organico” indica una similitudine con gli “organismi” che vivono nel mondo naturale. Come gli organismi viventi si adattano alle necessità imposte dal sito, dal clima, dalla meteorologia dell’ambiente in cui abitano, così anche la città medioevale si conforma ai caratteri geografici, alla natura dell’ambiente, alle particolarità fisiche del luogo in cui sorge. L’Idea di città che viene realizzata nel Medioevo non è né democratica né assolutista; è la rappresentazione di una città retta da una diarchia, cioè governata dal bilanciarsi di due poteri in reciproca condizione di accordo-disaccordo. La presenza di questi due Poteri viene manifestata dall’emergere al di sopra dell’uniforme tessuto urbano di due unici ed emblematici edifici: il Castello e la Cattedrale (FOTO 3).

Foto 3

Nel breve periodo di autonomia politica la città del Medioevo mantiene la Cattedrale ma sostituisce il Castello con il Palazzo del Popolo o Palazzo Pubblico (FOTO 4). Nasce la sede del Potere popolare felicemente adottato dai Liberi Comuni in Italia del Nord; dalle Repubbliche Marinare nell’Italia meridionale; dalle Città Ansetiche sul Mare Baltico. Mentre il Potere ecclesiastico rimane immutato, il Potere laico cessa di essere autoritario e monocratico, cioè concentrato nella persona del Feudatario, e diventa plebiscitario e democratico, cioè affidato alla Assemblea del Popolo. L’“Idea di città” afferma e conferma nell’evidenza data all’edificio appartenente al popolo il Potere demandato a quello stesso popolo. Nella planimetria della città medioevale resta l'edificio del culto, la Cattedrale, che subentra al tempio pagano; ma scompare l'Agorà sostituita dal Castello del feudatario; scompare il luogo dei giochi sportivi, lo Stadio; scompare il luogo delle recite, il Teatro. Lo sport cambia natura: non è più gara ma diventa spettacolo; non diversamente dallo spettacolo che offrono oggi alcuni noti sport di massa. L'agone sportivo dei tornei cavallereschi si svolge nella piazza principale della città; così come ancora oggi in Piazza del Campo a Siena si disputa il Palio cittadino. La recita cambia aspetto: non più tragedia di uomini ma rappresentazione di parabole evangeliche e di avvenimenti biblici; le rappresentazioni si tengono davanti al sagrato delle principali chiese cittadine. La vita religiosa sostanzia il mondo medioevale e ne impronta tutte le manifestazioni civili. I grandi avvenimenti popolari, quando non sono politici o religiosi, occupano gli spazi pubblici della città; le cortine edilizie che circondano questi spazi diventano l'involucro e la cornice destinati ad  accoglie le feste del popolo. Tutto cambia quando dal Medioevo si passa al Rinascimento. Il Teatro ricompare non più come edificio urbano ma come salone situato dentro al Palazzo del Signore. Il Teatro Farnese a Parma ne è uno degli esempi più noti. Chi fa uso del Teatro è il seguito di cortigiani che sta intorno al Principe; non è la gente del popolo esclusa e tenuta lontana. Nel passaggio dal Rinascimento all'epoca delle monarchie assolute il Teatro viene inglobato nella Reggia del Re e riservato al Sovrano ed alla sua corte; al popolo continua ad essere negato l'accesso. Occorre arrivare all'Età dell'Illuminismo e al periodo che segue la Rivoluzione Francese per tornare ad avere un edificio teatrale aperto ad un pubblico popolare, anche se gli spettatori erano rigidamente divisi per classi sociali, così come lo era la città borghese nel corso del secolo XIX. Mentre nei teatri greci o nei luoghi destinati agli spettacoli medioevali questa divisione non esisteva, essa nel teatro borghese era meticolosamente osservata: la gente comune rimaneva in platea, le famiglie aristocratiche si distribuivano nei palchi; il Sovrano ed il suo seguito occupavano il palco reale.

Foto 4

Quale è l’"Idea di città" che si concretizza in epoca barocca? Qual è immagine urbana che viene concepita per la capitale di un Potere assoluto? Una immagine centripeta; un fascio di raggi convergenti verso un centro unico e monumentale. La trama viaria della città viene orientata e diretta verso quel centro, così come la popolazione della città si rivolge e si assoggetta a chi in quel centro risiede. L’esempio più noto di città assolutista è dato dalla Reggia di Versailles: verso la Reggia convergono i tre principali viali dell'unico accesso; di fronte alla Reggia si arrestano e si inchinano i cittadini-sudditi dell'intera nazione (FOTO 5). A differenza dei Fori imperiali di Roma antica, circondati dalla popolazione cittadina e bisognosi di grandi folle per esibire la loro potenza ed il loro splendore, le Reggia di Versailles si allontana e si tiene distante dal centro abitato; fa capire che della popolazione non sente il bisogno, può fare a meno, non intende servirsi. Tutte le funzioni dello Stato sono concentrate e riunite nella Reggia, alla capitale non viene concessa nessuna partecipazione al governo dello Stato. Nella “Idea di città” concepita dalla monarchia assoluta la planimetria urbana, da qualsiasi luogo si provenga, indica la unica direzione in cui muoversi per raggiungere la sede del Potere.

Foto 5

Un analogo schema urbano ha guidato la costruzione della città di San Pietroburgo, dove le tre principali arterie cittadine convergono sul Palazzo dell’Ammiragliato, sede del potere civile e militare (FOTO 6). In uno stato monocratico la città si configura e si modella sulla natura propria di quello Stato: in un unico Potere è concentrato il privilegio di comandare, ad un unico potere si ha il dovere di ubbidire. La raggiera di assi viari che si dipartono dalla sede dello Zar rappresentano simbolicamente la volontà imposta a tutta la nazione; la stessa raggiera che converge verso la sede dello Zar rappresenta altrettanto simbolicamente la sottomissione che viene accettata da tutta la nazione. 

Foto 6


Molto prima di Versailles e di San Pietroburgo un medesimo schema a tre assi convergenti è stato realizzato a Roma nella monumentale Piazza del Popolo: le tre vie che in essa confluiscono sono dirette verso il fulcro della composizione, l’alto obelisco egiziano posto al centro della piazza. Alle spalle dell'obelisco la piazza è chiusa delle due facciate identiche di S. Maria del Popolo e del Convento degli Agostiniani: due edifici religiosi che rispecchiamo l’assolutismo del potere confessionale (FOTO 7).

Foto 7

Un esempio di impianto urbano preso a prestito dall'Idea di città autoritaria lo si trova anche a Milano là dove tre larghe vie si dirigono e convergono verso lo slargo di Piazza Piemonte. Nell’intenzione di imitare un impianto autoritario ci si è dimenticati di assegnare un perno a tutta la composizione e si è trascurato il fulcro generatore dei tre assi convergenti. Invece del cortile d’onore che precede la Reggia di Versailles, invece della guglia dorata che sormonta l'Ammiragliato di San Pietroburgo, invece dell’obelisco che si eleva in Piazza del Popolo, a Milano si presenta la anonima distesa di Piazza Piemonte, priva di un perimetro esattamente definito, povera di edifici sufficientemente monumentali (FOTO 8). Ai due pregevoli palazzi in stile Decò, posti nei vertici delle tre strade, non corrisponde sul lato opposto della piazza né un palazzo né un monumento di adeguata importanza. I tre assi viari muoiono nel vuoto, mancano di un visibile punto di convergenza. Gli architetti milanesi hanno imitato lo schema urbanistico offerto delle più note capitali europee, ma lo hanno assunto frettolosamente senza capirne la funzione simbolica e rappresentativa. L’“Idea di città” adottata a Milano è una infelice imitazione di schemi ormai superati e anacronistici.

Foto 8

Con criteri del tutto contrari è stata progettata la capitale degli Stati Uniti d’America, la città di Washington (FOTO 9). La città nasce in un clima di libera democrazia, di democrazia borghese e non popolare. Pur adottando un impianto barocco, formato da grandi arterie rettilinee, da viali monumentali, da assi prospettici imponenti, la capitale Washington non rientra nello schema delle città barocche, non ha nessuna analogia con le città dell’Assolutismo, non presenta nessuna affinità con un impianto autoritario. Le arterie principali dalla città non convergono su di un solo luogo, centro di un Potere assoluto, ma si dirigono verso più luoghi distinti e separati, sedi delle maggiori Istituzioni pubbliche: il Campidoglio, sede del Parlamento; la Casa Bianca, dimora del Capo dello Stato; la Biblioteca Nazionale, tempio della Cultura; il Parco Lincoln, memoria del Presidente che pose fine alla schiavitù. La forma della città rispecchia la costituzione dello Stato. Le sedi dei massimi organi statali (Camere, Presidenza, Alta Corte di Giustizia) pur essendo distaccate e distinte non si presentano appartate ed isolate, ma sono messe in reciproca connessione da grandi assi viari che convergono su di loro; allo stesso modo i Poteri fondamentali della Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario), pur restando autonomi ed indipendenti non operano scissi e staccati, ma si mantengono in stretta correlazione attraverso una rete di controlli incrociati saggiamente previsti dalla Costituzione. La distribuzione dei Palazzi del Governo all''interno della capitale corrisponde alla divisione dei Poteri all'interno dello Stato; la connessione viaria tra i vari Palazzi riflette la integrazione bilanciata dei vari Poteri. La “Ideologia di città” formata da più centri collegati rispecchia la costituzione di uno Stato fondata su più poteri coordinati.

Foto 9

Nella città dell’Ottocento, nata con l’affermarsi della classe borghese, si attua la separazione fra quartieri ricchi abitati da ceti benestanti e quartieri poveri occupati di classi indigenti. La precedente storia urbanistica non aveva mai registrato una divisione di censo così netta e marcata, una emarginazione così evidente e visibile: i palazzi dei signori, le dimore dei ricchi, le residenze di lusso sorgevano vicino alle abitazioni dei poveri, di fianco alle costruzioni popolari. Lungo una stessa via il maestoso Palazzo aristocratico era preceduto, seguito, fiancheggiato dalle case della gente comune. Qualunque fosse la forma di governo, non importa se democratico o assolutista, non esisteva nella città del passato il pregiudizio classista, non si verificava una deliberata suddivisione della città in quartieri ricchi e quartieri poveri. Il ricco si chiudeva nel suo palazzo, creava la sua corte, abbelliva ed arricchiva la sua dimora, ma non pensava di appartarsi e di rinchiudersi in un quartiere isolato, appartato, abitato esclusivamente da persone ricche come lui.  Vi sono, è vero, alcune eccezioni che precedono la nascita della città borghese ottocentesca. Una di queste, notata dallo storico contemporaneo Ennio Poleggi, è la via Nuova, oggi via Garibaldi, che attraversa il centro di Genova e che nasce nel corso del XVI secolo in seguito ad una iniziativa edilizia concepita ad esclusivo uso di una classe aristocratica e ricca (FOTO 10). La via, fiancheggiata su entrambi i lati da lussuosi palazzi nobiliari, dà vita ad un percorso trionfale, ad una parata di dimore affiancate le une alle altre e  tutte monumentali.

Foto 10

La città borghese, che si è espressa nella suddivisione classista dei quartieri e nella separazione di zone abitate da soli ricchi o da soli poveri, si è oggi rapidamente evoluta (o meglio involuta) ed è diventata la città neo-capitalista al cui interno il costo stratosferico delle residenze non lascia più posto per le classi popolari. Gli abitanti meno abbienti vengono allontanati ed espulsi dal centro della città e fatti dirottare nel territorio circostante. L'"Idea di città" neocapitalistica privilegia il Potere del denaro ed ignora il valore insito in una comunità unita ed integrata, e nello stesso tempo al suo interno varia e diversificata. Il centro storico della città neocapitalista, espulsa la popolazione originaria, si riempie di un nuovo tessuto sociale. Milano non cambia solo la pelle, il volto della sua edilizia; perde anche l'anima, la sostanza del suo popolo. Privato dei tradizionali residenti storici l'antico cuore della città si atrofizza e muore. Di giorno la città è frenetica, di notte spopolata.
Di qualunque tipo fosse la città -o democratica o autoritaria o borghese- la sua configurazione edilizia era costantemente formata da strade, piazze, viali, ossia da spazi aperti delimitati da costruzioni allineate e continue. Per secoli la maglia viaria della città, sebbene con trame di volta in volta diverse, e con volti architettonici rinnovati ripetutamente, è rimasta una maglia sostanzialmente stabile, una successione di spazi aperti delimitati da cortine ininterrotte di case. Strade, piazze, viali portavano assumere tracciati difformi, potevano esibire architetture diverse, ma erano sempre riconoscibili come strade, come piazze, come viali: le strade si presentavano rettilinee o in curva, le piazze quadrate o circolari, i viali alberati o recintati, ma sempre questi elementi costitutivi della città erano delimitati da cortine edilizie continue, da edifici disposti in successione, da caseggiati allineati lungo entrambi i margini della via.
Se adesso guardiamo i quartieri costruiti nella seconda metà del XX secolo o nella prima decade del XXI restiamo sorpresi e stupiti: sono scomparse le strade, mancano le piazze, sono assenti i viali, non si vedono più incroci. Gli elementi costitutivi della urbanistica conservatisi stabili per secoli - sebbene attraverso i secoli manifestatisi in forme di volta in volta diverse - sono oggi irreperibili nei complessi urbani di nuova costruzione, sono scomparsi dalla città contemporanea. Non esistono più strade, ma volumi dispersi disordinatamente; non più piazze ma vuoti senza forma; non più viali, né incroci stradali, né vie rettilinee o curve, ma soltanto percorsi per auto tracciati con libertà tra volumi edilizi sparsi e disuniti. La città moderna si disgrega, si frantuma, si trasforma in un ammasso disordinato di costruzioni disarmoniche. È diventata un accostamento di singoli fabbricati: isolati, distaccati, separati gli uni dagli altri (FOTO 11). L’“Idea di città” riferita ad una forma così disintegrata ha origini lontane e parte da premesse non tanto architettoniche quanto scientifiche; o meglio trae origine da una applicazione del metodo scientifico distorta e falsa. L’“Idea di città” non più legata alla tradizione, non più derivata da precedenti modelli storici, risale al positivismo ottocentesco; è figlia di uno scientismo diventato imperante a partire dalla metà del secolo XIX. La esaltazione della scienza e delle sue applicazioni, le entusiasmanti promesse fatte sperare dal progresso scientifico invitano a favorire processi mentali analitici e a vedere in essi i soli metodi obiettivi e sicuri per risolvere i problemi dell’Universo. I processi analitici per definizione distinguono, circoscrivono, isolano. Il metodo scientifico per necessità scompone la realtà e la studia in sezioni accuratamente separate; soltanto così la Scienza può trovare fra le possibili cause del fenomeno l’unica risposta che sia certa e vera. Il carattere analitico proprio del metodo scientifico e la fiducia salvifica riposta nella scienza inducono il pensiero contemporaneo a concepire la realtà e a rappresentarla sotto forma di elementi distinti, di processi separati, di componenti singoli isolati ed indipendenti. Non sorprende che anche l'attuale pensiero urbanistico concepisca la città e la rappresenti composta da volumi singoli, da corpi di fabbrica distinti, da porzioni tra loro isolate ed indipendenti. In un mondo dominato dalla scienza e dalle sue applicazioni tecniche, la “Idea di città” contemporanea è una visione di più volumi separati non di un organismo unico e integrato; è la figura di uno spazio riempito di atomi non di un ambiente coordinato ed unitario.

Foto 11

Un esempio lampante di dissoluzione delle città tradizionali è offerto oggi a Milano da due recenti realizzazioni immobiliari: il quartiere della Fiera Campionaria e il quartiere di Porta Garibaldi. Due interventi urbani sconcertanti; due tristi esempi di incongruenza e di irrazionalità; eppure due realizzazioni concordemente apprezzate tanto da maggioranze di critici esperti quanto da folle di comuni osservatori. Il gusto estetico della gente si è palesemente modificato (o meglio è degenerato). Nessuno avverte più la sostanziale differenza fra il gelido, asettico, scostante spazio di Piazza Aulenti (FOTO 12), inaugurata di recente, e la accogliente, affettuosa, invitante atmosfera di tanti luoghi storici distribuiti nella nostra città: piazzette di S. Sepolcro, di S. Alessandro (FOTO 13), dei Mercanti, dei Borromeo.

Foto 12


Foto 13

Camminando ai piedi di lucenti ed alti grattacieli -ricoperti di vetro, alluminio, plastica, acciaio- ci sentiamo smarriti, angosciati, annichiliti; mentre se ci muoviamo tra le facciate di intonaco delle basse costruzioni tradizionali respiriamo un'aria confidenziale, benevola, rassicurante. Perché l’architettura di oggi, pur usando forme nuove, non è capace di ricreare lo stesso clima accogliente offertoci dalle città antiche? Perché l’urbanistica attuale, pur adeguandosi alle nuove necessità, non sa riproporre le stesse composizioni spaziali, le uguali visuali prospettiche, i medesimi rapporti proporzionali riscontrabili nelle città del passato? La risposta è pronta ed immediata: perché oggi manca una "Idea di città". Manca la fantasia capace di immaginare una avvincente forma fisica della città, manca la volontà disposta a proporre per la città una sana organizzazione di vita. Una "Idea di città" non è soltanto un insieme di costruzioni, un agglomerato di case; è anche una concezione di vita collettiva, una promozione di rapporti sociali. La città può essere immaginata in modi tra loro radicalmente diversi: può essere formata da edifici in prevalenza alti oppure da edifici preferibilmente bassi; può servirsi di veicoli in maggioranza privati oppure di trasporti prevalentemente pubblici; può contenere vaste e distanziate zone di parco oppure piccole e ravvicinate aree di giardino; può apparire densa e fittamente costruita, oppure dispersa e molto diradata; può essere ricca di verde oppure interamente occupata da costruzioni; può presentarsi suddivisa in centri urbani secondari, oppure estendersi uniforme, compatta, continua. Ognuna di queste scelte è legittima, anche se non tutte sono di equivalente valore culturale. Tuttavia ognuna, per essere soddisfacente, deve potersi realizzare in modo pieno e completo. L'esito peggiore, la soluzione più infelice è la operazione interrotta a metà; il progetto lasciato incompiuto; la visione perseguita con poca convinzione e senza determinazione. La vera sfortuna di una città è la incapacità tecnica di prefigurare uno scenario di spazi e di architetture ordinate e funzionali; è la impreparazione politica ad organizzare una vita cittadina che sia armonica, appagante, gradita. Questa sfortuna è la causa del degrado di Milano; è all'origine della sua decadenza. La città è orfana tuttora di programmi di sviluppo, priva di rigorosi limiti demografici, incapace di prevedere una crescita equilibrata e graduale, carente di una visione lungimirante che ne regoli e disciplini la espansione sul territorio.
Sotto l'aspetto della planivolumetria non esiste nessun piano di crescita concepito con chiarezza e proiettato a lunga scadenza. Milano si ingrandisce seguendo direzioni casuali e disordinate; una volta si allarga verso sud (Quartiere incompiuto di San Felice), una volta verso ovest (complesso in costruzione della Nuova Fiera), una volta verso nord (probabile lottizzazione dello Scalo Farini). Nonostante la condanna che da decenni i migliori urbanisti stanno rivolgendo allo sviluppo urbano definito “a macchia d’olio”, Milano continua imperterrita a crescere “a macchia d’olio”; ad allargarsi incessantemente in tutte le direzioni; ad ampliare progressivamente il suo perimetro; a sottrarre inesorabilmente terreni agricoli alla campagna per convertirli in aree di densa edificazione. Anche il Parco Agricolo Sud, magnifica iniziativa ambientale volta a salvaguardare l’unica fascia di territorio non ancora contaminata da lottizzazioni disordinate ed eterogenee, è seriamente minacciato da un progetto di espansione subdolo e pericoloso, destinato in futuro a diventare un brutto precedente difficile da contenere ed arrestare. Il centro medico IEO, situato ai margini del parco Agricolo nella periferia sud della città, prevede di ingrandirsi e di occupare estese porzioni di terra da coltivo. Sarà difficile in futuro, una volta realizzato l’ampliamento della rinomata Istituzione Sanitaria, impedire ulteriori espansioni urbane, fermare nuovi nuclei edilizi, vietare altri agglomerati di cemento; sarà quasi impossibile salvaguardare la ampia zona di verde oggi ancora tenacemente difesa e protetta alle porte di Milano.
Sempre sotto l'aspetto della forma urbana ci si domanda quale figura architettonica, quale volto edilizio, quale struttura spaziale gli amministratori abbiano deciso di adottare e di attuare. Desiderano avere una città fatta di alti condomini? Di vertiginosi grattacieli? Di aree pubbliche informi ottenute come superfici di risulta, ossia come zone residue fra un volume costruito e l’altro? Il Piano Regolatore Generale recentemente approvato e pomposamente denominato “Piano di Governo del Territorio” non dà nessuna indicazione sullo sviluppo edilizio della città: non specifica dove essa debba allargarsi, in che direzione espandersi, quali dimensioni assumere; e non fornisce nessuna previsione sulla crescita socio-economica della popolazione: quale tipo di industrie promuovere, come organizzare i servizi urbani, dove dislocare le nuove attività, quali limiti imporre alla crescita demografica. La stessa denominazione “Piano di Governo del Territorio”, che sostituisce la precedente denominazione “Piano Regolatore Generale”, è una formula poco chiara, distorta, non appropriata; ed induce a malintesi e confusioni. Come ci illustra l’affresco gotico di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena il Governo può essere cattivo o buono a seconda delle Regole che vengono applicate; sono le Regole e ciò che esse impongono la vera e unica garanzia capace di assicurare il rispetto delle leggi e di attuare il pensiero del legislatore. La espressione “Piano Regolatore”, che significa “Piano delle Regole”, implica certezza, obiettività, chiarezza, ed evita interpretazioni incerte o equivoche. Al contrario la espressione “Piano di Governo” lascia adito a molteplici e contrastanti applicazioni normative e non offre nessuna garanzia di imparzialità. Soltanto quando esistono Regole certe e buone il Governo sarà sano e stabile. Una ulteriore confusione lessicale, un’altra imprecisione linguistica è contenuta nella parola “territorio”: essa indica infatti sia l’area urbana propria della città sia l'area extra-urbana estesa nei dintorni; e comprende sia la superficie costruita sia la distesa di campi coltivati. Lo strumento urbanistico recentemente emanato e denominato “Piano di Governo del Territorio” si limita a considerare l’area cittadina e non prende in esame l’area della fascia extra-urbana. Così facendo il tanto esaltato Piano del Territorio non contempla ciò che per convenzione si intende per Territorio, non prende in esame l’estensione inedificata posta nei dintorni e al di fuori del perimetro costruito. È un Piano mendace; un piano che si definisce del Territorio ma che in realtà non si estende all’intero Territorio; copre le aree urbane non le aree extra-urbane; disciplina il tessuto già costruito non la campagna intatta e non ancora deturpata da lottizzazioni.
Si usa attribuire all’avidità dei costruttori la colpa della crescita caotica, sregolata, selvaggia che ha deturpato la tradizionale fisionomia di Milano. La vera colpa in realtà è da attribuire ai politici Amministratori; a chi è responsabile dello sviluppo urbano; a chi ha il dovere di padroneggiare ed incanalare nella giusta direzione le molteplici iniziative private. E’ triste constatare che né le passate giunte di destra, né l’attuale giunta di sinistra siano state capaci di formulare per la loro città un programma di larghe ed illuminate vedute urbanistiche. L’Ente Pubblico, che avrebbe il potere di contenere le spinte speculative e gli interessi dei privati, rimane del tutto assente, muto, immobile. O per incapacità o per connivenza il Comune non interviene e non indirizza la produzione edilizia secondo criteri studiati ed approfonditi; non la controlla, non la guida, non la contiene. La subisce, accondiscendente. La tollera, complice. La favorisce, colpevole. Eppure nessuno chiede al Comune di ostacolare la attività di imprenditori e di costruttori; attività di per sé benefica e salutare, indispensabile per garantire la vita della città, per favorire la crescita della popolazione, per offrire continue e molteplici occasioni di lavoro. Al Comune si chiede soltanto (ma non è richiesta di poco conto) che quella in sé benefica attività edilizia sia regolamentata e diretta verso gli obiettivi indicati dagli strumenti urbanistici, purché tali strumenti siano redatti nell’interesse della collettività e non soltanto a vantaggio di alcune categorie privilegiate.
Colpevoli i politici e gli amministratori pubblici, ma altrettanto colpevoli i committenti ed i finanziatori privati. In tempi passati il Principe – che era contemporaneamente uomo politico, amministratore, committente e finanziatore – sapeva a chi rivolgersi, conosceva da chi servirsi, capiva quali erano i fornitori e gli artisti migliori. Lorenzo il Magnifico non si faceva ritrarre dall’ultimo imbrattatele; sceglieva il maestro Botticelli. In tempi passati Cultura e Potere procedevano insieme. Oggi sono scissi, lontani, ostili. La Cultura è senza Potere, il Potere è senza Cultura. Quanti hanno scelto di realizzare il progetto “City Life” sul terreno della Fiera Campionaria, hanno preferito anteporre un gretto calcolo economico alla qualità dei progetti presentati; hanno dato il premio al concorrente peggiore ignorando ed escludendo la soluzione giudicata di maggiore pregio da parte dei critici più seri. Quanti hanno commissionato e finanziato la carcassa metallica accartocciata sul tetto della Nuova Fiera Campionaria possiedono denaro ma sono privi di gusto, di sensibilità, di istruzione. Sono anche pessimi uomini d’affari perché per un’opera che non è degna di accogliere dignitosamente chi arriva ed entra in Milano (FOTO 14) sono disposti a pagare al progettista parcelle salate e saldare al costruttore fatture costosissime.

Foto 14

Alcune realizzazioni ultimate di recente sono sufficienti a dimostrare la mancanza di una visione urbana chiara, lucida, illuminata. Il complesso di Porta Garibaldi, trasformato oggi in un campionario di grattacieli incoerenti e discordanti, se fosse stato progettato con competenza e lungimiranza, avrebbe potuto svilupparsi intorno ad un imponente asse cittadino. Tracciato sul prolungamento di viale Tunisia, e fatto terminare contro l’edificio moderno della Stazione Garibaldi, questo asse urbano avrebbe introdotto nell’area rimasta fino ad oggi semiabbandonata un percorso stradale facilmente identificabile, un tracciato ordinatore di grande efficacia scenografica. Niente di tutto ciò è stato né pensato né realizzato. Il complesso di alti ed eterogenei fabbricati collocati disordinatamente sull’area; il tracciato confuso e poco percepibile di strade in superficie o in sottopasso; la stessa stazione ferroviaria interamente occultata ed emarginata mentre avrebbe potuto diventare un decoroso fondale prospettico; gli esigui lacerti e i miseri frammenti del poco verde superstite, pomposamente presentati come parco sopraelevato; in conclusione tutto il complesso di Porta Garibaldi può considerarsi un esempio di cattiva visione urbanistica, di pessima progettazione urbana, di disegno cittadino pieno di presunzione ma povero di idee (FOTO 15). La via di scorrimento veloce che oggi attraversa il complesso di Porta Garibaldi nell'avvicinarsi alla Stazione Ferroviaria si abbassa progressivamente di quota, fino a sprofondare e scomparire dentro una lunga galleria sotterranea. Si può dire perciò che l’asse portante di tutto l’intervento invece di rimanere ben visibile e facilmente percepibile ha scelto di sottrarsi alla vista, di nascondersi, di fare naufragio: naufragio in senso letterale se riferito all’inabissarsi della strada, naufragio in senso metaforico se confrontato con la auspicata occasione urbanistica irrimediabilmente perduta.

Foto 15

Come manca per Milano una idea spaziale della città, una visione della forma che si vuole dare allo spazio fisico in cui si vive allo stesso modo manca una concezione di come organizzare la vita nella città, di come fornire una gamma di servizi pubblici essenziali per una comunità attiva e numerosa. Viabilità e trasporti, cultura ed istruzione, verde e ricreazione, sono servizi primari, basilari, irrinunciabili eppure non ancora adeguatamente predisposti e messi in funzione. In una grande città è necessità fondamentale poter usufruire di un sistema di trasporti sicuro ed efficiente; ma per realizzarlo occorre anzitutto fare una scelta preliminare e risolutiva: decidere se sviluppare il trasporto pubblico o se favorire il trasporto privato. La scelta non è né secondaria né indifferente: il trasporto pubblico esige un certo tipo di investimenti, quello privato investimenti del tutto opposti. Milano non ha sputo scegliere né per l’una né per l’altra soluzione: da un lato fornisce un trasporto pubblico indegno di una metropoli europea (il confronto con grandi capitali come Londra, Parigi, Vienna, è sufficiente a rivelare le imperdonabili carenze dei mezzi pubblici milanesi), dall’altro lato non offre al trasporto privato necessarie attrezzature ed adeguate infrastrutture. Per poter usufruire di un buon trasporto pubblico occorre che esso consenta di raggiungere senza esclusioni né omissioni tutti i luoghi della città: la rete metropolitana milanese, la MM, non copre neanche un terzo dell’area che dovrebbe servire; lascia privi di servizio larghe e numerose zone del territorio urbano; offre a tutt’oggi soltanto scarse e insufficienti linee sotterranee, mentre si sa che per raggiungere tutti i punti della città le linee dovrebbero essere almeno dieci volte più numerose. Purtroppo le linee esistenti non solo sono insufficienti , sono anche sotto-utilizzate. La carenza di una rete completa, la mancanza di un servizio che sia esteso capillarmente all’intera area urbana è un inconveniente molto più dannoso di quanto non possa sembrare perché assomma due gravi e contemporanei svantaggi: da un lato le linee mancanti sono un danno per tutte le zone della città che da quelle linee non sono ancora servite; dall’altro lato le linee mancanti riducono e compromettono l’uso e la potenzialità delle linee già esistenti; queste infatti non possono essere impiegate come percorsi di transito intermedio indispensabile per raggiungere altre linee della rete, proprio quelle tuttora mancanti. Una persona priva di un braccio è molto più invalida di quanto non appaia; il braccio mancante non solo rende impossibili tutti i movimenti compiuti da quel braccio, ma impedisce anche tutti i movimenti che per essere eseguiti richiedono l’uso dei due bracci impiegati insieme e contemporaneamente.
A Milano il servizio di tram e di autobus ha una frequenza esasperatamente bassa; durante l’orario di lavoro si è costretti ad attendere parecchi minuti fra una corsa e l’altra: nelle capitali europee il tempo massimo di attesa non supera i pochi minuti. Gli orari notturni sono eccessivamente diradati; usare il trasporto pubblico dopo l’ora di cena significa rassegnarsi a lunghe attese sia alle fermate di superficie sia nelle stazioni delle linee sotterranee. Potenziare il trasporto pubblico significa prevedere investimenti non trascurabili; significa impiegare le risorse cittadine in quantità consistente e per periodi di lunga durata. La fornitura di nuove vetture, l’assunzione di nuovo personale, la costruzione di nuove infrastrutture sono tutte operazioni impegnative che incidono pesantemente sulle finanze della Municipalità. Occorre prevedere un piano di lunga scadenza; progettare tempestivamente le operazioni tecniche, programmare preventivamente le risorse finanziarie. Si è mai visto da parte del Comune di Milano affrontare seriamente questo compito così vasto ed impegnativo? Si è mai udito che gli uffici tecnici comunali abbiano iniziato un progetto completo ed esaustivo che contempli il futuro trasporto pubblico sia urbano che extraurbano? Si è mai venuti a conoscenza di un grafico esplicativo che indichi luoghi, tempi, finanziamenti necessari a realizzare le prossime linee di trasporto metropolitano? Ogni tanto occasionalmente e inaspettatamente si viene a sapere che è stata decisa la costruzione di un nuovo tronco di ferrovia sotterranea; un tronco denominato con colori vivaci e brillanti (viola, arancione, blu); ma difficile da inquadrare in quel piano generale di trasporti che a tutt’oggi è ancora mancante. Le aggiunte dei nuovi tratti di metropolitana sembrano calate casualmente dall’alto, senza un quadro di riferimento complessivo, senza una visione del trasporto cittadino prevista a lunga scadenza ed estesa a tutto il territorio. Ne consegue che alcune nuove linee vengono iniziate e poi interrotte, e lasciate incompiute per mancanza di finanziamenti adeguati. Manca una “Idea di città”, manca una previsione globale di quale debba essere il futuro sistema dei trasporti. Come in un organismo vivente la circolazione sanguigna è condizione primaria di sopravvivenza, così in un organismo urbano il movimento dei veicoli è premessa imprescindibile di funzionalità. Fermare il flusso del sangue significa la morte; non garantire il movimento dei veicoli provoca la paralisi.
Se invece di adeguare e potenziare il trasporto pubblico il Comune decide di facilitare il trasporto privato, come avviene in alcune città degli Stati Uniti e in particolare nella megalopoli di Los Angeles, in tal caso gli investimenti comunali devono avere obiettivi del tutto diversi; il danaro servirebbe non più a fornire nuove vetture, nuovo personale, nuove attrezzature logistiche, ma a realizzare nuove arterie autostradali, nuovi parcheggi a rotazione, nuove gallerie in sotto e sovrappasso, nuovi percorsi di scorrimento veloce. Al momento attuale il Comune di Milano, così come è carente nell’adeguare il trasporto pubblico, è anche inadempiente nel facilitare il trasporto privato. Le deficienze sono gravi e numerose: semafori poco coordinati e spesso mal temporizzati; durata delle luci troppo breve o troppo prolungata; corsie ostruite da auto in sosta e quindi poco scorrevoli; parcheggi in numero insufficiente e male distribuiti; incroci a più livelli carenti o inesistenti; mancanza di un servizio stabile e permanente di polizia urbana; come se il vigile, ora che il funzionamento dei semafori è tutto meccanizzato, non abbia anche il compito di ammonire e multare i trasgressori, di sorvegliare il flusso degli automezzi, di intervenire in casi di ingorgo; di fornire chiarimenti a chi chiede informazioni; di dare aiuto ad anziani insicuri o ad invalidi menomati quando devono attraversare pericolosi incroci stradali.
La scelta fra adeguamento del trasporto pubblico oppure facilitazione del trasporto privato è una scelta irreversibile e definitiva. Una scelta che impegna, vincola, condiziona il futuro delle città; e che non ammette alternative perché la realizzazione contemporanea dei due tipi di trasporto non è né concepibile né attuabile sia per ragioni costruttive sia per ragioni economiche: le opere e le infrastrutture necessarie ad un tipo di trasporto sono di ordine particolare e specifico e quindi non usufruibili dall’altro tipo; i finanziamenti necessari ad un tipo di trasporto esauriscono le riserve di bilancio e quindi non restano disponibili per l’altro tipo.
Il traffico urbano è strettamente connesso con il traffico extra-urbano. Non si risolve l’uno senza risolvere contemporaneamente anche l’altro. Il tratto di autostrada compreso tra il casello di Rho ad ovest di Milano e quello di Agrate ad est è costantemente ostruito. Il traffico misto di autocarri ed automobili rimane bloccato per ore. Su quel tratto di strada si sovrappongono quattro tipi di traffico del tutto diversi: uno internazionale tra Francia ed Austria; uno nazionale fra Piemonte e Veneto; uno provinciale fra Lombardia occidentale e orientale; uno locale tra periferia est e periferia ovest della città. Possibile che in più di trent’anni le Autorità competenti, non abbiano mai pensato di eliminare la irrazionale confluenza di tanti flussi veicolari tra loro così diversi? La nuova strada Milano-Bergamo-Brescia accorcia è vero il percorso in direzione di Venezia, ma non risolve il persistente ingorgo sul tratto Rho-Agrate. È un’opera stradale del tutto inutile; ed è anche nociva perché distrugge ampie porzioni di fertile campagna. Eppure la soluzione del problema nel tratto Rho-Agrate non sarebbe difficile. Esclusa la possibilità di allargare la sede stradale a causa del fitto tessuto edilizio presente lungo entrambi i lati dell'attuale percorso non resta che sovrapporre alla prima autostrada ormai antiquata una seconda di nuova costruzione: gli autocarri continueranno a percorrere l’attuale corsia posta al piano di città; le automobili transiteranno nella nuova interamente sopraelevata. Sorgerebbero è vero molti problemi costruttivi all’incrocio con gli esistenti viadotti sopraelevati; e sarebbe difficoltoso il tracciamento delle rampe di salita e discesa nei punti di interscambio con le principali arterie cittadine. Un buon progetto stradale tuttavia saprà superare queste ed altre difficoltà. Chi possiede una “Idea di città” non può limitarsi a prendere in esame i soli problemi cittadini, ma deve saper vedere al di là dei confini strettamente urbani. L’imbottigliamento costante di veicoli pesanti e leggeri nel tratto di autostrada Rho-Agrate rappresenta un problema apparentemente extra-urbano ma in realtà pesantemente dannoso anche per la città.
Per anni è rimasto insoluto il grave problema delle auto domenicali al rientro dalla Brianza. Sulla  superstrada Milano-Lecco tre semafori allineati appena fuori Monza a breve distanza l’uno dall’altro provocavano lunghe, estenuanti, interminabili code: le auto rimanevano bloccate ed immobili per ore. Il problema è stato recentemente risolto con la costruzione di un lungo sottopasso interrato. Ci sono voluti trent’anni per ideare ed attuare questa semplice ed elementare soluzione: trent’anni di tempo sciupato, di inquinamento crescente, di estenuante logorio psichico per i viaggiatori di ritorno dalla giornata di svago. Se l'Amministrazione cittadina avesse avuto una vera “Idea di città” e si fosse preoccupata del benessere dei cittadini avrebbe difeso la loro giornata di ricreazione; avrebbero tutelato il loro prezioso e meritato tempo libero. Non sarebbe rimasta cieca ed ottusa, inerte ed insensibile di fronte a disfunzioni così vistose come quella tuttora esistente nel tratto Rho-Agrate, oppure come l’altra prolungatasi per anni sulla superstrada Milano-Lecco.
In questi giorni gli ingorghi lamentati fuori Milano si stanno ripetendo con intensità altrettanto drammatica anche nel centro della città. Dopo la sconsiderata chiusura del traffico di Piazza Castello. tutti i veicoli che prima vi transitavano hanno dovuto dirottare in Foro Bonaparte; con il risultato che lungo questo percorso vi è una permanente stasi del traffico mentre in prossimità di Piazza Cairoli si verificano costanti e lunghe code. L’Assessore addetto al traffico non ha previsto il guasto che avrebbe causato la irresponsabile chiusura di una importante strada centrale (FOTO 16)? Non ha valutato il contraccolpo provocato sul restante traffico cittadino da una violenta modifica della viabilità principale? Dove sta l’"Idea di città"? Cioè di organismo che può essere tenuto in vita soltanto da una circolazione scorrevole, fluida, agevole?

Foto 16

Milano si estende tutta in pianura: è una città che si presta all'uso di biciclette. Da anni le poche piste ciclabili sono rimaste interrotte, incomplete, non utilizzate. La maggior parte delle strade è tutt'ora sprovvista di piste ciclabili. Per non essere travolti delle automobili che sfrecciano e li sfiorano i ciclisti salgono sui marciapiedi ed investono i pedoni. La colpa dell'infrazione tuttavia non va attribuita alla loro indisciplina ma alla colpevole inadempienza del Comune. Una “Idea di città” cosciente e responsabile non obbliga gli abitanti ad incerte e pericolose acrobazie ciclistiche; non li costringe a ricercare espedienti di guida per difendere propria incolumità. Prende in esame il problema, lo affronta, lo risolve. Tracciare una linea verniciata che separi la corsia delle biciclette da quella delle automobili non è operazione complessa. È invece complesso nelle strade tortuose e strette del centro affiancare e far coesistere il transito di auto in parallelo al percorso delle biciclette. Che aspetta il Comune ad affidare a professionisti competenti il progetto non facile ma urgente di una rete ciclabile sicura, agevole, estesa all'intera città?
Se nella politica urbanistica del Comune si constata la totale assenza di una "Idea di città", e quindi la scoraggiante incapacità di prendere decisioni conformi a quella idea, è triste dover riconoscere che anche in altre città, sia di vecchia data sia di nuova fondazione, sia insediate da secoli nel Vecchio Continente, sia sorte di recente nei Continenti emergenti, l’"Idea di città" che va affermandosi è sconcertante e deludente. Milano, volendosi adeguare rapidamente alle altre città del mondo, si è gettata un’orgia di grattacieli stravaganti ed acrobatici: alcuni presso il casello autostradale di Rho sono tanto inclinati da apparire sul punto di crollare (FOTO 17); altri sul terreno della ex-Fiera Campionaria hanno l'aria di scatenarsi in una danza indemoniata (FOTO 18): uno avvitato su sé stesso sembra imitare le contorsioni di un acrobata; un altro ripiegato e curvo sembra soccombere sotto il peso di una enorme gobba; un terzo rigonfio come un gigantesco pneumatico ricorda la pubblicità dell'uomo Michelin. Di fronte alla Stazione di Porta Garibaldi ve ne è uno che perde la pelle come un ciclopico rettile in periodo di muta, e drizza verso il cielo un turgido pleonastico pungiglione (FOTO 19). La grottesca rassegna non è altro che il campionario di ciò che sta avvenendo in tutto il mondo civilizzato (o meglio imbarbarito). Un mondo in cui l’“Idea di città” si è o perduta o involgarita.

Foto 17
Foto 18


Foto 19
E intanto nelle capitali storiche dei vari continenti le tracce del passato vengono sistematicamente rase al suolo; Ad Istanbul sono scomparse le vecchie abitazioni in legno dal pittoresco stile balcanico; a Singapore vengono demoliti quartieri ottocenteschi occupati da eleganti case coloniali; in Cina si procede alla distruzione di secolari residenze popolari; a Parigi interi isolati sono abbattuti e sostituiti da ingombranti, grevi, sproporzionati volumi moderni; a Bruxelles l’eccezionale ed unico campionario di case “liberty” è ormai quasi interamente scomparso. La città del futuro sembra modellata per soddisfare una umanità di provenienza spaziale non più di origine terrena; sembra destinata ad accogliere esseri calati da pianeti siderali non più nati nel nostro globo terraqueo; sembra concepita per essere abitata da asettici robot, dimentichi di ogni memoria storica e sprovvisti di ogni calore umano. Tuttavia non vi è motivo di disperare. Come dopo l'apocalisse del Diluvio Universale e dopo il fallimento della Torre di Babele l'umanità sopravvissuta ha continuato ad esistere e a creare, così dopo la minaccia dell’era atomica, dopo il naufragio delle Tradizioni, dopo il disinteresse per la Storia, l’uomo del futuro riscoprirà gli eterni valori umanistici, rivendicherà la sua insopprimibile aspirazione estetica, continuerà a progettare nuovi insediamenti urbani, e dimostrerà, così facendo, che l'"Idea di città" non è destinata a morire.

Elenco delle foto:  
    
Mileto. Idea di antica città democratica. Abitazioni dei cittadini tutte uguali; soltanto luoghi pubblici messi in evidenza 1. Agorà, 2. Tempio, 3. Stadio,  4. Teatro
Roma. Idea di antica città autoritaria. Abitazioni dei cittadini non tutte uguali: "domus" per ricchi, "insule" per poveri. I Fori Imperiali, imponenti luoghi del Potere, primeggiano nel centro della città 1. Mercati Traianei, 2. Foro di Traiano, 3. Foro di Augusto, 4. Foro di Cesare, 5. Foro di Nerva
Ferrara. Idea di città medioevale retta da una diarchia autocratica: Potere feudale nel Castello, Potere ecclesiastico nella Cattedrale. 1. Castello Estense, 2. Cattedrale 
Siena. Idea di città medioevale retta da una diarchia democratica: Potere popolare nel Palazzo Pubblico, Potere ecclesiastico nella Cattedrale. 1. Palazzo pubblico, 2. Cattedrale
Versailles. Idea di città barocca. Assolutismo monarchico: vie principali convergenti nel luogo del Potere unico e autoritario; popolazione urbana tenuta distante dalla Reggia. 1. Reggia 
San Pietroburgo. Idea di città barocca. Assolutismo cesareo. Vie principali convergenti nel luogo del Potere unico ed autoritario; popolazione urbana insediata in vicinanza del Palazzo dello Zar. 1. Ammiragliato
Roma. Idea di città barocca, Piazza del Popolo. Assolutismo confessionale: vie principali convergenti nei luoghi del Potere. Potere clericale: Chiesa di S. Maria del Popolo; Potere monacale: Convento degli Agostiniani. 1. Piazza del Popolo, 2. Convento Agostiniani, 3. Chiesa S. Maria del Popolo
Milano. Idea di città pseudo-monumentale, Piazza Piemonte. Assolutismo contraffatto: vie principali convergenti nel luogo di un Potere inesistente. 1. Piazza Piemonte
Washington. Idea di moderna città democratica. Sedi dei Poteri collegate da strade convergenti ed incrociate; rapporti fra i Poteri assicurati da relazioni intrecciate e complementari. 1. Campidoglio, 2. Casa Bianca, 3. Biblioteca nazionale, 4. Parco Lincoln
Genova. Via Garibaldi: passeggiata di soli ricchi
Torino. Quartiere Falchera: disgregazione della città tradizionale: scomparsa di strade, piazze, viali, incroci
Milano. Piazza Gae Aulenti: spazio algido e scostante 
Milano. Piazza San Alessandro: spazio cordiale ed accogliente
Milano. Nuova Fiera Campionaria: gigantesco rottame accartocciato sulla copertura
Milano. Quartiere Garibaldi: occasione urbanistica perduta. 1. Stazione ferroviaria Garibaldi, 2. Asse viario naufragato
Milano. Piazza Castello e Foro Bonaparte: percorsi gemelli e complementari. 1. Piazza Castello, 2. Foro Bonaparte, 3. Largo Cairoli
Rho. Grattacieli pendenti. Per evitare il crollo costi esorbitanti
Milano. Grattacieli alla Fiera Campionaria. Danza di tre indemoniati.1. Grattacielo ritorto, 2. Grattacielo gobbo, 3. Grattacielo rigonfio
Milano. Grattacielo a Porta Garibaldi. Fronte sfogliato come gigantesca squama.

                                    




NOAM CHOMSKY

Noam Chomsky

IL BASTONE DI WASHINGTON

L’aggressione è il supremo crimine internazionale che differisce dagli altri crimini di guerra in quanto contiene in sé il male accumulato dall’intera guerra” (dagli atti del Processo di Norimberga). L’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna è stata un esempio da manuale di ciò che è un’aggressione. Gli apologeti della guerra invocarono nobili intenzioni, cosa irrilevante anche se i motivi erano sostenibili. Ai tribunali della Seconda guerra mondiale non importava un accidenti che gli imperialisti giapponesi volevano portare un “paradiso in terra” ai cinesi che stavano massacrando, o che Hitler nel 1939 inviò truppe in Polonia per difendere la Germania dal “terrorismo selvaggio” dei polacchi. Abdel Bari Atwan, editore di un sito web panarabo, osserva che “il principale fattore, responsabile del caos attuale in Iraq, è l’occupazione USA/Occidentale e il sostegno arabo ad essa. Qualsiasi altra affermazione è fuorviante e mira a distogliere l’attenzione da questa verità.” Irak. In una recente intervista al programma televisivo di Moyers & Company, lo specialista in questioni irachene Raed Jarrar ha delineato ciò che noi, in Occidente, dovremmo sapere. Come molti iracheni, Jarrar è mezzo sciita e mezzo sunnita, ma prima dell’invasione a malapena conosceva l’identità religiosa dei suoi parenti perché “la differenza etnico-religiosa non faceva parte della coscienza nazionale”.
Jarrar ci ricorda che “questa lotta settaria che sta distruggendo il paese, è chiaramente iniziata con l’invasione degli Stati Uniti e con l’occupazione. “Gli aggressori hanno distrutto “l’identità nazionale irachena rimpiazzandola con identità etniche e confessionali”, operazione iniziata immediatamente dopo che gli Stati Uniti istituirono un governo basato su identità etniche, una novità per l’Iraq. Ormai, sciiti e sunniti sono acerrimi nemici, grazie al bastone brandito da Donald Rumsfeld e Dick Cheney (rispettivamente l’ex segretario della Difesa e vice presidente durante l’amministrazione di George W. Bush) e da altri come loro, che non capiscono altro se non violenza e terrore, e che hanno contribuito a creare conflitti che affliggono la regione, ora a brandelli.

Afghanistan. La rinascita dei talebani in Afghanistan.
La giornalista Anand Gopal spiega le ragioni del suo straordinario libro, No Good Men Among the Living: America, the Taliban, and the War through Afghan Eyes [Nessun buono tra i vivi: Stati uniti, il talebano e la guerra vista con occhi afghani]. Nel 2001-2002, quando il bastone degli Stati Uniti colpì l’Afghanistan, gli outsider di al-Qaeda si dileguarono e i talebani si dissolsero.
Molti scelsero, come da tradizione, di accomodarsi dalla parte dei conquistatori. Ma Washington era alla disperata ricerca di terroristi da schiacciare. Gli uomini forti, che si imposero come governanti, ben presto scoprirono che potevano sfruttare la cieca ignoranza di Washington e attaccare i loro nemici, compresi quelli che collaboravano con entusiasmo con gli invasori americani. Ben presto il paese si ritrovò governato da signori della guerra senza scrupoli mentre molti ex talebani, che avevano cercato di entrare nel nuovo ordine, ricrearono l’insurrezione.

Libia.
Più tardi il bastone è stato raccolto dal presidente Obama per “condurre da dietro le quinte” la distruzione della Libia. A marzo del 2011, durante la rivolta (o primavera araba) contro il leader libico Muammar Gheddafi, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò la risoluzione 1973, chiedendo “un cessate il fuoco, la fine della violenza e di tutti gli attacchi e gli abusi sui civili”.
Il triumvirato imperiale -Francia, Inghilterra, Stati Uniti- decise all’istante di violare la risoluzione, trasformandosi nella forza aerea d’appoggio ai ribelli e intensificando la violenza. Il loro intervento è culminato nell’assalto al rifugio di Gheddafi a Sirte, città che lasciarono “completamente devastata”, secondo testimoni oculari della stampa britannica: “reminiscenza delle scene più truci di Grozny, verso la fine della sanguinosa guerra della Russia in Cecenia”. A costo di tanto sangue il triumvirato raggiunse il suo obiettivo di cambiare il regime, in violazione dei suoi pietosi pronunciamenti.
L’Unione Africana si oppose fermamente all’assalto del triumvirato in Libia. Come informò Alex De Waal, della rivista britannica International Affairs, la UA aveva proposto un cessate il fuoco e una “road map” per l’assistenza umanitaria, per proteggere i migranti africani (molti dei quali sono stati uccisi, i più fortunati espulsi) e altri cittadini stranieri, nonché la richiesta di riforme politiche per eliminare “le cause della crisi”, stabilire un “governo ad interim per arrivare ad elezioni democratiche”. All’inizio la proposta della UA fu accettata da Gheddafi, ma disdegnata dal triumvirato, che “non era interessato ad un vero negoziato” scrisse De Waal.
Il risultato è che la Libia è ormai lacerata dalla guerra tra milizie, mentre il terrore jihadista si è scatenato in gran parte dell’Africa insieme ad una marea di armi, arrivando anche in Siria.

Congo.
Esistono evidentissime prove delle conseguenze di tale politica del bastone. Prendiamo la Repubblica democratica del Congo, ex Congo Belga, un grande paese ricco di risorse -e con una delle peggiori storie dell’orrore contemporaneo. Aveva avuto una possibilità di sviluppo dopo l’indipendenza nel 1960, sotto la guida del primo ministro Patrice Lumumba. Ma l’Occidente non voleva nulla di tutto questo. Il direttore della Cia, Allen Dulles, a proposito di Lumumba disse “La sua rimozione deve essere un obiettivo urgente e primario” dei servizi segreti, soprattutto perché gli investimenti statunitensi nel paese erano considerati in pericolo a causa di documenti interni che parlavano della presenza di “nazionalisti radicali”. Sotto la supervisione di ufficiali belgi Lumumba fu assassinato, realizzando il desiderio del presidente Eisenhower che gli aveva augurato “di cadere in un fiume pieno di coccodrilli”. Il Congo fu consegnato al favorito degli Stati Uniti, il dittatore sanguinario e corrotto Mobutu Sese Seko, e da lì l’attuale naufragio di ogni speranza africana.

Centro America. In luoghi più vicini è più difficile chiudere gli occhi sulle conseguenze del terrorismo di Stato di Washington. Oggi regna la preoccupazione dell’esodo dal Centro America di bambini che stanno inondando gli Stati Uniti. Il “Washington post” informa che questi piccoli migranti arrivano “in gran parte da Guatemala, Salvador e Honduras”, ma non dal Nicaragua. Perché? Può essere perché quando il bastone di Washington colpiva la regione, negli anni ’80, il Nicaragua era l’unico paese che poteva contare su un esercito per difendere la popolazione dai terroristi inviati dagli Stati uniti, mentre negli altri paesi i terroristi che devastavano la popolazione erano gli eserciti addestrati ed equipaggiati da Washington?
Il presidente Obama ha proposto una soluzione “umanitaria” alla tragica migrazione: una deportazione più efficiente. Vi viene in mente qualche alternativa?

Le multinazionali.
Sarebbe ingiusto però omettere quanti esercitano il “potere soft” nel ruolo del settore privato. Un esempio significativo è la decisione di Chevron di abbandonare il suo tanto pubblicizzato programma di energie rinnovabili, perché i combustibili fossili sono molto più redditizi. ExxonMobil a sua volta ha annunciato, dalle pagine del Bloomberg Businessweek , che “il suo obiettivo di usare il laser sui combustibili fossili è una buona strategia, indipendentemente dal cambio climatico, perché il mondo ha gran bisogno di energia e significative riduzioni di carbonio sono molto improbabili”. È quindi un errore ricordare ai lettori, giorno dopo giorno, la sentenza di Norimberga. L’aggressione non è più considerata il “crimine internazionale supremo”, non si può mettere a confronto con il suo costo -in termini di distruzione della vita di generazioni future- se l’obiettivo è quello di ottenere guadagni sempre maggiori oggi.

(Trad. per Odissea di Martha Barry) 


CHRISTIAN ECCHER 



Christian Eccher

TRITTICO DALLA GEORGIA (come una sinfonia)
Reportage

Strada militare della Georgia (andante sostenuto)


La strada statale M3, meglio conosciuta come Strada Militare della Georgia, è un nastro d’asfalto a due corsie sconnesso e corroso dal gelo; collega Kazbegi (il nome ufficiale è in realtà Stepantsminda), il primo grande centro urbano georgiano per chi venga dalla Cecenia, a Tbilisi. Prosegue poi verso la capitale armena Jerevan. I margini polverosi della corsia di destra sono costellati di Tir e camion con targhe russe, turche e armene che rimangono immobili e aspettano la notte per passare la frontiera, quando il traffico automobilistico è meno sostenuto e le attese alla dogana sono più brevi. Trasportano frutta, verdura e metalli destinati al mercato russo ed europeo. La colonna di camion è una fila interminabile, lunga fino alla paura, che talvolta comincia già alle porte di Tbilisi. Se i Tir si mettessero in movimento all’improvviso, tutti insieme, bloccherebbero immediatamente la M3, che è una delle arterie più importanti del Caucaso. In territorio georgiano, la M3 si snoda fra i fondovalle dei fiumi Tekhena e Aragvi, dominati dal picco del Monte Kazbek, alto più di 5000 metri. Nelle giornate limpide, la forma tozza del Kazbeg è visibile anche dal centro di Tbilisi. Formatosi contemporaneamente alle Alpi, il Caucaso è il prodotto della collisione fra la placca tettonica euroasiatica e quella araba, che milioni di anni fa chiuse in una morsa fatale il mare Tetide. Lo spartiacque meridionale del Caucaso è aspro e brullo, anche a quote relativamente basse. Quello settentrionale invece, in territorio russo, ha pendii più morbidi e boscosi; in corrispondenza della zona di subduzione, lì dove a grande profondità le rocce della placca araba si insinuano sotto quelle della placca euroasiatica, ci sono dei piccoli vulcani. Anche il Kazbeg può essere considerato un vulcano, anche se inattivo: il magma non raggiunge mai la superficie e non c’è alcun rischio che la sommità del monte esploda ed erutti lava. Intorno alla vetta ci sono però fuoriuscite di acqua calda, che nel 2002 hanno causato lo slittamento improvviso di un ghiacciaio che si è riversato sulla città di Kazbegi, provocando un’inondazione con diversi morti. L’acqua spesso blocca anche la M3: bastano precipitazioni piovose un po’ più abbondanti del solito e i pendii scoscesi si trasformano in torrenti, che riversano a valle e sulla strada quantità enormi di terriccio e di pietrisco. A volte sono le vacche a interrompere il flusso del traffico: si siedono a decine al centro della carreggiata, sonnacchiose e tranquille. Ci vogliono ore prima che la situazione torni alla normalità; gli automobilisti rassegnati scendono dalle proprie auto e raggiungono uno dei piccoli ristoranti che si trovano lungo la Statale: il Kaciapuri (una sorta di pizza al formaggio), le melanzane ripiene di crema alla nocciola, i Kinkhali (enormi ravioli farciti di carne e di funghi) e verdure di ogni tipo convincono i viaggiatori stanchi a sedersi attorno ai piccoli tavoli di legno delle taverne, dalle cui finestre verdeggiano i greppi dei monti interrotti da piccole cascate ad alta quota. Il vento, che in queste regioni soffia per lo più da nord, corrode i picchi, aspri e brulli, che prima di aver raggiunto il blu del cielo hanno abitato le viscere della terra: paurose pressioni e temperature infuocate hanno sciolto le rocce che costituivano la superficie della placca araba: i minerali si sono liquefatti in un magma fluido per poi ricomporsi in rocce metamorfiche chiamate gneiss, che la forza della terra ha scagliato verso il cielo in tempi geologici rapidissimi, circa 25 milioni di anni. L’acqua, il vento, corrodono le sommità e gli gneiss polverizzati tornano a valle, dove formano i conoidi, ovvero immense losanghe nere ai piedi dei pendii più scoscesi.


D’estate, nelle ore più calde della giornata, l’umidità si condensa ad alta quota: graziosi cumuli bianchi fanno capolino sulle alture più alte, impercettibilmente si gonfiano, crescono, per poi trasformarsi in mostruosi cumulonembi che nascondono il sole; il Kazbeg con il Santuario della Trinità, a picco sul nulla, sono le prime vittime a essere inghiottite dal nero temporalesco, illuminato solo da brevi e fredde scariche elettriche, saette che emergono dalle tenebre acquose delle nuvole. Non resta che scappare verso valle, raggiungere Ananuri e la sua chiesa, che sorge sulle rive del lago omonimo, costruito per garantire una riserva d’acqua costante a Tbilisi e ai paesi e le città più a valle. Il santuario, che risale al XVII secolo, è rassicurante, caldo, le sue mura proteggono dai temporali e dai venti che spesso soffiano impetuosi, scompigliando la superficie del lago. Un affresco sulla parete rappresenta l’aldilà, con l’inferno in cui animali feroci mangiano i peccatori. I turisti si assiepano lungo le mura del complesso in cui la piccola basilica è compresa; un gruppo di tedeschi cammina sul sentiero scosceso che porta al lago. La loro pelle chiara, i capelli biondi rimandano a certezze di paesi lontani; i loro passi fermi e cadenzati tradiscono la sicurezza di chi non teme i temporali di alta montagna e neppure il magma sotterraneo che si agita come un serpente arrabbiato nelle viscere della terra, alla ricerca di un varco per raggiungere finalmente la superficie e riprendersi le rocce e i cristalli che hanno osato raggiungere le altezze celesti.


Tbilisi (Kraftig bewegt, doch nicht zu schnell - andantino)


Tbilisi si presenta all’improvviso: d’un tratto le montagne lasciano spazio a colline di arbusti e di alberi le cui cime sono seccate dal sole; a valle, il fiume Mtkvari scorre placido e mansueto. Alcuni palazzi di architettura socialista si ergono solitari e metafisici su una piccola altura e, come uno squillo di tromba all’inizio di un concerto, annunciano la capitale georgiana. La M3 si insinua fin dentro la città, il traffico è anarchico, gli automobilisti non conoscono regole; le auto sorpassano i camion, gli autobus e le “marschrutke” gialle (furgono privati che fanno concorrenza al trasporto pubblico) senza curarsi dei veicoli che arrivano in direzione opposta, i quali, senza scomporsi, si fermano nel bel mezzo della strada o invadono persino i marciapiedi pur di continuare la propria marcia. Il suono dei clacson è interrotto solo dalla voce roca dei poliziotti che, seduti nelle proprie auto bianche e azzurre e immersi nel traffico insieme a tutti gli altri, dirigono la circolazione per mezzo di microfoni collegati ad altoparlanti, a loro volta posizionati vicini al lampeggiante blu sul tettino. Il caos che regna le strade è una metafora perfetta dei rapporti sociali in Georgia. Subito dopo la proclamazione di indipendenza, nel 1991, cominciò la guerra in Abcasia e in Ossezia del Sud, due regioni contese con la Russia. L’Europa era troppo impegnata a cercare una soluzione per i Balcani e dimenticò il Caucaso: nessun paese occidentale aiutò la giovane democrazia georgiana a fronteggiare le enormi difficoltà davanti a cui si trovava. I disordini, che inizialmente erano limitati ai due territori coinvolti nel conflitto, si diffusero presto in tutto il paese: l’opposizione parlamentare organizzò una manifestazione di protesta che il governo represse nel sangue. Da quel momento fu la guerra civile, una delle più caotiche mai esistite, in cui non era facile capire chi fossero le parti in causa, da che parte stesse l’esercito e per chi combattessero le varie milizie comparse dal nulla, al servizio di mafiosi e affaristi senza scrupoli. Levan, docente di germanistica all’Università di Tbilisi, ricorda ancora la mancanza di elettricità, il pane quasi crudo che si comprava nelle piccole botteghe dopo ore e ore di fila (i forni erano elettrici e funzionavano a singhiozzo), i balordi armati che terrorizzavano la popolazione; all’inizio degli anni Novanta, omicidi e rapine erano all’ordine del giorno non solo a Tbilisi, ma anche nel resto della Georgia. Nel ’92 il primo presidente democraticamente eletto, Zviad Gamsakhurdia, venne destituito ed Eduard Shervarnadze, già ministro degli esteri ai tempi dell’URSS, prese il suo posto. La battaglia che portò all’esilio di Gamsakhurdia fu cruenta: la via principale di Tbilisi, via Rustaveli (ora costellata di panchine su cui splendide fanciulle dai capelli nerissimi e dalle gonne a fiori mangiano il gelato), venne quasi completamente distrutta. 113 persone rimasero a terra (Sono i morti per la libertà. I morti. Per la libertà. Sono tutti sepolti). L’Abcasia e l’Ossezia del Sud erano però de facto diventate indipendenti. Sempre nel corso degli anni Novanta, l’Agiaria (o Adzharia), un’altra regione autonoma al confine con la Turchia e abitata da una forte minoranza turca, diede segni di irrequietudine che portarono il parlamento locale a proclamare l’indipendenza fiscale e a chiudere per un certo periodo le proprie frontiere, in un tentativo di affrancarsi dal controllo politico di Tbilisi. Il governo centrale riuscì però a domare la protesta e l’Agiaria è tuttora in territorio georgiano. Nel frattempo la guerra, la povertà, la corruzione, l’insicurezza che regnavano sovrane avevano portato gli abitanti di Tbilisi alla disperazione. Nel novembre del 2003, nell’attuale piazza della Rivoluzione, in pieno centro, dove adesso sorge il palazzo di vetro che ospita il lussuoso hotel Radisson, migliaia di persone si radunarono per protestare contro Shevarnadze, il quale diede immediatamente le dimissioni, evitando così un inutile spargimento di sangue. La cosiddetta Rivoluzione delle Rose portò a nuove elezioni e nel gennaio del 2004 salì al potere Mikhel Saakashvili, che diede un’impronta filo-occidentale alla politica estera (anche oggi, tutti gli edifici pubblici della Capitale espongono non solo la bandiera georgiana, ma anche quella europea, a rimarcare non solo un desiderio di appartenenza all’Europa e alla sua cultura, ma anche un allontanamento dalla Russia e dalla politica espansionista e imperialista di Valdimir Putin). Il nuovo presidente inaugurò una serie di riforme che hanno fatto della Georgia un paese più stabile. Da allora Tbilisi è una città sicura, la polizia è presente in tutte le strade, le risse e gli omicidi sono davvero solo un ricordo del passato. Nei vicoli della Città Vecchia, lontano dal traffico, la calma regna sovrana, ma in Caucaso la pace è sempre fragile e illusoria. Nelle viscere della terra, il magma non smette mai di agitarsi e cerca disperatamente di guadagnare la superficie, e nel far ciò riscalda le polle d’acqua sotterranea, che fuoriesce copiosa dalle fontane delle terme pubbliche situate proprio nel centro della capitale: Tbilisi rimane così fedele al proprio nome, che in lingua georgiana antica significa “luogo caldo”. 
Nella piazza della Rivoluzione, l’Università Ilia ha organizzato un concerto rock: nella tiepida sera settembrina si esibiscono gli studenti e i docenti che nel tempo libero cantano o suonano uno strumento musicale. A destra, dietro l’hotel Radisson e al di là del fiume, c’è la Tbilisi occidentale, con i palazzi costruiti in stile parigino; in periferia, invece, ci sono gli edifici quadrati in stile socialista. A sinistra della piazza, aggrappata al Monte Santo, biancheggia la città vecchia, con le sue case basse in stile persiano, con le verande a picco sulle stradine sconnesse su cui, di giorno, si affacciano timide bambine, che per guadagnare il parapetto si alzano sulle punte dei piedi, come ballerine ancora acerbe. Guardano i passanti e fanno smorfie arricciando le labbra prima di scappare rumorosamente e di rifugiarsi ridendo nell’ombra fresca della casa. Sulla sommità del monte, collegato alla città con una funicolare (una funicolare nella notte, amici, dove porta?) troneggia il grande traliccio della televisione, costituito da un telaio di acciaio a tre tubolari: uno, quello portante, è perpendicolare al suolo, gli altri due sono inclinati e si saldano al principale proprio sotto la torre di controllo, una sorta di enorme collare, posto a metà del traliccio, in cui lavorano i tecnici delle telecomunicazioni. Le lampadine a intermittenza collocate lungo la costruzione conferiscono dinamicità e leggerezza all’intera struttura e fanno del Monte Santo, così chiamato perché a mezza costa sorge un Santurio, un luogo simile a un luna park, complice anche la grande ruota panoramica che lentamente gira e nel cielo fa compagnia al ripetitore.


Il pubblico si infiamma quando Giorgi, trentenne impiegato all’Ufficio Internazionale dell’Università, sale sul palco con il suo basso e comincia a suonare insieme al complesso di musica heavy metal che lui stesso ha contribuito a fondare. Con il suo sguardo sincero da bambino un po’ smarrito, i capelli lunghi lasciati cadere sulle spalle e la barba ispida e incolta, Giorgi è una persona molto amata dagli studenti, dai professori e gode di una buona reputazione in tutta la città. La musica heavy metal è per lui un modo per esprimersi e anche per incanalare l’aggressività che caratterizza tutti coloro che da adolescenti hanno vissuto in prima persona i tragici fatti degli anni Novanta. Il fratello di Giorgi ha preso parte alla guerra dei 5 giorni, che si è consumata nell’agosto del 2008, quando la Russia ha invaso l’Ossezia del Sud. Dopo il successo in Agiaria, infatti, il governo georgiano si era illuso di essere abbastanza forte da poter riprendere lentamente possesso di tutti i territori perduti negli anni Novanta con una semplice operazione di polizia e di diplomazia, senza neppure bisogno di schierare l’esercito. I carri armati di Putin avanzarono non solo in Ossezia, ma anche lungo la Strada Statale M1, che collega il Mar Nero con Tbilisi e occuparono Gori, la città natale di Stalin. La capitale si chiuse in sé stessa, i riservisti furono schierati sulle alture della periferia, di nuovo vennero a mancare l’acqua e l’elettricità. Tutta la cittadinanza era pronta per la difesa estrema, per il sacrificio finale. La Georgia aveva già perso una volta la propria indipendenza nel 1921, quando l’URSS annetté quella che a Mosca veniva chiamata la Siberia del Sud mettendo così fine alla prima repubblica socialdemocratica al mondo, nata nel 1918 proprio a Tbilisi. Come le nubi nere che dal Kazbeg cercano di guadagnare la valle fino a lambire la capitale, senza però raggiungerla davvero, e a sera si sgonfiano innocue, così anche la minaccia russa svanì nel giro di pochi giorni. Le milizie di Putin si ritirarono nel nord del Caucaso, grazie anche alla mediazione dell’allora presidente francese Sarkozy, ma l’Ossezia del sud era perduta per sempre. Anche se non è riconosciuta dalla Comunità Internazionale, la regione appartiene a tutti gli effetti alla Federazione Russa. Alla fine della guerra dei cinque giorni, colonne di profughi georgiani si sono riversate dall’Ossezia verso Tbilisi; per loro il governo ha costruito villaggi che oggi, visti dall’autostrada, somigliano a lager o ad accampamenti militari: case piccole, ma molto dignitose, ordinate per file regolari su pianta quadrata. Dal 2008 i rapporti con la Russia sono diventati estremamente tesi. Putin ha dato ordine di rimpatriare tutti i cittadini georgiani che lavoravano nel Nord del Caucaso o a Mosca e ha introdotto un sistema di visti molto severo. I rapporti fra Georgia e Russia sono in realtà molto ambigui: lo stesso Giorgi, come quasi tutti i georgiani, sa perfettamente il russo, anche se si rifiuta categoricamente di parlarlo. Solo le nuove generazioni non conoscono l’idioma di Dostojevski: da quando Saakashvili ha invitato professori americani e inglesi a lavorare nelle scuole delle principali città, l’inglese ha conosciuto una grande diffusione; anche il georgiano, una lingua appartenente al gruppo cartvelico (che non è indo-europeo), ha riguadagnato il prestigio perso durante la dominazione sovietica. Non sarà comunque facile cancellare l’impronta che la Russia ha lasciato dietro di sé: i legami culturali fra i due paesi affondano le proprie radici già nel XVIII secolo, quando la Georgia, nazione cristiano-ortodossa, chiese la protezione degli zar per difendersi dalle invasioni turche e persiane. Nel 1801 il paese entrò a far parte dell’impero russo e anche i nazionalisti georgiani dell’’800 si formavano nelle Università di Mosca e di San Pietroburgo: il loro non era un nazionalismo anti-russo, tutt’altro. La Georgia ha ancora bisogno della Russia e, nonostante le tensioni che anche oggi sussistono, il nuovo governo, in carica dal 2013 e guidato da Irakli Garibashvili, sta cercando di trovare un accordo commerciale con Mosca, che fino al 2008 era il principale partner economico di Tbilisi. Attualmente, nonostante le sanzioni, la Russia continua ad acquistare il vino georgiano grazie alla mediazione dell’Uzbekistan.
Alla periferia ovest della città, che è possibile raggiungere solo in autobus, dato che la metropolitana costruita ai tempi dell’Unione Sovietica viaggia sull’asse nord-sud, Ghia (diminutivo di Gregori) siede nella sua guardiola davanti al Ministero dello Sport. Lavora come guardiano, al mattino presso il Ministero e al pomeriggio per conto di un’azienda americana, che lo paga molto bene ma in nero, senza contribuiti e senza assicurazione medica. Con Saakashvili la Georgia ha riformato non solo il sistema dell’istruzione e la polizia, ma anche l’economia: nel 2005 è stata varata una nuova legge sul lavoro. Su pressione dell’America di George Bush padre, il cui appoggio era fondamentale in un momento in cui l’Europa era assente dal Caucaso e la Russia minacciava l’invasione, lo stato sociale è stato completamente smantellato. Il neocapitalismo ha mostrato in Georgia il suo volto più selvaggio e ha reso i lavoratori veri e propri schiavi. A George Bush è stato anche dedicato un importante boulevard di Tbilisi non lontano dall’aeroporto. Le cose però stanno lentamente cambiando: il nuovo primo ministro (la riforma costituzionale del 2012 ha tolto il potere al presidente per darlo al governo ed il premier è diventata una figura cruciale della politica georgiana) sta cercando di reintrodurre delle garanzie per il lavoratori, grazie anche alla pressione che l’UE e la Germania esercitano sulle Istituzioni di Tbilisi da qualche anno a questa parte.
Ghia parla russo e rimpiange i tempi dell’Unione Sovietica. Gli occhi chiari e malinconici, il volto solcato da rughe profonde, ha 55 anni ma ne dimostra venti di più. Racconta la propria storia centellinando le parole. Di tanto in tanto si interrompe, accende una sigaretta e lo sguardo si perde in un punto indefinito, verso l’alto, verso immagini lontane e irrimediabilmente perdute. Suo padre era impiegato in qualità di dirigente presso un’azienda petrolifera con sede a Batumi, il capoluogo dell’Agiaria. Ghia è nato in una casa in riva al mare, con una veranda affacciata sul Mar Nero e coperta da un pergolato su cui selvaggia cresceva la vite. Ricorda ancora il gusto intenso e succoso degli acini neri e polverosi. Una volta, da bambino, lavò in mare un grappolo che sua madre aveva raccolto per lui e il succo dolce della frutta si mischiò al sale marino, in un contrasto stridente e indimenticabile. Era settembre, faceva ancora caldo e una coppia di russi attempati camminava sulla battigia. Quando è diventato maggiorenne, Ghia si è trasferito a Tbilisi e fino all’indipendenza della Georgia ha lavorato in una ditta pubblica come impiegato. La fabbrica è stata privatizzata negli anni ’90 e nel giro di pochi mesi è fallita. Ghia si era nel frattempo sposato e per mantenere il figlio Irakli, nato subito dopo il matrimonio, ha cominciato a lavorare come guardiano. La paga però era miserrima e ha dovuto trovare altri impieghi. Per garantire un futuro al proprio bambino ha anche venduto la casa di Batumi e comprato un secondo appartamento a Tbilisi. Il figlio, ora ventisettenne, è la sua preoccupazione più grande: il ragazzo ha cercato di impiegarsi come istruttore di calcio, il suo sogno sin da bambino, ma ha ben presto capito che senza una raccomandazione non sarebbe riuscito a trovare il lavoro che desiderava. Si è lasciato andare, a cominciato a bere e a disprezzare i genitori. Rabbia, frustrazione, rassegnazione, depressione sono i sentimenti tipici di tutti coloro che erano adolescenti negli anni Novanta e non soltanto di Irakli: una situazione che la regista Nana Ekvtimishvili ha magistralmente rappresentato nel film “In Bloom”. Ghia vorrebbe sistemare il figlio prima di diventare troppo vecchio. Sente che le forze cominciano a mancargli, vorrebbe che il ragazzo emigrasse, che trovasse lavoro in Italia come badante di una persona anziana o malata. Ghia ha legami a Mosca e a Ekaterinburg, ma non è riuscito a far sì che Irakli ottenesse un visto lavorativo per la Russia. Dal 2008 in poi, molti georgiani, soprattutto le donne, quando hanno visto che Putin faceva sul serio e non concedeva loro i permessi di soggiorno, hanno optato per quella che Kofi Annan ha definito “Emigrazione circolare”. I georgiani partono, lavorano per qualche mese all’estero, soprattutto in Italia e in Grecia, tornano a casa e dopo qualche tempo emigrano nuovamente. Sui monti della Tuscezia, una regione al confine con il Daghestan, le donne, abituate a vivere da sole anche in passato dato che i mariti nei mesi invernali transumavano a valle, si spostano ogni anno in massa verso l’Europa occidentale. Trascorrono l’inverno all’estero e poi l’estate nelle proprie case, dove aiutano i mariti nei lavori dei campi o nella pastorizia. Ghia non permetterebbe mai che la sua consorte partisse senza di lui, ma vorrebbe che il figlio lasciasse la Georgia. Magari per sempre: l’URSS era la patria della sua famiglia, la nuova patria e la retorica nazionale e nazionalistica sono per lui solo una carnevalata, utilizzata dai politici come Shevarnadze per rubare ciò che apparteneva al popolo. Dopo aver parlato per ore, ci salutiamo a lungo e affettuosamente; Ghia rimane fuori dalla sua guardiola, in cui ci sono solo una televisione e un materasso di spugna, e mi guarda mentre mi allontano; la mano sulla fronte a ripararsi dal sole, le gambe arcuate verso l’esterno, piegate da un’artrosi precoce e inarrestabile. Poi si gira, accende una sigaretta ed entra nel parcheggio dall’asfalto sconnesso nel Ministero, dove, sulla rete di ferro che separa il cortile dalla strada, grappoli d’uva dai chicchi turgidi pendono pesanti. La luce solare fende l’aria illuminando minuscole particelle di polvere sospese nell’aria calda del pomeriggio settembrino.

Deserto del Gareja (Lento e pensoso – finale: come una suggestione)


A sud di Tbilisi, verso Rustavi, le colline sono ricoperte di rigogliosa vegetazione; campi di grano e frutteti si snodano nella valle lungo il corso del fiume Mtkvari. Poi, all’improvviso, attraversato il corso d’acqua, gli alberi si diradano; il manto erboso dei prati lascia il posto a chiazze di terra marrone e arida. A mano a mano che si sale sulle alture del Gareja, il paesaggio si fa sempre più lunare; l’ultimo paese prima del deserto, Udabno, è arso dal sole. Le case sono semplici, piccole e con il tetto ondulato in lamiera o in eternit. Ogni abitazione ha sulla terrazza un grosso serbatoio cilindrico che funziona da riserva d’acqua, dato che le precipitazioni sono estremamente rare. Udabno è ormai quasi disabitata, gli abitanti si sono trasferiti a Tbilisi o all’estero. Il deserto che si estende verso sud è costituito solo da rari arbusti bassi. Il silenzio ovatta persino l’asperità dei rilievi ed è interrotto solo dal fruscio del vento che alza nuvole di polvere verso il cielo. Non il canto degli uccelli, non il latrare di un animale, non una voce umana; i gechi e i serpenti scivolano muti sui sassi quando avvertono un pericolo e si rifugiano nei buchi del terreno. Al confine con l’Azerbaigian sorge il complesso religioso di Davit-Garej che risale al VI secolo d.C. ed è costituito da un chiostro molto grande e da 19 monasteri. Il versante meridionale della catena del Gareja è punteggiato da piccole grotte, un tempo abitate da monaci e pastori, le cui pareti sono affrescate con immagini di santi e scene sacre. I dipinti risalgono per lo più al Medioevo e sono stati restaurati di recente. Quest’area era all’epoca fertile e ubertosa, come testimoniano le numerose terrazze costruite a fini agricoli e ormai ricoperte di sterpaglie e polvere terrosa. Sulla vetta più alta una graziosa cappella domina il paesaggio. Il chiostro maggiore è assai particolare: le abitazioni dei monaci sono infatti scavate nella pietra. Ogni anno le migliaia di pellegrini che visitano il complesso di Davit-Garej, dopo aver pregato nella chiesa del Chiostro maggiore, si inerpicano sulla montagna per raggiungere le grotte affrescate e la cappella. Nella società georgiana la religione ha un ruolo importantissimo, e non a caso il patriarca della Chiesa Ortodossa Georgiana Ilia può essere considerato l’uomo più importante del paese. Dopo la caduta dell’URSS, la Chiesa ha assunto un peso sempre maggiore e il Governo di Tbilisi ha addirittura firmato un Concordato con il Patriarca: i Concordati si firmano solo fra Stati sovrani e indipendenti, non fra gruppi di potere che fanno parte dello stesso Stato; in Georgia, però, l’istituzione ecclesiastica ha preteso di avere una voce in capitolo in tutte le decisioni governative e che il suo ruolo fosse riconosciuto addirittura da un articolo della Costituzione. “La religiosità dei georgiani è in realtà solo di facciata, è mera forma”, dice Maria, una studentessa al terzo anno della facoltà di psicologia dell’Università Ilia, mentre osserva il chiostro dalla cella più alta. “Ogni volta che passano davanti a una chiesa, i georgiani si fanno il segno di croce, per mostrare agli altri la propria devozione. Il dramma è che le parole “ortodosso” e “georgiano” sono ormai diventate sinonimi”. Maria ha vent’anni, ha un viso squadrato ma allo stesso tempo delicato; qualche capello bianco fa capolino dalla folta chioma castana. Lo sguardo sveglio e gli occhi accesi non riescono a nascondere un disagio, una sofferenza che affondano le radici in chissà quale angolo del suo passato ma che allo stesso tempo hanno contribuito a fare di lei una ragazza sensibile ed estremamente intelligente. Racconta che in alcuni villaggi della Tuscezia (regione a nord del paese, al confine con il Daghestan) la popolazione ha letteralmente esiliato il prete, che pretendeva di imporre il credo e le funzioni ufficiali, per poter continuare ad esercitare i propri millenari riti religiosi che mantengono degli elementi pre-cristiani, eredità delle credenze pagane e animiste (la Georgia è stata cristianizzata nel IV secolo d.C.). L’eccessiva religiosità è un fenomeno che si è sviluppato solo dopo l’Indipendenza dall’URSS; anche nei secoli passati, il credo ortodosso era aperto a influssi non solo pagani e animisti, ma anche di altre religioni, come testimonia il Monastero di Alaverdi, che si trova vicino alla città di Akhmeta ed era un vero caravanserraglio, dove una volta all’anno, in occasione della celebrazione annuale di Alaverdola, ortodossi appartenenti alla Chiesa russa, georgiana e armena commerciavano e mangiavano insieme nel territorio del Monastero con i musulmani del Daghestan e dell’Azerbaigian, finché negli anni Novanta il Patriarca Ilia non ha cerimonializzato e istituzionalizzato la festa vietando l’uso del santuario per intenti non finalizzati al mero culto. La Chiesa però è sacra anche per i Musulmani e, secondo Florian Mühlfrieden, docente di etnologia a Jena e studioso delle tradizioni georgiane, accanto alle mura del Monastero sorgeva un tempo una Moschea. Ancora oggi i fedeli si incontrano, ma sono esclusivamente cristiano-georgiani e la ricorrenza ha perso l’importanza che aveva un tempo. Maria è molto critica nei confronti delle decisioni del Patriarca. Il 94% della popolazione ha totale fiducia nella Chiesa e ciò crea e creerà non pochi problemi alle forze politiche che vorrebbero fare dello Stato georgiano un’entità laica e multiculturale.


A Davit-Garej i pellegrini che vogliano raggiungere la cappella sulla vetta sono costretti ad arrampicarsi sulla montagna ai piedi della quale sorge il chiostro maggiore e poi a oltrepassare di qualche metro la cima che segna anche lo spartiacque dei monti Gareja; dall’altra parte, che guarda verso sud, si snoda l’unico sentiero percorribile e lì si trovano anche le grotte affrescate. Una ringhiera metallica – simile a un corrimano – attraversa a zig zag il viottolo sterrato; i fedeli devono più volte scavalcare questa ringhiera che nell’ultimo tratto si perde e lascia il posto a degli innocui paletti conficcati nel terreno, utilizzati dai viandanti come appoggi per l’arrampicata. Ringhiera e paletti segnano in realtà la frontiera con l’Azerbaigian. Il confine è conteso da anni; Baku vorrebbe annettere la sommità dei monti Gareja e la ragione è evidente: da quassù è possibile controllare il deserto azero fino al lago di Semkir, una riserva d’acqua molto importante. La Georgia ha invece unilateralmente stabilito che lo spartiacque le appartiene; la chiesetta contesa è sorvegliata da due soldati georgiani che, annoiati, imbracciano il fucile e guardano i pellegrini farsi tre volte il segno della croce mentre girano intorno all’edificio sacro. L’Azerbaigian tollera che i fedeli ortodossi invadano il proprio territorio e miliziani azeri da queste parti non ce ne sono. Verso sud-est, in direzione Baku, si apre una spianata immensa di polvere e sabbia, interrotta soltanto da venature di calcare bianco sulla cresta delle alture che si innalzano a ovest dell’orizzonte. In lontananza, tremolante e incerto, si intravvedono la valle del fiume Kura e la fine del deserto. Il Caspio è da lì distante solo 200 km; la Georgia cristiana e l’Azerbaigian musulmano dividono non solo il nulla del Gareja, ma anche legami culturali ancestrali, dato che la frontiera un tempo non esisteva e l’osmosi fra le popolazioni che abitavano queste terre era continua e naturale. La sommità dei monti Gareja è un ponte che permette di comunicare e allo stesso tempo una diga serrata, è apertura e chiusura, è bandiera di pace e forte di guerra. Come l’intero Caucaso.

Christian Eccher

Sotto il sole cocente Maria guarda pensierosa l’orizzonte azero, piatto e monotono. Dietro di lei, le alture georgiane appaiono striate e aspre. In inverno, dicono, per pochi giorni la bolla di alta pressione che sempre staziona fra Georgia e Azerbaigian si rompe; piove, anche se poco. Per questo in primavera migliaia di piccoli e delicati fiorellini rossi ricoprono il deserto, per pochissimi giorni, e salgono, salgono, salgono su fino al cielo, e forse i due soldati alla frontiera appoggiano i fucili a terra e fanno il girotondo insieme ai pellegrini, e forse anche i monaci del Chiostro diventano più indulgenti e perdonano i peccati propri e quelli di coloro che li vanno a trovare.


MEDICI SENZA FRONTIERE

Medici Senza Frontiere è la più grande organizzazione medico-umanitaria indipendente al mondo. Nel 1999 è stata insignita del Premio Nobel per la Pace. Opera in oltre 60 paesi portando assistenza alle vittime di guerre, catastrofi ed epidemie.



Ebola: la forza di Mary
Il triangolo della morte, così mi viene da descrivere questa parte di mondo dove l’equipe MSF sta lottando giorno e notte per fermare l’epidemia di Ebola. Mi trovo a Guéckédou, una cittadina nella foresta della Guinea, non lontana dal confine con la Sierra Leone e la Liberia. Il virus Ebola sembra non voler arrestare la sua avanzata. Nel nostro ospedale da campo a fatica riusciamo a trovare i letti e lo spazio per ammettere tutti i casi d’ebola. Qui i morti si contano giornalmente: è un’ecatombe. Il numero più basso di morti che abbiamo avuto in una giornata è stato quattro ed il numero maggiore sette.
Il giorno del mio arrivo abbiamo ammesso una famiglia intera, padre, madre e  Ie loro tre figlie di 7, 10 e 13 anni. Il padre è deceduto dopo qualche ora dall’arrivo, lasciando sole la moglie Geneva e le 3 figlie. Geneva era terrorizzata dall’idea di morire e di dover lasciare le sue tre bellissime bambine orfane. Ma le sue condizioni sono subito apparse gravi. Ha iniziato a perdere sangue dal naso e poi dalla bocca fino a che non è spirata, tra i pianti e le urla delle sue tre bambine che l’hanno vista morire in questo modo orribile. Il padre era stato ad un funerale di un fratello (successivamente si è capito che era affetto da ebola), e durante la cerimonia della preparazione del corpo, eseguita senza protezione, era venuto a contatto con il virus. Una persona infetta con l’ebola ha il virus in tutte le secrezioni del corpo: sudore, lacrime, saliva, sangue, feci, vomito e perfino nel latte materno. Ed il luogo dove il virus si propaga maggiormente è proprio durante i funerali, dove il corpo del morto viene toccato da tutte le persone che partecipano al funerale. Una volta rientrato a casa, il padre ha trasmesso il virus a tutta la famiglia.
Mary, la più grande delle tre, mi ha subito colpito per il suo sguardo maturo, per quell’aria da ‘dura’ con la quale mi guardava. Sola ad accudire le sue due sorelline, passava ore a darle da bere e da mangiare, le spronava a sforzarsi, ma per loro era un calvario anche solo aprire la bocca. La diarrea ha iniziato a manifestarsi nella sorellina piu piccola che dopo una notte di agonia se n’è andata. 
Mary e Jetta, le due superstiti si sono allora chiuse in un silenzio totale. Non mi guardavano neppure quando entravo nella tenda. Si rifiutavano di mangiare nonostante Mary avesse ancora la forza per farlo. Entravamo a turno nell’unità di isolamento, per non lasciarle troppo tempo da sole. Faceva caldissimo e con la tuta di protezione che indossiamo e non riuscivamo a stare all’interno per molto tempo. Mary e Jetta non parlavano l’inglese e quando chiedevo loro come si sentissero o se avessero mangiato non mi guardavano neppure. 
Jetta si è addormentata, di un sonno profondo, dal quale non si è più svegliata. Che tristezza nei nostri cuori, quanta rabbia abbiamo provato. Il senso di impotenza in questi casi prende il sopravento, e la rabbia la senti salire e vorresti urlare.
Mary era lì, apparentemente indifferente alla morte della sorella, non guardava il suo corpo, non piangeva. Avrei voluto abbracciarla e per questo mi sono avvicinato ma Mary con uno movimento brusco si è girata dall’altra parte. Mentre l’équipe si preparava a portare via il corpo della sorellina, Mary, fissava con lo sguardo la parete della tenda. Non si è mossa da quella posizione per ore, e così l’ho ritrovata quando alle sette di sera sono rientrato per portarle la cena. Le ho messo il piatto davanti e le ho chiesto di fare uno sforzo, spiegandole che mangiare e bere aiuta l’organismo a combattere l’ebola. Non ha mosso la testa di un millimetro.
Il giorno seguente quando sono entrato nella sua tenda l’ho trovata sdraiata per terra, che dormiva. L’ho chiamata, ha riconosciuto la mia voce perché mi ha fissato come se aspettasse una delle mie domande. Le ho preso la mano destra e mentre la stringevo le ho detto che non mi sarei arreso, e che sarei rimasto lì accanto a lei fino a che non avesse assaggiato il cibo che le avevo portato. Poi mi sono detto «perché non parlarle in italiano?», la nostra bella lingua così musicale da incantare anche chi non la conosce. Sono rimasto al suo fianco raccontandole un po’ di cose: da dove venivo e cosa facevo nel suo Paese. Sono poi passato a raccontarle della mia famiglia e di mio nipote Matteo, e di quanto bene gli volessi. Mary mi guardava, la sua mano nella mia, immobile come rapita da un testo stupendo di una canzone ascoltata per la prima volta. Mi sono fatto coraggio e le ho avvicinato il piatto e subito si è girata dall’altra parte. Le ho fatto capire che il caldo mi stava torturando e che la tuta era tutta bagnata di sudore all’interno, gli occhialini erano quasi tutti appannati. Faticavo a respirare, eppure mi sforzavo a starle accanto perché volevo vedesse che m’importava davvero di lei. Poi non ce l’ho fatta più e mentre mi allontanavo ho sentito la sua mano afferrate il mio braccio. Mi sono girato e ho visto le sue labbra muoversi, ma non capivo. Un’altra paziente ha tradotto per me: Mary mi chiedeva di farle il bagno. Mi sono sentito subito pieno di energie e pronto per fare questo ultimo sforzo prima di uscire dall’unità di isolamento. 
Era debole, a stento riusciva a stare in piedi, « io ho fatto un grande sforzo per farti il bagno ed ora ti chiedo di fare lo stesso per mangiare » . Le ho avvicinato il piatto e sono rimasto altri minuti ad aspettare che lei aprisse la bocca e finalmente mangiasse qualche boccone di riso.  
Non so descrivere il senso di vittoria che ho provato in quel momento, una grande gioia e contentezza. Certo non era il segno della guarigione, ma comunque un grandissimo passo in avanti, una meta che non avrei mai creduto di raggiungere. All’uscita dall’unità di isolamento ho urlato a tutta l’équipe la grande novità, erano increduli. Allora li ho fatti avvicinare alla tenda da dove si intravedeva Mary masticare piccolissimi bocconi di riso.
Il giorno dopo sono tornato, Mary sembrava non volesse mangiare ma dopo il bagno, si è seduta sul letto ed ha iniziato a mangiare il pane inzuppandolo nel tè. Non stava proprio bene, era molto debole, ma vedevo che si sforzava ed ero sicuro che sarebbe migliorata.  Nel pomeriggio mi è arrivata la notizia che il giorno dopo sarei dovuto partire per una missione esplorativa in Liberia, dove l’ebola continua la sua avanzata. Che rabbia! Proprio ora che Mary reagiva volevo seguire i suoi progressi e starle accanto. Prima di partire sono andato a salutarla. Mi ha guardato, ha preso il piatto ed ha iniziato a mangiare, mentre ero seduto al suo fianco. Prima di uscire dalla tenda le ho fatto ciao con la mano dicendole che sarei partito ma che ogni giorno avrei chiesto sue notizie.
È davvero strano come ci si possa legare ad una persona che si è conosciuta da poco, con la quale non puoi neanche comunicare. Eppure quella bambina mi emozionava tutte le volte che la guardavo, non me la tolgo dalla mente.
Sono stato costantemente informato, ed oggi la grande notizia : « Mary è uscita, ce l’ha fatta ». Non avevo parole per esprimere la gioia che provavo e così mi sono coperto il volto con le mani e come un bambino ho pianto. Non ho la presunzione di pensare di aver salvato la vita a quella ragazzina che non rivedrò mai più, ma sono certo che l’incoraggiamento, la vicinanza e la mia testardaggine le siano state da spinta. Mary poi ha fatto il resto e forse il fato , finalmente, ha dato il suo contributo.
Non vedo l’ora che sia domani per iniziare una nuova sfida al fianco di chi soffre e stimolare il cambiamento che voglio vedere nel mondo.
Massimo Galeotti, Infermiere MSF in Guinea



Mohamed, Yatta, Isatta... Bambini positivi al virus Ebola
Mohamed, Yatta, Isatta, Fatimata, Tamba, Charles, Salomon, Suma, Jusu, Bendu, Ngebeh...Sono i nomi di alcuni dei bambini positivi al virus dell'ebola nel nostro centro di trattamento a Kailahun in Sierra Leone. Molti arrivano con le loro famiglie e poi pian piano ne assistono al decesso o si spengono prima dei loro familiari. La mortalità tra i bambini è più elevata che per gli adulti (80 90% contro il 70%). Chi è riuscito a sopravvivere ci ha dato lezione di coraggio e generosità.
Sono stati i bambini, prima degli adulti, a prendersi cura degli altri bambini positivi rimasti orfani vincendo la paura di toccare un altro paziente. Hanno iniziato a rompere il silenzio e con il rumore dei loro giochi e risate hanno dato speranza a tutti noi.
Abbiamo assistito alla dimissione di Yatta e Salomon, primi bambini guariti nel centro, li abbiamo visti salutare gli altri pazienti, ne abbiamo ascoltato la storia di come l'ebola sia entrata nelle loro vite. Chi per primo nella loro famiglia si è ammalato e come sono arrivati da noi. Ancora confusi hanno scelto il loro vestito e i loro giochi prima di rientrare a casa, ci hanno chiesto chi si sarebbe occupato degli altri bambini ora che loro sarebbero partiti. Hanno dato una dimensione umana ad un'epidemia che di umano ha poco. A Kailahun, non ci sono solo bambini, ci sono donne, anziani,  intere famiglie, infermieri, che si sono infettati cercando di aiutare i loro amici, familiari o pazienti.
L‘ebola uccide, questo è noto. Quello che non è così noto è che uccide i legami e la fiducia nei villaggi. Uccide creando la paura di toccare chi si ammala o salutare chi muore. Nelle settimane trascorse sul campo, ho visto la paura diffondersi come l‘infezione, ma ho anche visto il serio e dedicato lavoro di MSF, villaggi e pazienti ringraziarci per il lavoro che facciamo per fermare ciò che è più grande noi, paura compresa.
Grazia, Epidemiologa MSF in Sierra Leone




Ebola. Come assistiamo i nostri pazienti
Questa è la prima epidemia di Ebola che mi trovo ad affrontare. Ho trascorso le ultime tre settimane in Guinea, e appena due giorni fa sono arrivato in Sierra Leone per lavorare nel Centro MSF per il Trattamento dell’Ebola da 65 posti letto. Sono responsabile della cura del paziente: vado con i medici a fare il giro dei reparti, somministro flebo se necessario e mi occupo della formazione del personale locale sulle procedure che bisogna conoscere per trattare questa malattia.
 In Guinea abbiamo trattato una giovane donna risultata positiva all’ebola, incinta del suo primo figlio. La maggior parte delle volte, quando una donna incinta si ammala di ebola, lei e il suo bambino muoiono. Questa donna, invece, ha perso suo figlio ma è riuscita a sopravvivere. Era visibile come l’esperienza l’avesse cambiata quando, una volta guarita, è uscita dal Centro per il trattamento dell’ebola. Era straordinaria.
 Il trattamento per l’ebola è molto semplice e l’assistenza infermieristica è forse uno degli aspetti più importanti di esso. Inizia con l’igiene: è necessario lavare i pazienti nel letto e tenerli puliti. Somministriamo loro cibo e liquidi, a volte sono così deboli che non riescono neanche a mangiare e bere da soli. È difficile: in Italia, le unità di cura intensiva sono di alta tecnologia, con monitor e attrezzature di tutti i tipi, mentre qui devi fare tutto da solo. 
Non lavoro più in Italia da quando, 11 anni fa, ho iniziato a lavorare con MSF. MSF è il mio lavoro a tempo pieno. Sono stato in Liberia, Angola, tre volte in Sud Sudan, Bangladesh e Myanmar. Quello che mi piace di questo lavoro è la vicinanza con le persone, il fatto che sto facendo del mio meglio per migliorare la loro salute, come se stessi davvero “facendo la differenza” in questo mondo. Anche qui in Sierra Leone contro l’Ebola. 
 Massimo, infermiere MSF, in Sierra Leone




Tute di protezione, forza e tanta esperienza contro l’Ebola
La piccola Mary mi guarda con i suoi occhioni grandi, spesso gonfi di lacrime, a volte assenti come se fissasse il vuoto. Forse non mi ha riconosciuto, del resto credo sia quasi impossibile riconoscere chi si nasconde dietro una tuta di protezione, l’uniforme che dobbiamo indossare quando entriamo nel Centro per il Trattamento del Ebola.
Si tratta di una tuta di materiale plastico impermeabile, stivali di gomma, due paia di guanti, una maschera che copre bocca e naso (molto spessa), un copricapo di materiale plastico che ti deve coprire dalla testa fino sotto le scapole e che lascia solo gli occhi senza copertura. Poi ovviamente per riparare gli occhi usiamo occhiali che sembrano maschere da sub e per finire indossiamo un grembiule di plastica spessa che dal collo ti copre fino ai piedi.
È difficile descrivere come si lavora quando si indossano tutte le protezioni, ma credetemi è  molto faticoso. All’ interno delle tende fa caldo e con tutta la plastica che ti porti dietro potete immaginare quanto si sudi all’ interno della tuta.
Dopo 5 minuti senti le goccioline di sudore che scendono dappertutto. Tutti i movimenti devono essere lenti, per evitare sforzi ma anche per evitare cadute accidentali che potrebbero esporti a un possibile contatto con il virus.
Tutte le procedure invasive (mettere un catetere venoso per esempio) vengono fatte solo da personale molto esperto e selezionato perché il rischio di contrarre il virus durante la manipolazione di aghi e sangue è elevatissimo.
La prima volta che ho fatto un prelievo non nascondo di aver avuto tantissima paura; l’ importante è  sempre spiegare bene al paziente quello che si intende fare e come il paziente si deve comportare (nessun movimento brusco, restare immobile etc.), avere sempre vicino un raccoglitore per gli aghi usati, avere un collega che ti passa il materiale, avere la mano ferma e sentire di avere la situazione sotto controllo.
Quando siamo dentro, cerchiamo sempre di avere tutto il materiale con noi (medicinali, antibiotici già diluiti) per risparmiare tempo. Anche respirare è faticoso, non devi mai cercare di farlo in modo veloce.
Proprio come succede al mare, le nostre maschere dopo un po’ si annebbiano e non si riesce più a vedere correttamente. Se a questo aggiungi gli sforzi eccessivi (come chinarsi più volte per aiutare un paziente a bere o aiutare qualcuno ad alzarsi) che aumentano la frequenza respiratoria diminuendo l’ossigeno che entra nei polmoni (ricordatevi che indossiamo una maschera che ci copre la bocca) capite bene che il senso di soffocamento può avere il sopravvento e gettarti nel panico.
Bisogna conoscere i propri limiti, sapere quanto possiamo chiedere al nostro corpo e quando arriva il momento di fermarsi. Mai prolungare la permanenza nel reparto d’isolamento oltre i propri limiti.
Alzare la testa per guardare l’orologio affisso alla parete della tenda, ripetere a un collega una frase due volte, chinarsi a raccogliere una tazza vuota per dare da bere a un paziente, aiutare un malato a mangiare sono esempi di azioni quotidiane semplici ma che se vengono effettuate con la tuta di protezione ti stancano, ti sfiniscono fino a che non senti il bisogno di uscire.
Quello è un momento bellissimo… ovviamente c’è una procedura speciale per togliersi la tuta: tutte le diverse protezioni vengono rimosse una per volta in un ordine specifico, la maschera è la penultima cosa che togliamo, alla fine l’ultimo paio di guanti.
È duro e faticosissimo lavorare con questa tuta, ma non c’è alternativa: la protezione prima di tutto!
Lavorare nell’emergenza Ebola ti fa imparare tantissime cose, e sorprendentemente mi sono accorto di avere più energie e forze di quanto credessi.
Purtroppo la mortalità è  altissima (fino al 90%), solo il 10% dei pazienti infettati con l’Ebola sopravvive ma senza il nostro intervento non ci sarebbero neppure quelli… e il virus si propagherebbe causando una catastrofe. Sono loro che ci danno la forza per continuare, quelli che riescono a sopravvivere al terribile virus.
Quanta gioia nei loro occhi quando gli viene detto che sono guariti  e quante lacrime…. Il momento della dimissione è il più bello: tutto lo staff di turno all’ospedale si ritrova di fronte all’uscita dell’isolamento, e quando il paziente esce tutti iniziano ad applaudire, cantare e ballare ! È una gioia per tutti. È lì che ti dimentichi di quanto hai sofferto all’interno dell’isolamento.
Massimo Galeotti, Infermiere MSF in Guinea


“Non ti faremo del male, siamo qui per curarti”
Mi chiamo Ernestina Repetto, sono un medico infettivologo, ho 33 anni e sono partita con Medici Senza Frontiere in Guinea a Gueckedou su un progetto Ebola.
La cosa più difficile per un medico che parte su una Missione Ebola è dover stravolgere completamente il normale rapporto che si ha tra medico e paziente. Perché ti devi proteggere, tu in prima persona, e quindi utilizzi dispositivi di protezione individuale (la tuta, la maschera, gli occhiali, il copri capelli, etc). Quindi i pazienti che visiti non hanno la possibilità di vederti, vedono solo i tuoi occhi e ascoltano la tua voce. È molto importante ogni volta che entri ripetere il tuo nome, il tuo cognome, dire chi sei, se sei un medico o se sei un infermiere, che sei lì per lui e che gli farai delle domande per sapere come va e se ha dei sintomi particolari e così via. Devi affidarti al tono della tua voce e basta.
Quando si entra in un Centro di Trattamento Ebola, la cosa che colpisce di più rispetto a un ospedale convenzionale è la presenza di barriere. Ogni settore è diviso dall’altro da doppie barriere con una distanza minima di due metri. Questo permette agli operatori sanitari e ai visitatori e parenti dei pazienti di avere una certa sicurezza, una distanza minima per evitare il contagio con i malati, anche in assenza di protezioni individuali. Chi non è ancora entrato nella zona ad alto rischio può stare al di fuori e vedere i propri cari e i propri parenti senza utilizzare la protezione.
Per un paziente che non ha alcuna nozione di protezione individuale, non sa come siano i guanti o le mascherine, vedere tre o quattro persone che si avvicinano come degli astronauti, fa molta paura quindi è molto importante prima di fare qualsiasi cosa con la protezione individuale spiegare a tutti il perché si utilizzano tali strumenti, che non siamo degli alieni ma siamo delle persone normali… e farsi vedere sia prima sia dopo. Da fuori dici: “Io entrerò, sono il tuo medico, mi vestirò con la tuta per proteggermi e non ti preoccupare non ti faremo niente di male, anzi siamo qui per te e per curarti”.
Ernestina Repetto, infettivologa MSF


In Sierra Leone tra i bambini di Gondama e l’emergenza Ebola

Con Barbara, Kathleen e altri parlo francese. Con Alejandra e Miguel spagnolo. Con Yuma ed Esther qualche parola di swhaili. Inglese tutto il giorno. La babele di lingue e la tastiera inglese non mi aiutano certo a scrivere qualcosa di buono in italiano. Mi chiamo Luca e da quasi due mesi mi trovo nel calore della Sierra Leone. Lavoro come esperto di potabilizzazione dell’acqua (watsan manager) tra l’ospedale pediatrico di Gondama, l’ufficio di Bo e la coordinazione di Freetown. Sono arrivato qui dopo quasi quattro anni tra Congo, Rwanda, Uganda e Perù. Ma ogni missione è unica e speciale. 
L’ospedale pediatrico a Gondama
L’ospedale pediatrico è un progetto di lunga data. Essendo nato come campo profughi non si trova a Bo, la seconda città del Paese, ma a Gondama, un piccolo villaggio a poche miglia dalla città. L’ospedale è a pochi passi dal centro, il mercato.
All’ingresso dei bassi reparti la vita ha la stessa intensità di sempre. Donne che lavano i vestiti dei bambini chiacchierando tra loro a voce alta, uomini seduti in cerchio discutono mangiando da un solo piatto, ragazze giovani con il viso invecchiato si scambiano favori pettinandosi a vicenda. Nonostante i rumori, le grida e i profumi si sente che qualcosa manca. Bambini.
I nostri 200 letti spesso non bastano. Tra i reparti abbiamo rubato spazio per le tende bianche. All’interno le voci restano basse. I pochi bambini che riescono a camminare non hanno ancora la forza per giocare. Restano vicini ai letti, spesso una mano ancorata al ferro bianco per non cadere. 
L’ospedale è l’ultima scelta. Prima c’è la vecchia del villaggio, nel caso abbiano qualche risparmio la curatrice, qualche erba, piccole incisioni sulla pelle per far uscire il male. Sono quasi dieci anni che siamo qui.
In dieci anni una goccia d’acqua può scavare una grotta. Forse le idee sono più dure ma il fatto non cambia. I bambini continuano ad arrivare tardi, spesso troppo tardi. Per fortuna anche la gente che lavora con noi è dura come le idee. Ogni giorno una lotta silenziosa, spesso lunga, a volte contro qualcosa che nemmeno riusciamo a definire. I risultati però arrivano. Li vediamo rincorrere una vecchia ruota tra i muri bianchi dei reparti, li sentiamo ridere e gridare con la voce cristallina che solo i bambini hanno. Momenti che riescono a ripagare tutti gli sforzi fatti, le frustrazioni e i capelli bianchi. 
Emergenza Ebola
Stavo quasi per trovare il mio equilibrio quando è arrivata la notizia. Un caso di Ebola confermato a Koindu. Un piccolo villaggio vicino al confine con la Guinea. Mi viene chiesto di partire con un logista e una dottoressa per valutare la situazione.
La voglia di dimostrare a me stesso di essere un professionista nella giusta organizzazione, la responsabilità che pesa su chi ha gli strumenti per intervenire, un tocco di curiosità e una buona dose d’incoscienza, come direbbe mia nonna, mi convincono ad accettare. Nel giro di poche ore la “filovirus haemorrhagic fever guideline” diventa la mia lettura preferita. Tutta l’esperienza di MSF, dei migliori esperti al mondo, racchiusa in 150 pagine e due soffici copertine rosse.
La stessa sera carichiamo tre macchine per il viaggio. Tutti in ufficio si muovono decisi, efficienti, pronti per sostenerci. Le macchine quasi scompaiono sotto il peso delle tende da campo, centinaia di scatole di medicinali, secchi di cloro e strumenti vari. Non sono ancora passate 12 ore dalla conferma del primo caso e noi siamo pronti. Un team per valutare la situazione e centinaia di articoli per sostenere i piccoli centri di salute coinvolti. 
Dopo quattro giorni di missione tutti quanti concordiamo che la situazione non potrà che peggiorare. I villaggi sono vicino al confine con la Guinea dove da marzo è in corso l’epidemia di Ebola. 
Scopriamo che la presenza del virus in Sierra Leone è dovuta a un funerale. Cosa abbastanza comune in questo genere di epidemie. Alla morte di una famosa guaritrice tradizionale molte donne hanno partecipato al funerale. Qui la tradizione vuole che il defunto venga lavato dai conoscenti dello stesso sesso e che venga commemorato con pianti, abbracciando il corpo. La famosa guaritrice era morta giusto dopo un viaggio in Guinea per assistere una paziente affetta da Ebola. Dagli abitanti dei villaggi veniamo a conoscenza dei nomi delle donne che hanno partecipato al funerale. E qui è iniziata la lotta per fermare l’epidemia. 
Luca, esperto MSF di potabilizzazione dell'acqua in Sierra Leone



                                                



ALICE SCIALOJA

Alice Scialoja

TRIVELLE   

La ricerca di greggio nel mare italiano secondo il presidente del consiglio Matteo Renzi è un elemento determinante per giocare un ruolo decisivo nel dibattito energetico internazionale. Opposto il parere di Legambiente che la ritiene, invece, una scelta energetica assurda e scellerata, un ennesimo regalo alle compagnie petrolifere.
A sostegno del proprio punto di vista l’associazione ambientalista cita i dati che il ministero dello Sviluppo economico pubblica annualmente sulle riserve certe di petrolio. Le quantità stimate sotto il mare italiano sono, infatti, di appena 10 milioni di tonnellate, e visto che il nostro consumo annuo è pari a 61 milioni, si esaurirebbero in soli due mesi. Considerando anche quelle presenti nel sottosuolo, si arriverebbe a 82 milioni di tonnellate di riserve certe, anche in questo caso però durerebbero per poco meno di 17 mesi. Numeri che, per Legambiente, sono più che sufficienti a dimostrare l’insensatezza della strategia che il governo si ostina a portare avanti. Senza contare che a richiedere permessi di ricerca e di estrazione sono per lo più compagnie straniere, e che le aree già interessate dalle attività petrolifere occupano una superficie marina di circa 24mila kmq.
Anche sul fronte dell’occupazione, secondo Legambiente il confronto non tiene: investire oggi in efficienza energetica e fonti rinnovabili porterebbe nei prossimi anni i nuovi occupati a 250 mila unità, cioè 6 volte di più di quello che si otterrebbe con le nuove trivellazioni.
“Invece di ragionare su come aumentare la produzione di petrolio nazionale, avremmo potuto mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili -dice il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza-  
Ad esempio utilizzando i 4 miliardi euro circa che ogni anno regaliamo al settore dell'autotrasporto, come avvenuto nell’ultimo decennio, per una mobilità nuova e più sostenibile. Di certo avremmo avuto riduzioni della bolletta petrolifera e delle importazioni di greggio ben maggiori e durature rispetto al contributo che possono dare le poche quantità presenti nei mari e nel sottosuolo italiano. Continuare a rilanciare l’estrazione di idrocarburi non ci garantisce nessun futuro energetico.
Se veramente si vuole rompere con il passato -prosegue Cogliati Dezza- e giocare un ruolo strategico nel dibattito energetico internazionale, il premier deve portare ben altri dati nel dibattito internazionale. Partendo, ad esempio, dai dati sulle fonti rinnovabili che con oltre 700 mila impianti hanno garantito un terzo dei consumi elettrici del Paese”.
Legambiente insiste sulla necessità di restituire voce e possibilità di scelta ai territori e alle popolazioni interessate dalle richieste di estrazioni avanzate dalle compagnie petrolifere. Tra le aree maggiormente colpite dalle trivelle ci sono il mare Adriatico (con 11.944 kmq interessati dalle attività delle compagnie petrolifere, tra cui 2 istanze di concessione, 17 di ricerca e 7 permessi già rilasciati per l’esplorazione dei fondali marini), il canale di Sicilia (dove da 5 piattaforme attive sono estratte 301.471 tonnellate di greggio, il 42% della produzione nazionale a mare, e vi sono 3 richieste di concessione e altre 10 istanze di ricerca), lo Ionio dove oggi non si estrae petrolio ma vi sono 16 richieste per la ricerca di greggio (per un’area complessiva di 10.311 kmq) nel Golfo di Taranto, un’area marina vietata alle attività di ricerca di petrolio fino al luglio 2011. Sono da aggiungere poi i 76419 kmq richiesti dalle società per avviare attività di prospezione, la prima fase di indagine per individuare le aree su cui poi eseguire ricerche più approfondite. Sette le richieste: 3 riguardano l’Adriatico, una lo Ionio, due il canale di  Sicilia e una il mar di Sardegna.
Non a caso la sicurezza delle estrazioni petrolifere off-shore è al centro dell’attenzione dell’Unione europea già dal 2010, dopo il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. La moltiplicazione di queste attività nel Mediterraneo aumenterebbe il rischio di inquinamento da idrocarburi; senza considerare l’impatto che le estrazioni possono avere sulla pesca. Intorno a una sorgente sonora che utilizza airgun, la tecnica geofisica di rilevazione di giacimenti nel sottofondo marino, la diminuzione del pescato può arrivare al 50%.
Ecco perché Legambiente ritiene che l’Italia debba giocare la sua capacità competitiva internazionale promuovendo politiche internazionali di tutela di tutto il mare Mediterraneo invece di seguire le scelte petrolifere di altri Paesi. E, per garantire l’indipendenza energetica al nostro Paese, debba spostare attenzione e risorse su rinnovabili, efficienza e risparmio.



GIORGIA MONTI



Giorgia Monti


GREENPEACE: NEL TONNO IN SCATOLA MOLTE PROMESSE
E TROPPI DOPPI STANDARD, POCHI I PASSI AVANTI VERSO
LA SOSTENIBILITÀ

ROMA. Dopo Italia, Austria, Inghilterra, Canada, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda, la “classifica rompiscatole” sulla sostenibilità delle scatolette di tonno di Greenpeace arriva anche in Francia, dove molti dei produttori più importanti sono compagnie ben note anche sul nostro mercato. Purtroppo –nonostante le promesse fatte – il mercato francese evidenzia come l’industria si sia mossa ben poco, e come siano ancora troppi i doppi standard. C’è tanta strada da fare perché si abbandoni una pesca eccessiva e distruttiva che sta svuotando i nostri mari.
Agli ultimi posti della classifica francese Petit Navire, marchio del colosso MWB, che possiede nel Regno Unito il marchio John West e in Italia Mareblu. Colosso anche nei doppi standard! Mentre in Italia e nel Regno Unito si era impegnato negli scorsi anni ad avere entro il 2016 nel cento per cento dei propri prodotti tonno sostenibile, scopriamo che in Francia non vi è ombra di tale impegno, e alcune delle flotte da cui arriva il tonno sono state coinvolte in episodi di pesca illegale.
Da quanto abbiamo potuto vedere – grazie a un’indagine svolta dai nostri volontari sei mesi fa nei supermercati italiani – anche Mareblu non sta facendo abbastanza: la maggior parte del tonno continua a essere tonno pescato con reti a circuizione, senza alcuna garanzia che non vengano usati dei sistemi di aggregazione per pesci (FAD) che causano la cattura accessoria di squali, tartarughe e balene. Meno del 4 per cento dei prodotti esaminati indica in modo chiaro che il tonno è stato pescato “a canna”, uno dei metodi con minor impatto ambientale.
Non brilla neanche Bolton Alimentari, colosso italiano del tonno in scatola, proprietario del marchio Riomare. L’azienda aveva promesso di avere entro il 2013 solo tonno sostenibile pescato a canna o senza FAD nel 45 per cento  dei propri prodotti, ma in Francia non ha rispettato tale impegno e il suo marchio Saupiquet, il cui tonno è catturato con metodi di pesca distruttivi, scende nella classifica francese al settimo posto. Purtroppo la nostra indagine nei supermercati ci fa dubitare che in Italia la situazione sia tanto diversa: solo il 6 per cento dei prodotti Riomare trovati nei nostri supermercati conteneva tonno pescato a canna. Se questa è la “qualità responsabile” di Bolton si conferma il nostro timore che un impegno poco chiaro, come quello preso sul cento per cento della propria produzione per il 2017, possa portare ben poco tonno sostenibile nelle loro scatolette.
“Le aziende devono dimostrare di mettere in pratica le loro promesse, e di farlo allo stesso modo nei diversi Paesi. Greenpeace controlla con attenzione il loro comportamento e non permette che i consumatori siano presi in giro” afferma Giorgia Monti, responsabile della campagna mare di Greenpeeace Italia.
Le grandi aziende del tonno non sono le sole ad applicare due pesi e due misure. Nella classifica francese troviamo il tonno di due supermercati francesi, Carrefour e Auchan, leader nella distribuzione anche nel nostro paese. Al terzo e quarto posto nella classifica di Greenpeace Francia, perché il 10 per cento del tonno che finisce nelle loro scatolette è pescato a canna, peccato che di questi prodotti sostenibili non se ne trovi neanche uno in Italia. Carrefour si è impegnata a rinnovare la propria politica di acquisti nei prossimi mesi: speriamo che adotti precisi criteri di sostenibilità, e che valgano per tutti i mercati in cui è presente.
“I nostri oceani sono in crisi, e la maggior parte delle risorse di tonno oggetto di una pesca eccessiva e indiscriminata. Aziende leader del mercato mondiale, come MWB, Bolton, Carrefour o Auchan hanno la responsabilità di esserlo anche nel garantire la sostenibilità dei loro prodotti. Solo se riusciremo a cambiare la domanda che viene da Paesi forti consumatori di tonno, come la Francia e l’Italia, potremmo generare un vero cambiamento nelle flotte che operano in mare. Senza tonno non c’è futuro, n’è per i nostri oceani né per queste aziende”, conclude Monti.

Greenpeace Italia

                                         



ANGELO GACCIONE


Angelo Gaccione

LA PRATICA MERITORIA DEL DONO

Come quasi tutti i più significativi e monumentali edifici storici di Bergamo, anche il magnifico convento di San Francesco, si trova in quello che davvero rappresenta, per la quantità e la qualità dei manufatti architettonici, un incredibile e ricchissimo museo all’aperto: Città Alta. Vi viene incontro percorrendo piazza Mercato del Fieno. Entrando l’effetto è spettacolare, almeno per me, che sono da sempre perdutamente innamorato dell’armonia dei chiostri medievali e del sereno silenzio che evocano e custodiscono. Per la loro geometria perfetta, le file di colonne, i capitelli fantasiosi, gli archi, il pozzo per l’acqua piovana, gli aromi delle piante officinali quasi sempre abbondanti, e per quel riquadro di cielo che li sovrasta. Due grandi chiostri -addirittura- vi accolgono in San Francesco: uno detto delle arche (ve ne sono diciannove e servivano per accogliervi le spoglie mortali dei membri di famiglie facoltose della città); un secondo detto del pozzo, per una ragione che non è difficile indovinare, e che guarda verso il profilo delle Orobie.    San Francesco è, da qualche tempo, un ex monastero, perché vi ha sede il Museo Storico della città. Come tutti i musei accoglie, preserva e mostra. Quella dell’accoglienza è una pratica meritoria: evita la dispersione di beni privati -spesso in pericolo se gli eredi sono diversi-, offre un luogo di custodia a tali beni, li cataloga, li mette a disposizione degli studiosi e della collettività. Doppiamente meritoria è la pratica generosa e consapevole della donazione: del donatore disinteressato, di chi dona senza nulla chiedere in cambio, senza risarcimento, mosso solo dal desiderio della condivisione, di giovare alla propria città e alla sua crescita civile, all’arricchimento del patrimonio pubblico, al piacere che la fruizione del suo dono elargirà ai suoi compatrioti, alla civiltà umana nel suo insieme, e a lui stesso, appagato dalla gioia profonda della propria munificenza.


Bergamo. Chiostro di San Francesco


Trovo che vi sia qualcosa di sublimemente nobile nel donare. È un gesto che fa di un uomo un vero uomo, lo umanizza alla massima potenza. Egli non si spoglia con quel gesto, al contrario si arricchisce, perché ciò che egli ha donato (beni materiali e beni spirituali) ritorna in cultura, in civiltà, in umanizzazione, perché la loro diffusione, la diffusione cioè di conoscenze che la sua donazione produce, allargandosi dal singolo uomo alla collettività, è foriera di notevoli progressi e arricchimenti. Ogni arricchimento immateriale, cioè intellettuale, ha una ricaduta concreta, oggettiva, ed innesca un circolo virtuoso di cui beneficerà la civiltà nel suo complesso. Dunque anche il donatore e i suoi diretti discendenti.

Alle donazioni, il Museo Storico di Bergamo ha dedicato uno spazio e lo ha chiamato “Chambre des dons” (Sala dei doni). Non capisco francamente perché ricorrere al francese, dal momento che il termine dono deriva dal latino donum, e con il suo suono pieno, rotondo, la lingua italiana lo rende mille volte meglio. A parte ciò, mi pare un’intuizione felicissima: in quella Sala le donazioni ricevute vengono mensilmente esposte, storicamente contestualizzate e si dà ragione della loro provenienza e delle motivazioni del donatore. Ogni appassionato ne potrà fruire nel corso del tempo e la donazione rimarrà un corpo vivo in grado di parlare ai posteri.


                                                  

CARLO ROVELLI

Carlo Rovelli

PERCHÉ SONO ATEO

Dio è amore.  Io credo all'amore e lo cerco.  L'amore che dà senso alla nostra vita. L’amore che trascina il mondo.  Senza bisogno di aggiungerci Dio.  Dio è comunione. Io cerco la comunione con i miei simili, perché è l'acqua che disseta la vita e ci porta a casa.  Ma c'è comunione anche fra chi non conosce Dio.                                            
Dio è giustizia.  Io voglio stare dalla parte della giustizia, del perseguitato, voglio oppormi all'ingiustizia ogni volta che la vedo, sempre e comunque.  E, come molti che credono profondamente alla giustizia, non ho bisogno di aggiungerci Dio.
Dio è mistero.  Io vedo il mistero, lo percepisco nella disciplina che studio, in tutto quello che imparo, di cui vedo i limiti ogni momento. Sento lo sconfinato misero che è l'Universo.  Ma vedo il Mistero, non vedo nessun Dio.
Dio è preghiera.  Io ho bisogno di chiudere i miei occhi, entrare dentro di me. Cercare il silenzio. Esprimere il canto del mio cuore. La mia tristezza, la mia gratitudine. La mia sete, la mia solitudine.  Faccio tutto questo, ma non capisco cosa tutto questo c'entri con un Dio.
Dio è il creatore del mondo.  Io non lo so chi ha creato il mondo.  Ma pensare che lo abbia creato Dio non mi aiuta capirlo neppure di una virgola.  Chi ha creato Dio?  Se Dio non è mai stato creato, o si è creato da solo, o ha creato il tempo, perché il mondo senza Dio non avrebbe potuto fare a stessa cosa?  Io so che ci sono molte cose che non so. So che ci sono infinite cose che non so. Perché non accettare la mia ignoranza, invece di raccontarmi favole per difendermi dalla paura del non sapere?
Dio è indicibile.  Se è così, perché vi affannate a volerlo dire?

Carlo Rovelli
Vivere come Dio esistesse conviene, diceva Pascal.  Può darsi, ma io ai calcoli di convenienza preferisco l'onestà.  Conviene anche vivere come se la morte non venisse. Ma preferisco guardare in faccia il mio destino, la morte che viene.  Non raccontarmi favole consolatorie sulla vita dopo la morte.
Amo le favole. Mi piace raccontarle e ascoltarle. Ma mi piace anche sorridere e riconoscere le favole come favole. 
Dio ha ispirato produzioni meravigliose, Bach, Dante, Piero della Francesca, Michelangelo, e forse anche Newton.  Io amo Bach, Dante, Piero della Francesca, Michelangelo, e Newton.  Amo anche Lucrezio, i poeti cinesi, i poeti Zen, e Majakovskij, e Brecht, che vivevano senza Dio.  Dovrei forse mettermi ad adorare Zeus e Atena perché mi commuove Omero?  Devo aderire alla schiavitù solo perché Saffo e Alceo la sentivano legittima, e permetteva loro di scrivere versi immortali? Gli esseri umani producono meraviglie, ispirate dai loro pensieri e dalla loro visione del mondo, ma non per questo voglio aderire alla visione del mondo di coloro che hanno prodotto capolavori.
Noi uomini abbiamo bisogno di riti, per riconoscerci, per ritrovarci, come gruppi e come singoli, per segnare il tempo regolare del mondo e gli eventi importanti della vita. Celebriamo i nostri riti, piangiamo insieme il dolore dei nostri morti. Festeggiamo insieme la gioia dei nostri sposalizi. Perché abbiamo bisogno di un dio per questo? Ho assistito a funerali di atei più intensi e veri, e a matrimoni di atei più emozionanti e sentiti, che non quelli in chiese fredde e rimbombanti.

Carlo Rovelli a destra, al centro della foto Carlo Rubbia

Dio è la garanzia su cui si fondano i valori antichi. E i valori fondano la nostra vita sociale. Ma i valori antichi comprendevano la sottomissione della donna, la legittimità della schiavitù, la sacralità dei regnanti, l'intolleranza verso gli ebrei. Tutti valori difesi a spada tratta da coloro che difendevano Dio.  Io voglio avere valori. Valori forti. Valori che guidano la mia vita. Ma i valori che voglio sono quelli che sanno cambiare, non quelli dei miei antenati, che avevano schiavi, sottomettevano le donne e si prostravano davanti al re e al feudatario.  I valori che vanno difesi non sono i valori antichi.  Sono i valori che costruiamo insieme, che guidano la nostra vita: giustizia, eguaglianza, amore, bellezza.  E soprattutto verità.  L'amore per la verità. Che è quello che ci frena dal lasciarci andare alle favole facili e consolatorie.
La civiltà umana è cresciuta intorno all'idea degli dèi, molti dèi, o un solo Dio.  Gli dèi sono stati il centro del pensare umano per secoli. È bello studiare come questo sia avvenuto, come la religione abbia partecipato al farsi dell'umanità.  Poi l'umanità cambia.  Lentamente, ma cambia.  Piano piano siamo guariti da molte illusioni e superstizioni. Chi crede in Dio oggi sorride delle credenze religiose sciocche dei suoi antenati.  Non vede che molti sorridono nello stesso modo delle sue?
Dio è l'assoluto.  Dio è quell'assoluto che è assoluta certezza verso cui il nostro cuore sente di anelare.
Dio è il punto fermo a cui ancorare il tutto.  Ma è il punto fermo attorno a cui esiste il mondo, oppure un'illusione che ci costruiamo perché siamo spaventati dalla provvisorietà di quanto c'è attorno a noi?  Dal nostro non sapere trovare un’àncora?  Quell'àncora a cui ancorare le nostre certezze non c’è.  Inventarne una e darle un nome non mi piace. Un palo colorato con teste di animali nel centro del villaggio, o un Dio trascendente da adorare nel profondo del nostro cuore: in ogni caso è una scappatoia che ci costruiamo, spaventati dal nostro non sapere e dal vuoto.  La sete non prova che c’è acqua accanto noi. 

Carlo Rovelli
Rispetto chi crede in Dio. Non sono io scagliare pietre contro chi vede il mondo diverso da come lo vedono i miei occhi. E neppure chi preferisce raccontarsi favole piuttosto che accettare l'incomprensibilità del mondo.  Ma preferisco accettare la mia ignoranza, invece che credere alle favole che ci hanno trasmesso i nostri padri, che non sapevano più di noi. Sapevano poco: sapevano perfino meno di noi.  Accettare l'ignoranza e il mistero intorno a noi, invece di riempirlo di favole, mi sembra la strada più vera, più bella, ma soprattutto la strada più onesta.





ROBERTO CICALA

 
Roberto Cicala



Se “le fiabe sono vere”: ricordo di Roberto Denti

«Le fiabe sono vere»: sembra ieri che Roberto Denti rilegge al telefono queste parole proponendo il titolo di un libro che vorrebbe prima o poi scrivere. Le cita dall’introduzione alle Fiabe italiane di Italo Calvino perché crede proprio alla verità delle fiabe, che «prese tutte insieme, nelle loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, sono una spiegazione generale della vita» (il libro è uscito poi nel primo anniversario della scomparsa del primo libraio italiano per ragazzi, ndr).
Con lui parlare di libri vecchi e nuovi è sempre l’occasione per meditare sulle uscite editoriali e sulla cronaca dei giornali, spesso partendo dalle parole vecchie e nuove incontrate in quelle stesse pagine. «Dentimarci, sgoff, bussolano» sono per esempio tre termini che lui ricorda perché, pur strani, gli dimostrano il potere delle parole nella vita: si tratta del suo cognome storpiato per sfottò alle elementari, dei calzoni alla zuava in dialetto cremonese che la nonna gli imponeva e del dolce locale comprato coi soldi rubati ma alla fine facendosi scoprire. Sono tre parole che rinviano agli anni in cui un bambino occhialuto che non va d' accordo con la pronuncia della "r" scopre il fascino delle storie cui resta legato fino all’età adulta, da partigiano, da giornalista e poi da libraio e autore di molti libri. Da piccolo tra le fiabe preferisce Il gatto con gli stivali e come compagno d'avventure Sandokan e si sbizzarrisce con la fantasia tanto da sognare la fuga: la tenta davvero quand’è ragazzo arrivando in treno a Genova per lavorare come mozzo in una nave (non di pirati): ma due giorni dopo viene ripescato dalla polizia, con un rientro a casa sconsolato: «Tutto era uguale a prima. Una cosa soltanto mi colpì subito: nello scaffale della libreria erano scomparsi tutti i libri di Salgari!» Eppure quei libri gli cambiano la vita in chiave positiva: così il Robertino «occhialina, quattr'occhi in vetrina», che tra i banchi di scuola i compagni canzonano, anche ultraottantenne continua a divertirsi moltissimo con le parole e la letteratura.

Roberto Denti


Conoscendo bene l'arte dei cantastorie, Denti parla sempre con stile colloquiale a grandi e piccoli nell’idea che la cultura dev’essere utile, alla portata di tutti, proprio come avviene con le fiabe. Gliel’ha insegnato un amico degli anni giornalistici giovanili a Milano, Gianni Rodari, secondo cui il verbo “leggere” non va mai declinato all’imperativo (concetto poi ripreso da Daniel Pennac) perché «l’amore per la lettura non è una tecnica, è qualcosa di più interiore legato alla vita». Nell’attenzione sociale e nell’interesse per le ricadute sull’attualità sta l’eredità e l’importanza della sua riflessione sul genere della «fabula»: ne indaga le origini storiche come «strada sotterranea e segreta che aiuta a superare le drammatiche difficoltà quotidiane». Così ci aiuta a ricordare che «le fiabe sono vere» e per questo la sua voce sarà sempre con noi, come quella cantilena dei Tatari della Siberia da lui scelta a esergo del libro-testamento e che non riusciamo a ripetere senza una vena di commozione, come quando ce l’ha letta la prima volta al telefono: «Tre mele caddero dal cielo dorato: / una per chi la favola ha domandato / una per chi la favola ha narrato/una per chi la favola ha ascoltato». Grazie, Roberto, insegnaci ancora a leggere…
   

                                       


VINCENZO GUARRACINO


Vincenzo Guarracino

IL TEMPO DEL NORD
RILEGGENDO IL DISCORSO LEOPARDIANO “SOPRA I COSTUMI DEGL’ITALIANI

Gli Italiani, qualunque sia la classe di appartenenza, alle “classi superiori” non meno che al “popolaccio”, sono oggi i più cinici del mondo: "ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione".
Privi di amor proprio e di orgoglio nazionale, "passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue", presi a combattersi l’un l’altro, in una sorta di bellum omnium contra omnes: questo perché ognuno, trincerato nel suo individualismo, per non essere travolto e oppresso, deve imparare a difendersi e combattere.
Cinismo, disprezzo, indifferenza, superficialità, inettitudine, dissimulazione: qualità, queste ed altre, da “paese senza”, non di un popolo che voglia essere “nazione” o “patria”, conseguenze della mancanza di una "società stretta", di “un commercio più intimo degl’individui fra loro” e della carenza di ogni spinta ideale e di un’etica civile capace di legare l’individuo alla collettività, sottraendolo al rischio della “misantropia” e alla coltivazione del suo “pestifero” particulare di guicciardiniana memoria.
È Leopardi a dire questo ed è bene non sottovalutarlo: tanto più sapendo che proprio nel ’24, l’anno del Discorso sopra i costumi degl’Italiani (“acutissimo, tumultuoso e spesso paradossale”, l’ha definito Walter Binni), da cui il giudizio è estrapolato, è immerso, da “Eremita degli Appennini”, tra Operette morali e Zibaldone, nel perseguimento di una sua essenziale battaglia di verità, condotta per via fantastica e insieme riflessiva; e che il deserto e la “ruina immensa” del mondo circostante, la vita come desolante “serraglio di disperati” (come lo definirà nel Frammento sul suicidio, 1832), si applica eroicamente ad esplorarli ed esorcizzarli attraverso una scrittura, di volta in volta analitica ed appassionata, gelida e tagliente ma anche calda ed effusiva, incurante di abbellimenti e “cerimonie”, per corrispondere solo ai moti del “sentimento”.
Una battaglia di “verità”, un impegno di “civiltà”, per un “risorgimento” dalla “barbarie”, per contrastare “ragione geometrica”, “cinismo”, “strage delle illusioni”, con le armi di una corrosiva lucidità: davvero un “angelo” dalla spada sguainata, il Leopardi del Discorso, “chiuso nella sua corazza” di intelligenza, come lo vedrà Walter Benjamin in una celebre pagina sui Pensieri.
Attraverso una diagnosi impietosa, condotta con "la libertà e sincerità con cui ne potrebbe scrivere uno straniero", “senz’animosità” e al tempo stesso appassionata: costruttivo, insomma, sorretto dall’ansia di “ravvivare” quell’essenziale “amore verso la patria”, da cui hanno principio “probità e nobiltà” di un popolo degno di questo nome, come dichiara nella Prefazione alle Dieci Canzoni dello stesso anno: una cosa nuova e imprevedibile rispetto a ciò che emergeva da tanti testi in prosa e in versi degli anni precedenti, governati da uno sdegno tra patetico e velleitario dinanzi al “secol di fango” e alla “mediocrità” dei contemporanei, a testimonianza della mobilità dell’orizzonte teorico e morale, tutto in progress, “al presente”, dello scrittore.
Lucido e impietoso, disincantato, il ritratto che ne emerge degli Italiani, nel progressivo crepuscolo di ogni illusione e grandezza, con sullo sfondo le “altre nazioni” europee con “più vita” e con “più società” rispetto all’Italia, istituendo con esse una sorta di confronto-scontro antropologico.
Lucidamente polemico, ma non da non lasciare intravedere dietro la diagnosi dura e spassionata, assieme a una nostalgia di verginità, un lievito diverso, una sollecitudine drammaticamente moderna per la “patria infelice”, proprio mentre si sofferma sgomento di fronte alla “strage delle illusioni”, destinata a riecheggiare lividamente nel “silenzio nudo” del coevo Cantico del gallo silvestre, metafora assoluta dell’”arcano mirabile e spaventoso” dell’esistenza ma anche emblema del deserto morale e culturale dell’Italia.
Un deserto senza consolazione, un “secol morto”, un “secol di fango” oppresso da una greve “nebbia di tedio”, da inguaribile “mediocrità” (Ad Angelo Mai, 1820), davvero: di questa Italia forse davvero è meglio “ridersi” come fanno gl’Italiani, senza bisogno di addentrarsi oltre nell’esegesi leopardiana.
A meno di non soffermarsi su un punto, conclusivo ma non marginale, del Discorso.
Mi riferisco al passaggio dove l’anomalia dell’Italia rispetto ad altri paesi, quelli virtuosi della “rinata civiltà” (Inghilterra e Germania), viene segnalata in termini che rivelano una loro intrigante attualità.
Oggi, dice, “sembra che il tempo del settentrione sia venuto”: come sottrarsi a una sensazione nuova di fronte a questo fantasma della “modernità”, che da qui aleggia e si protende sulla storia, disegnando una sorta di diagramma dell’ineluttabile marcia della civiltà dal Meridione ai paesi del nord dell’Europa, come in una sorta di materialismo dialettico, in nome della “superiorità della loro immaginazione?”
C’è un che di oggettivo e insieme di profetico in questa affermazione. Il rilievo assegnato a un Nord “civile” che sopravanza gli altri paesi, con l’Italia confinata nel confronto in condizioni di oggettiva inferiorità civile non meno che culturale, è l’elevazione del tema della “modernità” a dato necessario oltre ogni negatività.
È in questo che risiede la vera novità, la parte teoricamente più originale del Discorso e l’attualità di questo Leopardi: nella scommessa sulla “modernità”, un fatto che ha i tratti della necessità di una nuova eticità, di una nuova “scienza dell’uomo”, intesa come nuovo modo di porsi di fronte alla vita con la consapevolezza della piccolezza e finitudine umana e insieme l’esigenza di un modo diverso di stare insieme con gli altri esseri, che sembra essere prerogativa dei popoli giovani del Nord che posseggono quanto è necessario per inaugurare una “rigenerazione” civile e morale (“le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura”, Zib.115).
Oltre “la strage delle illusioni”, oltre il riso illividito di Bruto (un “ridere” per esorcizzare rovine e l’“infinita vanità del tutto”), Leopardi si protende, già “erta la fronte” e “renitente al fato”, nel presagio di nuove consapevolezze ed urgenze sentimentali ed etiche. 


FILIPPO GALLIPOLI

Filippo Gallipoli
STANZE PERDUTE STANZE INACCESSIBILI 

Ci sono stanze nelle quali avete abitato, sostato, vissuto -in un tempo indefinibile- e che inevitabilmente, avete perduto. Con esse avete perduto città, amori, legami, sensazioni. Quelle stanze sono ora un ricordo lontano, polvere, silenzio e buio.
Potete visitarle solo in sogno.
Se fosse possibile tornare in quei luoghi non li riconoscereste perché non vi appartengono più. Quelle stanze sono di altri  -estranee- .

Filippo Gallipoli "Stanze perdute, stanze inaccessibili (acrilico)

Non erano anguste, ma ampie e vuote con pochi essenziali mobili. Eppure le avete amate, riempite del vostro amore, della vostra disperazione, del vostro sentire, delle vostre speranze e illusioni. Non tornereste mai più in quelle stanze e, del resto, nessuno vorrebbe condividerle con voi. Sono ormai penosamente mutate. Il tempo le ha rese perdute e inaccessibili.
Raggomitolato in qualche angolo buio di quelle stanze -o della vostra memoria?-
In momenti di raro e assoluto silenzio, si può ancora avvertire come un lieve ansimare.
Quelle stanze, che sapevano ascoltare, hanno racchiuso in esse il vostro respiro -per sempre-.

(Viterbo 30 giugno 2004)

***

Filippo Gallipoli


PIERO LOTITO

Piero Lotito
Il cercatore di pesci fossili

Spaccò la pietra e trovò un pesce fossile. Il pesce fu come attraversato da una scarica elettrica, e cominciò a gonfiarsi e a muovere gli occhi e la coda. Poi fece un salto e rotolò per terra. E là rimase, stupefatto e dunque nuovamente fossile. L’uomo gettò la pietra e batté le mani per scuotere la polvere. Poi cercò una sigaretta e accese. Fissò il pesce, finito fra altre pietre, forse materne anch’esse, e si mise a pensare.
Passò in alto, molto in alto, un aereo supersonico. Come i ragni e le lumache, così l’apparecchio si tirava dietro una sottilissima bava che subito tagliò in due il fondale azzurro.
Il cercatore di pesci fossili aveva una strana storia. Metà uomo e metà pesce egli stesso, riusciva a nascondere la sua seconda qualità portando larghi abiti e mai scoprendosi in pubblico. Come tegole ben disposte, squame iridescenti gli ricoprivano il corpo. Una pinna, pieghevole come un ventaglio, gli segnava il dorso, dalla nuca ai glutei. Per questo egli fuggiva le spiagge e il mare, e ogni volta che una donna gli passava la mano sopra la spalla, la respingeva e fuggiva. Uomini così si nascondono anche nei sotterranei della metropolitana e nei cinema all’ultimo spettacolo, quando è facile che qualche torace venga scoperto perché le squame prendano aria.
Allora, quel giorno. E quel pesce.
Perché era di colpo ritornato alla morte? Il cercatore gettò il mozzicone e camminò attorno al fossile. Pensò che mai sarebbe riuscito a risolvere il problema della propria duplice qualità. Quale parte di sé sarebbe tornata a nascere? E quale sarebbe di nuovo morta?



Piero Lotito

Una lucertola con la coda mozzata, luminescente e nervosa, gli passò tra i piedi. Egli alzò lo sguardo e vide nuvole bianchissime che calavano a farsi pungere da sventolanti eucalipti.
Raccolse il pesce, lungamente lo soppesò, e poi fece tre giri su se stesso, come usano i discoboli. Il fossile fu gettato in aria con la violenza dei missili. Salì dritto e infine, quasi fermandosi, cominciò a cadere. Lo afferrò al volo un cormorano, scagliato in caccia da un soprassalto di vita. Ma subito il fossile -troppo duro, pensiamo- fu lasciato cadere. Ora fragilissimo, brillando al sole, piombò fra gli eucalipti e si frantumò al suolo. Fu come la rovina di un cristallo.
Il cercatore di pesci fossili puntò il luogo dell’impatto e vide aprirsi una nuvola di luccicanti, infinitesimi frammenti. Per lo stupore, rifece col fischio il sibilo di quel proietto e poi si strappò le vesti, scoprendo le squame. Pochi momenti così, immobile, e si allungò per terra a cogliere anch’egli qualcosa del sole.
Lo colpirono raggi intermittenti e rossastri. Poi, qualcuno accese un arco voltaico tra cielo e terra. E in un lampo -una luce di inimmaginabile candore- la mutazione avvenne. La sabbia assalì il corpo, e quell’uomo finalmente apparve quel che era: un cercatore di pesci fossili ormai fossile.

 


GIOVANNA ROSADINI

Giovanna Rosadini













Inedito 
Let me be faithful to the central meanings:

I.
Saremo sempre profili in controluce
incisi sulla linea d’orizzonte, sospesi
al blu fondo e salino che regna d’estate
nel tempo senza tempo di ogni infanzia

II.
Saremo sempre quell’eco di passi
nella nebbia che stinge le calli,
Venezia culla d’acqua
in cui nuotiamo in attesa
del mondo che verrà,
pesci pilota che smossi
si cercano e si sono trovati

III.
Saremo sempre in quel tondo di luna
magrittiana appeso sopra i tetti di Milano, 
a respirare l’aria leggera della sera mentre
fa scuro, e l’ultimo cielo si colora di presagi

IV.
Saremo sempre l'intuizione
dentro lo sguardo colto
al primo incontro, aver visto
nell'altro il fermo immagine
che il tempo non intacca,
la forma di un'infanzia


che dura e non si stacca





ELIO VELTRI

Elio Veltri




















L'EVASIONE FISCALE IMPERVERSA MA RENZI 
NON VEDE, NON SENTE E NON PARLA

Nel suo capolavoro “Dei delitti e delle pene”, il libro che più di qualunque altro ha influenzato la cultura civile e giuridica del l700 e dei secoli successivi in Europa e nel resto del mondo, Cesare Beccaria scrive che “l'unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione”. Il più grande danno che alcuni milioni di cittadini fanno a questo nostro paese è l'evasione fiscale: 200 miliardi di euro sottratti alle casse dello Stato, che è a un tempo un furto e una rapina. Essa va di pari passo con la corruzione diffusa e la criminalità organizzata e ne costituisce l'altra faccia della medaglia. Dopo due secoli e mezzo, Papa Francesco, che per personalità, missione, cultura non potrebbe essere più distante dal Gran Lombardo, di fronte a 500 parlamentari e uomini di governo, ha affermato:
“Io perdono i peccatori. I corrotti no”. E quindi, gli evasori e i collusi con le mafie, No. Neanche se fanno la comunione tutti i giorni.
 La guardia di finanza calcola che l'evasione da esportazione illecita di capitali equivale al 29% del totale dell'evasione del paese. Quindi, ogni anno da 60 a 70 miliardi di euro sottratti allo Stato, volano verso la Svizzera, il Lussemburgo,  paradiso fiscale governato per venti anni dal neo-presidente della Commissione Europea, e verso altri paradisi fiscali. L'Europa con ossessione quotidiana reclama dai paesi membri riforme di struttura, ma non fa quelle necessarie per affrontare il problema dell'enorme differenza dei sistemi fiscali, dell'evasione e dell'esportazione illegale di capitali, risolvibile solo con la omogenizzazione dei sistemi fiscali dei paesi membri e la lotta senza quartiere ai paradisi fiscali, fino all'adozione di embarghi finanziari e alla chiusura di quelli che sono collocati sul suolo europeo. Il governo non se ne occupa e tace e così fanno in Parlamento maggioranza e opposizione. Tutti zitti perché gli evasori votano, sono circa 15 milioni e nessuno vuole rinunciare ai loro voti. Ma qui stiamo parlando dei grandi evasori annidati nell'economia sommersa e criminale, pari a 600 miliardi di PIL, che non sono certo milioni e trafficano indisturbati. Lo Stato riesce a snidarli con difficoltà, ma anche quando ci riesce, non è capace o non vuole farsi pagare. Qualche dato fa capire meglio la situazione. Il governo Letta, rispondendo a due “question time”, aveva informato il Parlamento che dal 2000 al 2012 su 807 miliardi di tasse   accertate e messe a ruolo, lo Stato aveva incassato 69 miliardi pari a 9 euro su 100. Oltre 100 miliardi non erano esigibili per fallimenti vari e considerati altri impedimenti lo Stato rimaneva creditore di 540 miliardi di euro. Ma ministri, burocrati e Agenzia delle entrate hanno lasciato capire che quei soldi lo Stato non li incasserà mai. Questo perché, normalmente, a fine contenzioso incassa il 3-5% di quanto dovrebbe. In qualsiasi paese europeo e negli Stati Uniti un governo che si comportasse allo stesso modo dovrebbe dimettersi. In Italia non succede nulla perché non si riesce nemmeno a parlarne seriamente. Se si esclude Report di Milena Gabanelli, la televisione ignora il problema. Eppure i debitori con debiti maggiori di 500 mila euro valgono il 40% delle riscossioni complessive. Quindi non stiamo parlando del bar sotto casa e nemmeno di imprese familiari. Altro dato: chi deve al fisco più di 50 mila euro rappresenta circa il 3% delle rateizzazioni ma il 53% degli importi da incassare mentre i piccoli debiti fino a 5000 euro rappresentano l'11,3% dei debiti complessivi delle  rateizzazioni in corso, pari a 25,5 miliardi.  I dati confermano che facendo pagare le tasse ai grandi e medi evasori si possono trovare i soldi da investire in scuola, ricerca, innovazione e servizi pubblici essenziali.
Una politica che ricava le risorse per mandare avanti il paese quasi esclusivamente dai redditi fissi sovverte anche i pilastri della democrazia liberale e la sua regola centenaria: “No representation without taxation”. Invece, soprattutto i grandi evasori sono rappresentati e come!                          
Ma anche quelle dell'etica pubblica e della decenza, quando include nel PIL i proventi del traffico di droga, della prostituzione della tratta degli esseri umani, del contrabbando. Questa è anche una vergogna europea. Il che non dovrebbe consolarci.


 


 SERGIO AZZOLARI

 
Sergio Azzolari



















RISIKO 1435

Questo è un gioco, e come tutti i giochi, prende qualcosa dal reale e lo adatta imponendo alcune regole. Il gioco proposto è di tipo mentale. Una via di mezzo tra un calembour e un Risiko spazio temporale.
Dispieghiamo la mappa. Gravitiamo intorno al 1435 secolo più, secolo meno. L'ultima crociata, l'ottava o la nona, secondo lo storico che le conta, si è conclusa da poco con un nulla di fatto per i cristianissimi sovrani e l'agognata Gerusalemme è rimasta in mani infedeli.
In questo Risiko alcuni eventi sono collocati in Boemia e Moravia. Qui gli ussiti sono divisi in utraquisti e taboriti e si massacrano nella battaglia di Lipany. In gioco questioni fondamentali come la somministrazione dell'eucarestia sotto le due specie farinacea e vinicola. 
Nell'Europa occidentale, qualche anno prima a Rouen la pulzella Jehanne eretica per gli inglesi e santa per gli altri, viene arrostita. Per cent'anni tra tregue ed armistizi in questa area del nostro  Risiko si tagliano teste e si sbudellano inglesi, bretoni, portoghesi e navarresi da una parte e francesi, castigliani, scozzesi, genovesi, boemi, dall'altra. 
Cento anni dopo, Lutero, disquisendo sulla Grazia disgiunta dalle Opere e inveendo contro la simonia dà la stura ai movimenti scismatici così che tutti, papisti in testa, coopereranno per i secoli a venire a rifornire i cimiteri di tutta Europa mantenendo, in modo discutibile, l'incremento demografico. E in questo bailamme di confessioni, gli ebrei sefarditi o aschenaziti che siano, continueranno ad essere relegati nei ghetti e additati al pubblico ludibrio come il popolo deicida.
Le conseguenze, anche di rivincita, sono ben note.
Nel 1492 poi, la mappa del nostro Risiko si amplia ma le streghe continueranno ad essere bruciate ad ogni latitudine e indios e indiani decimati a sud come a nord. Certo, le ideologie religiose si mescolano e si confondono con altri interessi, come sempre, come ora.
Ma torniamo al punto di partenza, il 1435.
Il 1435 è l'attuale anno secondo il calendario mussulmano.
Sunniti, sciiti, yazidi, jihadisti, mosadisti e via elencando, nel nostro gioco sono gli attuali calvinisti, anglicani, ugonotti, ortodossi, evangelici, luterani, dolciniani. Anche questo elenco è lungo.
In qualche modo l'occidente-occidente nei seicento anni che lo separano dal 1435 è riuscito solo da pochissimo (potremmo indicare il 1945 come esile e discutibile spartiacque) a trovare forme di convivenza e di tolleranza religiosa, ma non razziale e politica. Nel calendario della storia, solo da ieri mattina l'occidente e la cristianità hanno iniziato a invocare la pace e a non benedire bandiere e cannoni. L'occidente si accontenta di costruirli e venderli o a partecipare agli utili.
Bernardo di Chiaravalle aveva giustificato il malicidio: i crociati non uccidevano uomini e donne, ma il male che era in loro. Oggi, ai contemporanei “bernardi” ideologi che si chiamano Bush,  Khomeini, Ahmadinejād, Bin Laden  ai quali si aggiungono pensatori (?!) nostrani, si sono affiancati gli anonimi “bernardi” dell' economia (le Spa originariamente si chiamavano società anonime) giustificando le migliaia di operatori del   mercato delle armi con la tesi che loro responsabilità è unicamente quella di costruire buone merci. Devono essere efficaci, funzionali, di basso costo e soprattutto devono incrementare il pil e le esportazioni.
Nel gioco del Risiko vince chi raggiunge per primo il proprio obiettivo, ostacolando ed eliminando gli avversari nel raggiungere il proprio. Ed è a questo ciò a cui stiamo assistendo, consapevoli solo del fatto che la carta dei veri obiettivi dei duellanti sarà mostrata solo alla fine del gioco.
 Il colonialismo in tutte le sue sfaccettature in cui è evoluto e si manifesta oggi, ha solo seminato e semina venti che si trasformano inevitabilmente in tempesta.

 





FRANCO TOSCANI

Franco Toscani
























Il socialismo etico-libertario di Stefano Merli.
Una ricerca appassionata e instancabile.
                                    

Tutta la ricerca storica e teorico-politica di Stefano Merli (1925-1994) ci sembra percorsa da cima a fondo da un filo conduttore, quello rosso del socialismo etico-libertario. Nonostante la sua esplicita, orgogliosa militanza e appartenenza al socialismo e alla sua storia, egli non fu mai uno storico di partito dogmatico e ideologico, sia perché il lavoro di storico era per lui al servizio innanzi tutto della verità sia per il privilegiamento  accordato per gran parte della sua vita alla dimensione strutturale, economico-sociale (si pensi soltanto alle caratteristiche del suo capolavoro pubblicato in due volumi presso La Nuova Italia di Firenze nel 1972-1973 Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900), rispetto a quella più strettamente politica e attenta alla forma-partito, alla quale comunque egli prestò  grande attenzione sempre  in stretta relazione alla dimensione sociale e di classe.
Figlio del mondo contadino e operaio della campagna piacentina, in cui affondavano profondamente le mai rinnegate sue radici familiari, Merli non ha mai tradito queste origini, che ha anzi ereditato e assorbito fruttuosamente nel suo peculiare stile di vita e di lavoro, nella sobrietà e coerenza dei costumi di vita, nella ostinata fedeltà al socialismo, nella  stessa pratica teorica.
Accademico fra i più antiaccademici, naturalmente anticonformista, Merli fu docente universitario a Siena, Venezia e Milano, alla sua morte donò ai piacentini, per la precisione all' "Istituto storico della resistenza e dell'età contemporanea" di Piacenza migliaia di preziosi volumi, tuttora in possesso dell'istituto e consultabili da parte della cittadinanza.
La sua straordinaria attenzione alla soggettività concreta, in carne e ossa dei lavoratori, alle reali condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, ai temi dello sfruttamento e dell’alienazione nasceva proprio dalla stessa personale esperienza di Merli nel mondo contadino e operaio della sua infanzia e gioventù. Quello era il suo mondo, l’aria che respirava nei suoi anni giovanili.
Scrive Maria Grazia Meriggi in riferimento al già citato  Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: “Il lavoro di Merli brulica di operaie tessili, cappellaie, guantai, edili avventizi, coloni delle cascine che si spingevano fin nei pressi del centro di Milano, di trecciaiole, di artigiani impoveriti (...). Nel suo lavoro, che non è né storia sociale né storia politica soltanto, ma storia di una esperienza di crescita sociale nel suo farsi , intessuto di soggettività politica e anche straordinario repertorio di fonti, il tracciato delle nuove organizzazioni si intreccia alla descrizione delle condizioni del nuovo proletariato: organizzazione e tecniche di lavoro,orari, salari, razioni alimentari e condizioni igieniche, rapporti gerarchici, vicinanza paterna e durezza autoritaria, violenza su donne e bambini che continuava la disciplina parafamiliare della bottega artigiana su nuove basi”.
La ricerca di Merli è stata caratterizzata per tutta la vita da una lunga fedeltà alla passione per il movimento operaio delle origini che aveva sollecitato alla ricerca anche Gianni Bosio tra gli anni ‘50 e ‘60.
Stefano Merli


Lo sguardo storico di Merli non era però soltanto retrospettivo; il suo ritorno indietro, alle origini del movimento operaio voleva essere ed era al tempo stesso un balzo in avanti, un protendersi verso un nuovo inizio, verso l’avvenire della sinistra e del socialismo.
Col Nietzsche  - un autore, per la verità, a lui non caro e non congeniale per tanti aspetti e  motivi comprensibili - della seconda delle Considerazioni inattuali (intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1874), Merli avrebbe potuto convenire sul fatto che “noi abbiamo bisogno della storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere”.
Ne abbiamo bisogno per le esigenze della nostra vita e della nostra azione nel mondo, “a favore di un tempo venturo”. Il senso autentico del passato storico consiste per Nietzsche in un robusto nutrimento per il presente e per l’avvenire, per l’invenzione della realtà storica.
Se si fosse confrontato con questo saggio del pensatore tedesco, Merli sarebbe stato  concorde in particolare con la critica nietzscheana della “storia antiquaria”, capace solo di conservare e non di generare vita. Lo studio della storia passata, l’autentica cultura storica che non è “innata canizie” conduce  infatti a produrre nuova storia, a inventare il presente e il futuro.
Così in Merli è sempre stata salda la convinzione che la storia del movimento operaio va riletta radicalmente ai fini di una nuova ripartenza della sinistra; oggi, scrive nel 1992 su "Il Ponte", “i profeti disarmati si prendono le loro soddisfazioni e i vinti di ieri (fossero dentro o fuori il moderno principe) riemergono dall’oblio e dal disprezzo come i profeti del domani” .
Una sorta di testamento spirituale di Merli è affidato così, ci sembra, ad uno scritto preparato per il convegno Perché vissero, perché vivono. Giacomo Matteotti, Bruno Buozzi, Eugenio Colorni, tenuto a Roma il 15-16 giugno 1994 (dunque, poche settimane prima della sua morte, avvenuta il 18 agosto), il cui esordio è già particolarmente perentorio e significativo: “Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono. E’ presto detto. Per affermare un’idea di socialismo”.  Qui Merli rivaluta il riformismo inteso alla maniera di Matteotti, Buozzi e Colorni e ribadisce che il socialismo libertario non prevede solo il consenso, ma anche e soprattutto la partecipazione attiva e concreta delle masse al potere.
Due sono le principali direzioni polemiche che guidano questo scritto, breve ma assai importante, di Merli. Da un lato, nel nome  dell’anticomunismo socialista che recupera la corrente antigiacobina, autogestionaria e libertaria del socialismo italiano, la polemica è indirizzata (come di consueto nell’ ultima produzione del nostro autore) contro il comunismo statolatra e il suo sistema totalitario, il velleitarismo-nullismo massimalista, il regime del Partito-Stato che riduce a tragica caricatura la democrazia consiliare, l’autogoverno popolare e la parola d’ordine del potere ai Soviet (a cui pure si richiama), il modello di direzione dall’alto, autoritario-giacobino della conquista violenta del potere, destinato a sostituire una dittatura con un’altra, non meno orrenda e oppressiva (anche se mutata di segno) e a trasformare i lavoratori, i cittadini, la società -non più soggetti e protagonisti del socialismo- nel predicato di un partito rivoluzionario deificato e onnipotente.
Da un altro lato, Merli polemizza - e pure questa ci sembra un’indicazione assai valida   per noi, per il nostro tempo in cui il termine “riformismo’ è sbandierato pressoché in tutte le salse e da tutte le parti, da destra a sinistra, molto spesso in termini insulsi e ben poco credibili - contro il riformismo della “politica politicante”, del piccolo cabotaggio, il “socialismo del sottogoverno”, l’usura dello statalismo e del trasformismo socialdemocratico, il ritorno alle tendenze individualistiche, lo smarrimento di un’autentica, seria via riformatrice.
Il senso di queste considerazioni è rivolto -con ostinazione e cocciutaggine- a una radicale  e spietata autocritica del socialismo e della sua azione politica. Per una ripartenza reale, per affermare, appunto, una nuova idea e pratica di socialismo, attenta alla questione ambientale e all’abitare ecologico, ad esempio.
Che cosa ci lasciano in eredità, fra l’altro, la vita e l’opera di Stefano Merli? Pensando non solo alla sua produzione scritta, ma anche alla sua forte e tenace personalità, alla sua energia libera e creativa, alla sua brillantezza e vitalità  di uomo  e di militante, alla sua  generosità, alla genuina passione per lo studio e per la politica intesa nel senso più alto e nobile, originario e greco della parola, il messaggio che ci viene è inequivocabile, è un invito alla resistenza e alla libertà creativa, a un rinnovato tentativo di invenzione storica nella direzione del socialismo libertario, della democrazia radicale, della partecipazione popolare  e del controllo dal basso del potere.
Può darsi che tutto ciò -nell’epoca del trionfo della tecnica e dell’economia, del sistema delle merci e del capitale, del denaro e del mercato, in cui nuove, spaventose forme di alienazione e di barbarie si delineano- sia un’utopia, ma ci pare pur sempre un’utopia concreta, generosa e fruttuosa.
Ora, a vent'anni dalla sua morte, resta il rimpianto per la vita di Stefano Merli troppo presto conclusa, per il suo lavoro incompiuto, per la nostra amicizia troppo presto interrotta, per ciò che non ci siamo detti e che non ci diremo mai più, per un dialogo fertile e fruttuoso brutalmente troncato, ma resta pure la consapevolezza del valore della nostra amicizia, dei suoi frutti e stimoli sempre vivi, della ricchezza e fertilità dei suoi scritti e del nostro rapporto personale, della sua figura vitale, del suo invito alla ricerca e al lavoro rigorosi, delle sue idee appassionate.
Uno dei miei maestri, il filosofo Enzo Paci, amava dire che “occorre fare della nostra vita la nostra passione”. Stefano Merli vi è pienamente riuscito e non cessiamo per questo motivo di ringraziarlo.


                                                


GIUSEPPE PUMA



Giuseppe Puma

























Khalid è vivo

Sono solo pieno di dolori,
di questo io mi lamento.
Il respiro è normale
seguendo l’imposizione dei bronchi.
Passeggio, di sabato, lungo il Naviglio Grande a Corsico,
dove insistono nei due lati
poche bancarelle di cianfrusaglie,
mentre eleganti canoe lo percorrono veloci.

Khalid è vivo. E’ da anni,
oramai, che è vivo.
Fuggito nudo dal Magreb
nelle grinfie dei trafficanti,
che precedono vittorie o disfatte,
è stato raccolto senza resistenza,
 come una bottiglia vuota,
sul greto di una spiaggia siciliana.

Pochi, vecchi, usati e multiformi oggetti
coprono un leso telo arabescato  a terra steso:
è la bottega ambulante di Khalid.

Guardo il suo sguardo compassionato
di uomo finalmente libero.
Guardo con tenerezza le sue fattezze olivastre.
Lo giustifico, anche senza alibi,
perché non c’è più spazio
per chi sentenzia punture di presunzione.

Compro per due euro
una minuscola scultura di marmo
e vado.
Pochi metri e mi giro,
noto che mi guarda, mi sorride
nell’incrociare i nostri intimi occhi.

Sono pieno di dolori,
ma respiro normalmente.
Diventerò
un involto essiccato si ossa
o una curva e riprovevole
appassita foglia di carne
o uno stoppino che si logora
deponendo luce fioca e memoria.


Ma Khalid è vivo.





MICHELE SANGINETO



Michele Sangineto  al lavoro


















Dalle mani il suono

Sono nato ad Albidona, un paesello dell’alto Ionio fondato dall’indovino Calcante e da Agamennone mentre fuggivano dalla guerra di Troia; sono l’ultimo di tre figli, cresciuto in una famiglia nel culto della dignità, della ricerca di un miglioramento sociale, ma educato anche alla curiosità e alla socialità. Da giovinotto mi sono trasferito in Brianza dove ho lavorato un anno come operaio. Rientrato al mio paese, data l’insistenza di mio padre, factotum del paesello, e di mia madre, donna energica e laboriosa, ho conseguito il diploma di Maestro d’arte. Nel 1973 vengo incaricato come docente di arte applicata all’Istituto d’Arte di Monza, una scuola molto vivace.
Da un paesello sono stato catapultato in una grande città e all’inizio fu difficile: spesso incontravo una sorta di preoccupazione e di diffidenza nei miei confronti, in quanto emigrato meridionale. Facevo fatica persino a trovar casa. Ciononostante ho subito cercato di stare il più possibile in mezzo alla gente e poco alla volta mi sono integrato e ho trovato qui la mia strada e, per così dire, la mia seconda patria. La verità è che mi sento in debito con Monza. Questa città mi ha dato tutto.
E’ così che nel partecipare a tutte le manifestazioni politiche, sociali, artistiche, mi sono trovato in un vortice meraviglioso, quello della musica e degli strumenti musicali. Un giorno un ragazzo mi chiese aiuto per riparare uno strumento africano. Nel metter mano a quell’oggetto d’arte, in cui forma, materiali e sonorità erano un’unica ricerca di armonia, mi sono incuriosito e ho cominciato ad appassionarmi a questo mondo. Così ho iniziato la mia sfida a costruire strumenti musicali a corda, quindi l’arpa, strumento affascinante e complicato, allora poco conosciuto. Mosso dalla passione ho iniziato a costruire senza alcuna indicazione dal punto di vista scrittografico o verbale. Non c’è nulla che possa sostituire la pratica e l’intuizione, le sole cose che fanno capire fino in fondo cosa si sta per fare. I segreti sono semplici: conoscere la tecnologia del legno, saper leggere i disegni, saper incollare a perfezione, saper levigare e tante piccole cose che si acquisiscono col fare. Sembra banale ma è la chiave di tutto. Occorre capire che si è di fronte a dei pezzi di legno che hanno il loro carattere, il loro modo di essere sia dal punto di vista disegnativo che cromatico. In quel preciso istante si rompe quella armonia naturale per ricrearne un’altra, per un oggetto nuovo che abbia un giusto compromesso tra la leggerezza, la resistenza e l’aspetto sonoro. Sorgono grandi conflitti tra il dire e il fare, sono gesti che richiedono sofferenza, fatica e tempo.

Michele Sangineto con uno dei suoi strumenti


Nonostante l’età non più giovanissima, è comunque sempre rimasto vivo un desiderio e una curiosità infantile di scoprire nuove cose e di sperimentare nuove esperienze, ma tutto ancora come un gioco. In me alberga un eterno fanciullo.
Sono molto soddisfatto dei miei strumenti musicali e soprattutto dell’arpa, uno strumento a cui mi sono particolarmente dedicato apportando delle innovazioni. Diversi musicisti a livello internazionale suonano le mie arpe; fra i tanti, Alan Stivell le usa per le sue numerose incisioni.
Ho partecipato a festival di musiche popolari a livello nazionale ed europeo (Festival Interceltico di Lorient, Castello di Saint Chartier, Palazzo del Governo di Bruges, Carrousel del Louvre di Parigi, Castello di Budapest, Royal College of Music di Londra...).
Dal 1988 al 1991 ho organizzato a Monza quattro edizioni di “Suoni di antichi strumenti”, un Festival di musica etnica. In quelle occasioni ho avuto modo di invitare e conoscere i più grandi esperti di musica classica e antica: da Nicanor Zabaleta ad Alan Stivell.

A sin. Renato Seregni, a des. Michele Sangineto

 Nella mia casa-laboratorio il tempo vola tra i profumi dei legni, dove anche i sussurri si riverberano nelle casse armoniche degli strumenti in costruzione. Essa è sempre aperta ad amici e appassionati di musica e di liuteria e spesso si verificano incontri dove si scambiano le esperienze.
Mio padre suonava la chitarra, ma io non volli imparare. Il desiderio di suonare l’ho avuto più avanti negli anni quando ho costruito il primo salterio, uno strumento antico a corde suonato con l’archetto. Mi sembrava necessario poter dimostrare che avevo fatto un buon lavoro. Nel 2000 ho costituito con la mia famiglia l’Ensemble Sangineto utilizzando arpe e salteri da me costruiti con un repertorio di musica popolare e antica. Ultimamente mi sono interessato alla costruzione degli strumenti musicali impressi nell’arte pittorica di maestri del Rinascimento come Gaudenzio Ferrari, Piero di Cosimo, Bernardino Luini, Giorgione, Filippino Lippi e Leonardo da Vinci, e intendo divulgare queste mie acquisizioni tramite conferenze nelle scuole e nelle biblioteche.
C’è chi mi ha detto: “Vai per il mondo, o antico vichingo dal cuore di fanciullo, forgiando il legno, raccontando il mormorio delle foreste e le ancestrali favole.”
E poi ancora: “Prendi la cetra, fa’ il giro della città, canta con arte, moltiplica le canzoni, affinché si ricordino di te”, ma io vorrei volare come le farfalle, illuminarmi come le lucciole e suonare come Apollo citaredo.

 



 DANTE MAFFIA


Dante Maffìa

























IL MENO CHE POSSA FARE

Il meno che possa fare un non milanese che capita a Milano in una giornata di pioggia, con il traffico intasato, con i taxi introvabili, è prendere a calci i muri dei palazzi o andare sul Duomo e buttarsi giù, così avrà un po’ d’attenzione.
Chi arriva a Milano è come se cadesse all’improvviso in una poltiglia bollente in cui tutto si neutralizza. Il calore umano non fa bene ai rapporti, anzi è un deterrente e bisogna cancellarlo. Le persone serie sono quelle che sanno fare gli affari senza complicarsi la vita con calore e affettuosità. Roba che inquina, e crea perplessità.
Eppure a Leonida non mancano gli amici. Ha avuto con molti una lunga dimestichezza di viaggi e di vacanze, ma quando li incontra qui gli sembrano marionette, anzi manichini che recitano una parte. Anche quelli originari del Regno delle Due Sicilie.
Oh, è brutto scendere alla Stazione di Milano e trovarsi subito nell’impero dell’estraneità, dell’indifferenza, dell’efficientismo che non tiene conto delle esigenze di un povero cristo impacciato e smarrito, perché no, anche a causa del clima, della nebbia, dell’aria nodosa e amarognola che si respira.
Ha lasciato al bagagliaio della Stazione la valigia, ha comprato un brutto cappello e ora va in giro vagabondando. Sembra un barbone autentico, nessuno lo riconosce.
Questa sera dormirà sui cartoni nella rientranza d’un portone, assaporerà la pienezza della libertà.
A San Babila, a Montenapoleone sono esposte le sue creazioni nelle vetrine. Ha visto molta gente soffermarsi e commentare sorridendo. Piacciono, i suoi vestiti. Chissà quanta gente sarebbe felice di stringergli la mano.



Ha bisogno di stare solo con se stesso.

E se capitasse anch’egli in Sant’Ambrogio?
“È lontano, eh, a piedi ci metterà tanto”.

Va nella direzione indicatagli, si ferma a un bar per bere un cappuccino, riprende ad andare.
Eccolo arrivato. Entra. Quasi non ricorda come si fa il segno di croce, non gli viene in mente nessuna preghiera imparata da bambino..
Sant’Ambrogio è una chiesa che dà smarrimento. Che cosa va cercando? C’è una forte umidità, fa freddo. Ha bisogno delle sue comodità.
Entra in un albergo, si fa riconoscere e prega di mandare un fattorino alla stazione per la valigia. Non ha resistito. Farà il barbone un’altra volta.
Dopo la doccia scende al ristorante, fuma quattro sigarette e poi sale in camera a dormire. Forse ha la febbre e gli fa male anche la gola.
        
È quasi un anno ormai che vive in questo albergo. Le sue rendite glielo permettono. A Roma è tornato poche volte per sistemare gli affari urgenti.
Non legge i giornali, non va a cinema o a teatro. Passeggia per le strade e osserva la vita della città. Non avrebbe mai creduto che anche Milano ha l’anima. Un’anima che s’è imbruttita ed è diventata fuligginosa, ma sempre anima è. E scopre perfino scorci molto belli, dove meno se l’aspetta: un palazzo, una strada, un monumento, un’atmosfera particolare.
Nella sua suite può andarlo a trovare chiunque. Alla reception non fanno problemi, grazie alle sue laute mance, neppure a figuri ambigui che invita occasionalmente.
Il suo corpo va riempendosi di macchie. Mister Aids è entrato nel suo sangue ed è diventato il suo padrone.


È tentato di tornare a Roma e ricoverarsi al Policlinico dove conosce alcuni medici, ma ha capito che non servirebbe a niente. E poi, meglio morire a Milano, il suo grigiore è come la marcia funebre che lo accompagna alla tomba. Si sente più a suo agio qui dopo la malattia. Non riesce ad annullarsi, a uscire di scena in silenzio. Dovrebbe avere il coraggio di cancellarsi. Il suo l’ha avuto e se Mister Aids è arrivato è perché lui non è stato capace di rispettare nessuna regola. Ingordo fino alla morte, e irresponsabile.
Ha fatto togliere la piccola pendola dal soggiorno della suite. Il tempo non ci deve essere. Porta a spasso la sua agonia e il buffo è che non è disperato né preoccupato degli altri che possano essere contagiati da lui. Usa chi capita, senza precauzioni, e non gl’interessa che Lella e Zucchero abbiano deciso di diventare suorine della carità, né vuole suicidarsi come quei due stronzi di Marco e di Romolo.
Fra poco sarà primavera anche a Milano.
Leonida arriva, a volte, fino al Naviglio. Conta le lattine vuote di birra e di coca-cola che galleggiano. Ecco i nuovi cigni si dice. Conta e riconta per ore quante bottiglie di plastica gli transitano davanti…
Di Roma gli manca il suono delle campane e l’odore di fritto delle rosticcerie.
Alla reception hanno cominciato ad avere qualche sospetto, teme che lo manderanno via al più presto, nonostante le sue mance sperticate.
Morirà quando morirà, ma prima vorrebbe tornare in Sant’Ambrogio, a risentire il gelo e l’umidità dell’ambiente. Crede sia l’anticamera della morte.
Da qualche giorno sente le forze mancargli, ma esce ugualmente per le sue passeggiate. A Piazza San Fedele l’altra sera ha visto un figuro che con un giravite accecava dei gatti. L’ha aggredito e gli ha chiesto per quale motivo si comportava in quella maniera.

“I gatti mi hanno dato l’aids”, ha risposto.


Leonida si è fatta una risata e gli ha raccontato delle sue disavventure.
Sono entrati in un bar e ci sono scolati una bottiglia di liquore a testa. L’ubriachezza gli ha dato un barlume di vita vera. Si sono addormentati uno sull’altro vicino a un cassonetto della spazzatura. All’alba li ha svegliati la pioggia battente e ognuno ha preso la sua strada senza neanche salutarsi.

Leonida si sveglia poco prima dell’arrivo in stazione. Non aveva mai fatto un sogno così atroce, così strano. Gli restano addosso dei brividi di paura per quei particolari aberranti sulla malattia. E poi, ma che cavolo, vedersi nelle vesti di un gay!






LUIGI MARSIGLIA


Luigi Marsiglia












Il Grande Inquisitore e "L'entrata di Cristo a Bruxelles"

La scelta nichilista

Il termine "nichilismo" viene delineato da Ivàn Turgenev nel romanzo Padri e figli del 1862. Nel decimo capitolo, l'attempato e democratico Nikolàj Kirsanov, soprannominato dai nobili del distretto il rosso, definisce il giovane Bazarov: quel signor nichilista.
"In primo luogo noi non predichiamo nulla... - accenna quasi di sfuggita Bazarov - e abbiamo deciso di non occuparci di nulla... E questo si chiama nichilismo..."
"Il contagio è già diffuso - replica il placido e allarmato Pavel, fratello di Nikolàj - mi hanno riferito che i nostri pittori a Roma non mettono piede in Vaticano e tengono Raffaello quasi in conto di un imbecille, perché è un'autorità..."
"Secondo me - è la convinzione di Bazarov - nemmeno Raffaello vale più di un soldo; e nemmeno loro (i succitati pittori russi) sono migliori di lui!"
Un dialogo infarcito di francesismi da Kirsanov, come d'abitudine per appartenenti all'aristocrazia di medio alto o basso livello, che si svolge alla vigilia della riforma dello zar Alessandro II Romanov, riforma che prevede l'abolizione, almeno sulla carta, della servitù della gleba, del latifondo agrario, dei rapporti sociali di stampo medioevale e di gran parte del retaggio feudale. Il confronto più aspro è proprio tra l'impettito Nikolàj, che si ispira a quel gruppo di nobili liberali e idealisti alla Puskin che avevano dato vita alla congiura Decabrista del '25 contro Nicola I, conosciuto come Nicola Bastone, e il nichilista prima maniera Bazarov. Tra vecchio e nuovo.
L'ismo si richiama al latino indeclinabile nihil o nil, traducibile con niente o nulla; lo stesso Turgenev narra che il giorno degli incendi appiccati a Pietroburgo, la folla accorreva ruggendo: "Avete visto cosa fanno i vostri nichilisti!"… Questo per dire che il termine attecchì subito, trovando terreno favorevole in Russia, dove fu adottato per identificare un esponente rivoluzionario radicale e intollerante, dotato di cultura e fanatismo sufficienti a calpestare qualsiasi principio, o prensìp, per citare alla lettera Pavel Kirsanov, persino l'autorevolezza di Raffaello.
Fin qui la nascita del nichilismo; ma il neologismo incalzato dalla crisi storica e dai crucci della quotidianità si evolve, si smussa e si allarga assumendo connotazioni, varianti e portata diverse a seconda degli affluenti da esso derivati: dieci anni dopo il racconto di Turgenev, nel 1871/72 Dostoevskij pubblica I demoni in cui il termine nichilismo, ampliato a dismisura, genera l'abisso, le tenebre fitte e senza fondo incarnate da Nikolàj Stavrògin.
Mentre il grande peccatore Raskòlnikov, in Delitto e castigo, si lascia sedurre dal superomismo nietzschiano e l'idiota Mysckin rappresenta l'uomo buono anche in senso cristiano, il principe Stavrògin è il nulla assoluto, un nulla ricoperto di altro nulla. Soltanto l'antiascetico e santo alla rovescia - secondo la scala della fede espressa da Stavrògin al vescovo Tichon, per cui il vero ateo è sul penultimo gradino in alto sotto il vero santo - soltanto Ivàn Karamazov si avvicinerà a tratti alla voragine che occupa l'animo del principe.
Il protagonista de I demoni è proprio Stavrògin; in tono minore, da comprimario, si muove e si agita sulla scena Pëtr Verchovenskij, il nichilista che ricalca la figura tratta dalla realtà del terrorista anarchico Sergej Necaev, estremista intransigente, cofondatore della società segreta Volontà del popolo. Mentre Bazarov di Padri e figli (all'epoca della pubblicazione Necaev aveva circa 15 anni) era deciso a porsi anche contro la volontà del popolo pur di far prevalere la razza eletta degli uomini nuovi, ecco apparire la demagogia, l'ideologia critica che si ammanta di populismo a buon mercato e pretende di agire secondo gli interessi e con l'approvazione del popolo. Necaev scrisse insieme a Michàjl Bakunin, il quale ne prenderà presto le distanze, il famigerato Catechismo del rivoluzionario, il vangelo della generazione votata a cambiare il volto della storia. Un micidiale bluff: le cinquine, le cellule ramificate dei cospiratori, una rete di falangi sotterranee che, agguerrite e pronte a dar fuoco al paese, attendono il segnale convenuto, esistono esclusivamente nell'immaginario di Necaev, così come in quello letterario di Verchovenskij. Il fenomeno si ridimensiona, sgonfiandosi del tutto; Necaev viene arrestato con l'accusa di avere eliminato un giovane affiliato, potenziale spia, che si era ribellato all'organizzazione.
"Verchovenskij, è la prima volta che vi ascolto e vi ascolto con stupore - affermò il principe [Stavrògin] - dunque voi non siete affatto socialista, ma una specie di... ambizioso politico?"
"Un mascalzone, un mascalzone. Vi preoccupa sapere chi io sia? Vi dirò subito chi sono e qual è la mia meta... Noi proclameremo la distruzione... - esclamò l'altro - ecco, comincerà la rivolta!... La grande Russia si oscurerà, piangerà la terra sui suoi vecchi dei... E allora, a questo punto, noi tireremo fuori... Chi?"
"Chi?"
"Lo zarevic Ivàn."
"Chi, chi?"
"Lo zarevic Ivàn, voi, voi!"
Per un momento Stavrògin rimase soprappensiero. "Un impostore? - Chiese d'un tratto. - Ah, ecco il vostro piano!"
E' la visione malata, al limite del ridicolo, di Verchovenskij/Necaev. L'incendio è nelle menti, non sui tetti delle case. E in mezzo alle fiamme, in mezzo a questa spirale di nebbia e fumo, esiste una zona arida, deserta, avara di pensieri, gesti e speranze, un vuoto al di là di qualsiasi debolezza e incrinatura, di ogni previsione, delusione, polemica o conformismo: è Stavrògin, il quale se crede non crede di credere, e se non crede, non crede di non credere. Altri personaggi de I demoni ruotano intorno a questo colossale nulla: la dichiarazione di non fede di Kirillov prima di spararsi un colpo di pistola alla tempia; il sorriso sfacciato e maligno di Liputin che osserva l'incendio appiccato dai congiurati, ciò che avrebbe dovuto essere o diventare l'apocalisse finale; la stessa Varvàra Petròvna Stavrògina, madre di Nikolàj, o il sorpassato Stepàn Verchovenskij, padre di Pëtr.
Il nichilismo teorizzato da Bazarov non è dunque quello professato dai personaggi di Dostoevskij e, nello specifico, da Stavrògin; nel primo è una scelta razionale e attiva, negli altri un accanimento doloso, un vortice passivo. Là prevale l'abnegazione, il tumulto dei comizi, la conferma politica nella rivoluzione e nel cambiamento violento dello stato delle cose; qua la negazione della vita e l'indifferenza verso la morte: una specie di necrofilo, per riportare l'aggettivo coniato negli anni della guerra civile dallo spagnolo de Unamuno. Là predominano i sobillatori e la triade hegeliana senza soluzione di continuità: tesi, antitesi, sintesi - in sé, per sé, altro da sé; qua Stavrògin e il nichilismo dell'anima.
"Sono lo spirito che nega continuamente: ed è ragione; però che quanto sussiste è degno che sia subissato: e sarebbe stato pur meglio che niuna cosa fosse mai uscita ad esistenza" così Mefistofele, l'insidioso demone della vanità, provoca Faust.
Nikolàj Stavrògin giungerà a "uccidere Dio" nell'atto feroce della violenza alla bambina Matrësa che si suiciderà; e il principe, sostanziale nulla fatto di altro nulla, finirà con l'impiccarsi a causa di quel rimorso. Il tutto descritto nel capitolo Da Tichon, confessione mai inserita nel corpus del romanzo. Lo stesso delirio pedofilo, lo stesso incubo di candore infranto e infanzia oltraggiata, sognato da Svidrigàjlov, altro suicida, in Delitto e castigo.
Ivàn Karamazov svela al probo fratello minore Aljosa la parabola inversa de Il Grande Inquisitore. In sintesi: Gesù ritorna sulla terra per salvare gli uomini dal male e da se stessi, e fa il suo ingresso trionfale a Siviglia; risuscita una bambina appena morta tra il tripudio della folla plaudente; il cardinale, Grande Inquisitore, comanda ai suoi scherani di arrestarlo."Perché sei venuto a disturbarci... -lamenta l'alto prelato-. Tutto ciò che di nuovo Tu ci rivelassi attenterebbe alla libertà della fede umana..."
"Egli - l'Inquisitore, secondo Ivàn Karamazov - fa un merito a sé e ai suoi di avere infine soppresso la libertà (impersonata dal Nazareno) e di averlo fatto per rendere felici gli uomini... L'uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici?... Il segreto dell'esistenza non sta nel vivere, ma in ciò per cui si vive..."
"Domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo come il peggiore degli eretici" è la lucida conclusione dell'Inquisitore, che aspetta una risposta dal Cristo tornato sulla terra. Questi si avvicina e lo bacia sulla guancia vizza, al che il cardinale prorompe: "Vattene e non venire più, mai più!" E lo lascia andare per le vie oscure della città.
Le tracce dell'entrata di Cristo a Siviglia, si ritrovano nel dipinto di James Ensor realizzato nel 1888. Cambia la città: qui è Bruxelles, ma la tela richiama indirettamente le allucinazioni, i vaneggiamenti mistici e la disamina da parata di Karamazov - il romanzo è del 1880. Una massa di scheletri e maschere ghignanti, saluta nel quadro l'arrivo del Messia in groppa a un asino; l'atmosfera borghese e inquieta della città belga, col suo primo cittadino in monocolo e in trepidante attesa sul palco, denota l'intento satirico delle pose carnascialesche di Ensor: le maschere orgiastiche sono l'anima vera di una città spoglia di maschera, una volta che sono stati deposti il perbenismo, il corruccio e l'ipocrisia di facciata dei buoni commercianti di Bruxelles: Bruxelles come modello, come parametro concreto di un mondo che danza allegramente intorno al feticcio del denaro. Il popolo è nudo; sulla strada campeggia uno striscione scarlatto abbastanza sudicio che, con tono da burla studentesca, inneggia: vive la sociale. L'aggregazione visionaria dell'insieme ribalta la logica temporale della realtà; i tempi levitano e la moralità accigliata del primo cittadino ristagna in quell'infettante euforia: Ensor si rivolge all'effetto grottesco e al tema instabile della fantasmagoria in maschera; il norvegese Edvard Munch, in questa distorsione fantastica dell'immagine, approda invece all'effetto contrario, psichedelico e schizoide, dell'alterazione figurale in senso opposto: la fissità dilatata delle pupille e degli sguardi deviati, la mostruosità sofferente del reale. Esseri tubercolotici o epilettici che avanzano sui marciapiedi febbricitanti delle città.
L'entrata di Cristo a Bruxelles somiglia dunque a quella di Siviglia.
Il capovolgimento, il contrappasso letterario nei fratelli Karamazov risulta totale; un presunto parricida, Dmìtrij, sia innocente che colpevole per il fatto di aver desiderato la morte del padre a causa di Grùscegnka; Ivàn, che brama credere ma non crede; lo sparuto Aljosa dalla grande anima in formazione, sballottato lungo le vie tentatrici del mondo; e Smerdjàkov, figlio illegittimo, servo plagiato dai dubbi di Ivàn e assassino del vecchio Karamazov. Quando morirà lo stàrets Zòsima (maestro spirituale di Aljosa, considerato santo al pari del vescovo Tichon, il confessore di Stavrògin), quando morirà Zòsima l'odor cadaverico inonderà la stanzetta del monastero: un indice questo di non santità, di scandalosa corruzione della carne - per tre giorni consecutivi dalla salma illibata di Ildegarda di Bingen, ricordano le cronache medioevali, emanò un intenso profumo di rose e gelsomini…
In Dostoevskij l'ateismo è la ricerca fragile, tortuosa e frenetica dell'irraggiungibile paradiso in terra, così come l'inumana cattiveria presenta allo stato larvale una nascente e assoluta bontà: la riconquistata purezza del peccatore.

 


ALBERTO FIGLIOLIA



Alberto Figliolia



















CINQUE POESIE

Perché hanno ucciso la maestra anarchica?

Perché hanno ucciso
la maestra anarchica?
Perché il toboga scivolava
sulla sabbia?
Perché l'alba ha perduto
il silenzio?
Perché il sogno non ha più l'eco
della risacca?
Perché i ricordi fuggono
dal recinto?
Perché il ritorno fa più paura
dell'andare?
Perché un cane sazio mangia
un piccione morto?
Voci attraverso i muri.
Un litigio di amanti.
Il viaggio che non sai.
Un paese fantasma.
Le infinite generazioni.
La politica del dolore.
Le parole dei saggi.
Quali i sintomi della vita?
Può la curva del mare guarire
dal male?
Può un uomo essere bambino?
Strazia e consola il pensiero.
Cammino su un viale bordato
di palme e nuvole.
Che il vento suoni le corde
dell'amore...

(Marina di Vasto, mattino, sabato 6.IX.2014)

  ***

 Il bounty killer bruciava...

Il bounty killer bruciava con il sigaro acceso la manica destra della giacca blu.
La sua precisione era chirurgica, frastagliata la coscienza.
Finito il lavoro, mangiò la cenere residua.
Aveva un buon sapore quel grigio con brace.
L'ustione al palato gli procurò gran piacere.
Si preparava al nuovo viaggio.
Lanciò un'occhiata all'indiano legato e steso nella polvere.
L'appuntito palo di legno che inchiodava l'uomo dalla pelle come cuoio all'arida terra era ancora ben saldo.
L'indiano non si muoveva; forse si fingeva morto.
Il cacciatore di uomini non se ne curò.
Il bounty killer, la barba rada e sofferente e gli scontati occhi di ghiaccio, sciolse il cavallo dal manto pezzato, guardò la povera stamberga di legno, le assi sporche, il misero improbabile orto.
Sorrise e si allontanò.

Smettemmo di osservare lo schermo.
In luogo dei fotogrammi scorrevano ora le immagini di una conduttrice del telegiornale. Soltanto le immagini: un sincopato loop senza voce.
Dentro la sala chi tossiva, chi recitava un mantra, chi invocava disperato il padre, chi gracchiava, chi ripeteva incantato parole di seduzione senza soluzione.
Mi chiedesti di uscire, uscimmo e resistesti quando ti tirai la mano per rientrare. Forse avevi ragione tu.

Fu così che optai per l'espiazione.
In una taverna del porto della Città d'Oro mi condannai a lavare i piatti di ogni lebbroso.
Ma non c'era Vangelo né coerenza nelle mie azioni.
Presi i bicchieri sbagliati dove non era il sangue della redenzione, ma il delirio dell'abbandono, l'alcool della rabbia distruttiva, lo sgancio atomico.
Lo sguardo dell'uomo con le corna istoriate e la guizzante lingua di fuoco mi gelò.
Poco più in là rimbombava l'eco di una poesia.
Mi sedetti e paziente, per millenni, ascoltai.

 ***

La sala era grande...

La sala era grande
forse addirittura smisurata
eravamo seduti a ferro di cavallo
e le distanze aumentavano
crescevano sempre crescevano sempre
in mezzo qualcuno pose
(non vedemmo mani né corpo)
in mezzo qualcuno pose
un cigno malato
un cigno bianco dal becco nero
un cigno all'ultimo canto
e il cigno cantò
mentre noi tutti (liberi o prigioni) copiavamo e imitavamo la sua fine
così la metamorfosi si compì
l'uccello mutò in maiale
e il maiale figliò
e il maialino neonato corse sotto le forche caudine
grufolava si rotolava
e felice si restringeva
si restrinse a tal punto che poteva esser tenuto
sul palmo della mano
e il maialino a pancia in su fece le fusa
e tutta l'armonia fu restituita al mondo

 ***

 L'eco di un martello all'alba...

L'eco di un martello all'alba
come pianto di prefiche ignote
la soave nausea del dormiveglia
in un sogno a puntate e più dimensioni
infine un coro di uccelli a destarmi
apro la finestra per farmi invadere dall'aria
ma il cielo è solo un'ipotesi dorata
è solo per screenare il carcinoma
ripeteva nel sonno un medico dal camice rosa
(la musa del silenzio gli si opponeva invano)

ora che il vento è gelido
ora che le nubi si squarciano
ora che gli eroi son morti
vedo i tentacoli della luce
avvolgere intrappolare soffocare

nella sala il lieve gracchio
della televisione lasciata accesa
fuori, il rumore di fondo della tangenziale
richiudo la finestra, torno a letto
nel vuoto pneumatico del dormiveglia
al sogno a più puntate e dimensioni

ora che il vento è gelido
ora che le nubi si squarciano
ora che gli eroi son morti...

*** 

Il mio lavoro...

Il mio lavoro è la mia bara.
Ore di polvere, bocca di zero, abisso, rullo,
faldoni a navigare l'ottuso mare della coscienza.
Tuba una tortora nel ricordo.
Un motore s'avvia lontano.
L'azzurro del cielo è lamento, un improvviso incupirsi.
L'infinito brusio della gente
e l'ascia del bisogno che spacca la mente.
Vedo l'ombra della betulla stormire silenziosa sul muro ocra di fronte.
Il guasto arcobaleno delle presenze-assenze.
Fisso lo schermo del PC e m'immagino sulla Luna senza scafandro,
seduto a una scrivania di polvere...

            me pensante all'eternità

e mi sconsola la mia, la nostra, finitezza.
Quando usciremo a riveder le stelle?


 



ÇLIRIM  MUÇA


Clirim Muca
























Gli ulivi di San Vito dei Normanni
(dedicato a Lorenzo Caiolo)

Antichi guerrieri sono
questi inermi ulivi
fermi nell'atto della fuga
o dell'ultimo assalto.
Le loro uniformi a brandelli,
e nei corpi squarci dai dardi
di un destino beffardo,
dai fulmini di un cielo
talora tempestoso.

A ogni chioma d'argento
un elmo di luce
dona il generoso mattino.
Curioso il vento s'intrufola
tra i rami a tastare ferite,
a caricarsi di glorie,
svegliandoli dai sogni
e nel sogno cercan riparo.

Morire è nascere altrove.
L'anima leggera in balia dei venti:
un granello di sabbia
un frumento ringrinzito
un ossicino d'ulivo...
In quest'angolo di Puglia commosso
ho abbracciato tronchi d'ulivo,
come fossero miei antenati.
Il capo ho poggiato su petti e grembi
ruvidi, screpolati, familiari.




MARIO RONDI

Mario Rondi


















La Cubista

La signora Liberata faceva la cubista in una discoteca di provincia: ballava per liberarsi dalle angosce che ogni notte la tormentavano con perfidi ricordi di amori svaniti nel nulla.
Nel rumore assordante della musica, sulla sua pedana di cristallo, cancellava l’onda dell’ansia che sempre la tormentava: avrebbe voluto stare nel silenzio più assoluto, davanti a un camino che mandava scintille, ma per sopravvivere si era adattata a quel lavoro.
I giovani frequentatori del locale andavano in estasi quando la vedevano in azione: si muoveva sui tacchi a spillo come una delicata pantera, orchestrando con sapienza i suoi passi felpati, per mettere in mostra le forme slanciate con vaghi sorrisini.
In realtà lei viveva di teneri pensieri, di trepide aspirazioni: di giorno stava per ore alla finestra a contemplare il volo dei passeri, ad ammirare l’andirivieni delle formiche in una fessura del muro.
Di notte danzava estasiata sotto il frastuono delle casse acustiche a tutto volume: con le languide mosse del corpo slanciato la sua mente fuggiva lontano, in un mondo incorrotto, dove tutto era incanto e leggerezza.
Il suo pensiero era rivolto a cancellare l’onta di un passato non proprio esaltante: con caparbietà si era avviato in un cammino di redenzione, per togliersi di dosso le incrostazioni di una vita insignificante.
Era diventava una convinta vegetariana, per eliminare le contaminazioni della carne: si nutriva di erbe selvatiche raccolte nei boschi, di germogli e infiorescenze che conosceva alla perfezione, nella convinzione che solo con l’assoluto rispetto della natura avrebbe ricuperato la purezza perduta.
Nel ballo notturno consumava con movimenti flessuosi i grassi superflui: era un esercizio interiore di autocontrollo che placava le ansie e allontanava qualsiasi proposito di vendetta contro chi aveva approfittato della sua ingenuità.
Il vortice del suo corpo straripante mandava in visibilio i giovani nottambuli che la sognavano tra le loro braccia: erano disposti a tutto per sfiorare un lembo del suo vestito svolazzante, per sentire da vicino il profumo inebriante della sua carne sussultante.
Lei manteneva le distanze con un sguardo fulminante che bloccava sul nascere le pretese di una facile conquista: nella frenetica danza cercava l’estasi del distacco, la sublimazione delle proprie miserie, per allontanarsi da quel senso di colpa che la tormentava.


Quando scorse sulla pista di ballo il signor Innocente, che se ne stava in disparte senza accennare al minimo passo di danza, si accorse di essersi imbattuta in un perdente come lei: teneva gli occhi bassi, evitando di guardarla, un poco infastidito dal rumore eccessivo della musica.
Sembrava essere capitato per caso, forse trascinato da amici che presto lo aveva abbandonato per gettarsi nella calca: tamburellava le mani su un tavolino per darsi una certa importanza, ma si capiva che si trovava a disagio, con l’occhio che vagava smarrito nella sala in cerca di aiuto.
Per attirare la sua attenzione lei faceva la spavalda, ancheggiando voluttuosa sul cubo di cristallo e mettendo in mostra le linee mozzafiato del suo corpo, costipato in bustini e giarrettiere sfavillanti: lui sembrava non vederla, travolto da un’onda di tristezza che lo trascinava in un gorgo asfissiante.
Non aveva però fatto i conto con la sua caparbietà: saltellava sulla pedana come un uccellino che vuole spiccare il volo, si girava su un fianco, scoprendo uno spacco laterale, si piegava in avanti come a offrire la maestosità del petto, ruotava la testa ricciolina per mandare un saluto capriccioso, ma lui sembrava indifferente a tanta frenesia.
Teneva gli occhi bassi, tormentato da oscuri pensieri, incapace di compiere il più piccolo movimento: quando la scorse che caracollava sulla sfera di cristallo, per prima cosa gli sembrò eccessiva per tutto quel fru fru di piume e lustrini che agitava nel suo numero d’attrazione.
Non cercava un corpo così ridondante, ma ad un’occhiata trasversale intuì una strana irrequietezza: per un gioco del destino, in quegli occhi scintillanti gli sembrò di cogliere una richiesta d’aiuto.
Lei a un certo punto sembrò ritirarsi, come pentita per l’eccesso del suo assalto, rivolgendo la sua attenzione ad altri esagitati avventori: orchestrava con puntiglio la messa in scena delle sue conquiste, che avrebbero ottenuto qualche piccolo regalo, da aggiungere alla sua scarsa retribuzione.
Innocente aveva intuito, sotto lo sguardo sfrontato, la disarmante tenerezza della signora Liberata: non lo colpivano le mosse felpate di esperta ammaliatrice con cui teneva in scacco i corteggiatori, ma l’onda della dolcezza che filtrava a tratti dai suoi movimenti.
Lei recitava la sua parte alla perfezione, slanciando in avanti le gambe a scoprire pizzi ricamati, ruotando il busto per lasciare intravedere l’onda dei seni sussultanti e il pubblico strillava estasiato dalle sue mosse accalappianti, dai movimenti flessuosi che spingevano al visibilio.
Con che maestria celava il tormento segreto che nascondeva in fondo al cuore! Nel ballo vorticante sul suo cubo tutte le preoccupazioni erano cancellate, tutte le incertezze sembravano per sempre bandite!
Innocente aspettando la conclusione della numero, coltivando la sua atavica rassegnazione: qualcosa però era successo segretamente dentro di lui che per la prima volta si sentiva risvegliato dall’apatia.
Lei da lontano lo teneva d’occhio, stupita della strana indifferenza ai suoi studiati adescamenti, ma intuiva un desiderio di fuga che era molto simile al suo nei momenti di sconforto: quando si fu sbarazzata della gazzarra degli esagitati avventori, si diresse verso di lui che rimaneva in disparte.
Alle sue mosse provocanti, con languidi piegamenti sui fianchi e sorrisi sfrontati, lui rispondeva con la più assoluta indifferenza, come se volesse cancellare il ricordo di antichi abbracci: nell’eccesso di lusinghe, col sussultare delle piume del succinto vestito, intuiva però una strana incertezza.
Quando distrattamente sorrise, lei però presto fuggì, lasciandosi dietro una scia di profumo: si era accorta che il suo pensiero era andato in una direzione pericolosa e ne fu terrorizzata.
L’improvvisa fuga aveva però risvegliato in lui un antico ricordo e per un attimo si stupì che nel corso del tempo alcuni misteri si potessero ripetere: non la rincorse, ma rimase immobile al suo posto, con un bicchiere in mano per cancellare ogni ipotetica coincidenza.
Più tardi lei tornò, ritrovandolo immerso nelle sue meditazioni: ne provò un’istintiva pietà, ma ad un’occhiate trasversale intuì la sua immensa tenerezza.
Ancheggiava spavalda sulla pedana, ma intanto capiva che erano tutti e due nella stessa condizione: pervasi da un desiderio di essere altrove.
Chissà perché a un certo punto cominciò a ridere, come se si rendesse conto che la situazione era comica, nell’impossibilità di uscire dalla farsa che li circondava: allora anche lui, distolto dai suoi tristi pensieri, si mise a ridere sommessamente per confermare la miseria che li circondava.
Quel riso insensato che usciva dalle loro bocche li accomunava nel segreto desiderio di fuga: arrivarono presto altri avventori particolarmente su di giri che infilavano banconote negli slip della ballerina per ottenere mosse elettrizzanti.
Lei assecondava premurosa tutte le richieste più strampalate per mandarli in visibilio, lanciando occhiate languide che di molto li gratificavano nella baraonda generale.
Il giorno dopo Innocente decise di farle un regalo particolare: dove lavorava preparavano quello che lui chiamava il pane degli angeli, destinato per lo più agli istituti religiosi che poi lo distribuivano nelle parrocchie.
In realtà erano le parti delle particole che venivano scartate perché non risultavano perfette, come pure i frammenti avanzati dai tagli: lui le mise in un pacco, vistosamente decorato di nastrini per regali e le portò a lei.
Si affrettò a dire che le particole non erano state consacrate, per non fare la parte del blasfemo e ridendo aggiunse che si potevano usare per la colazione, se si volevano evitare pesi sullo stomaco.
Fu per lei un regalo meraviglioso: rappresentava perfettamente la sua speranza di redenzione.
Così al mattino si nutriva di particole, sentendosi subito purificata delle proprie colpe: un’onda di leggerezza invadeva il suo cuore, sospingendola lontano, in un mondo di candore e tenerezza.
Adesso in certi momenti della giornata, quando guardava dalla finestra il paesaggio imbronciato, avvertiva un tremito interiore, come se qualcuno da lontano la chiamasse, le lanciasse un segreto messaggio.
Di notte sul suo cubo mandava scintille elettrizzanti che incantavano gli avventori: i suo corpo si esibiva in spericolate acrobazie, come se accrescesse lo slancio per misteriosi sortilegi.
Innocente la sbirciava da lontano: lei si sentiva come protetta dal suo sguardo leggero e si cimentava nelle mosse più audaci che mandavano in visibilio il pubblico che non lesinava sulle mance.
In certi momenti però, quando l’entusiasmo era alle stelle, lei avvertiva uno strano richiamo che giungeva da un punto misterioso della sala: era come se una forza misteriosa, che si nascondeva da qualche parte, volesse comunicarle qualcosa.
Adesso si cibava solo di particole sconsacrate perché intuiva che le donavano uno slancio vitale del tutto particolare: le ansie come per incanto si annullavano e si sentiva spinta verso un’atmosfera rarefatta, dove forse qualcuno misteriosamente la chiamava.
In certi momenti della giornata avvertiva una specie di fruscio nell’aria e sentiva che succedeva qualcosa, come se qualcuno si stesse avvicinando, ma non riusciva mai a vedere niente, perché forse i suoi occhi non erano ancora pronti per una rivelazione.
A volte credeva che fossero delle allucinazioni, dovute all’eccessiva concentrazione nel ballo o al volume troppo alto della musica o forse per l’ansia causata da un lavoro che non amava.
Una notte, quando si contorceva nel suo cubo per sconcertare i sempre più esigenti spettatori, a un certo punto nel frastuono della musica le sembrò di udire una voce che la chiamava: era stato un richiamo soffuso, ma al tempo stesso imperioso e lei ne rimase sconvolta.
Non vedeva nessuno attorno a sé, se non i soliti esagitati avventori, ma quel soffio misterioso non poteva essere confuso col vociare degli scalmanati: giungeva da un’altra parte, da un mondo inaccessibile che misteriosamente voleva comunicare con lei, forse metterla in guardia per una minaccia incombente.
Innocente aveva intuito nei suoi occhi una strana irrequietezza, ma non riusciva a comprenderne il significato, quando tutti la guardavano entusiasti per le sue acrobazie sul cubo: segretamente gli spettatori sognavano di affondare le mani in quel corpo sussultante che sembrava vibrare.
C’era però qualcosa che preoccupava Liberata nel suo massimo di splendore: era quel segnale misterioso che le giungeva da lontano, come da un mondo segreto che lo affascinava, ma che al tempo stesso temeva per le imprevedibile conseguenze.
Continuava a sbirciare in ogni angolo della sala, nella speranza di intravedere qualcuno, ma nessuno si faceva vivo, mentre nella sua mente cresceva un misterioso tumulto.
Alla fine, quando si stava piegando su un fianco per mettere in mostra la linea slanciata del suo corpo proteso all’abbraccio, le sembrò di scorgere qualcosa di indistinto che sbucava dal buio: rimase senza fiato, paralizzata dall’emozione quando capì che era un angelo che veniva in suo soccorso.
Con gesti risoluti sembrava volerla invitarla a seguirla verso una direzione misteriosa: era sul punto di spiccare il volo e trascinarla con sé oltre le luci intermittenti della pedana, al di là del cubo di cristallo che conteneva tutta la sua vita, per librarsi nell’immenso che si intravedeva oltre le finestre spalancate…

 






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