Pagine
- HOME
- IL LATO ESTREMO
- FUORI LUOGO
- AGORA'
- LA LAMPADA DI ALADINO
- ALTA TENSIONE
- FINESTRA ERETICA
- ARTE
- SOCIETA' DI MUTUO SOCCORSO
- I DOSSIER
- I LIBRI DI GACCIONE
- BIBLIOTECA ODISSEA
- SEGNALI DI FUMO
- I TACCUINI DI GACCIONE
- NEVSKIJ PROSPEKT
- LA GAIA SCIENZA
- LIBER
- GUTENBERG
- GROUND ZERO
- LA CARBONERIA
- CAMPI ELISI
- LA COMUNE
- OFFICINA
- QUARTIERE LATINO
- IL PANE E LE ROSE
- MARE MOSSO
- LITTERAE
- DALLA PARTE DEL TORTO
- NO
- NOTE
- FORO
- KAOS
- LUMI
- ARCA
- CIAK
- IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE
UNA NUOVA ODISSEA...
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
Buon compleanno Odissea
sabato 27 aprile 2024
È ORA DI DIRE BASTA!
Il
fascismo, apparentemente sconfitto dall’insurrezione armata della Resistenza, non
ha mai smesso di operare, sotto varie vesti, dall’immediato dopoguerra ad oggi,
a volte come semplice supporto alla destra politica ed economica, a volte come
elemento di punta dell'offensiva reazionaria e conservatrice: lo testimonia la
lunga scia di sangue e di violenza che ha attraversato questo paese (come non
ricordare le stragi di P.zza Fontana, di Brescia, ai treni, alla stazione di
Bologna.).
Oggi poi, grazie al diffondersi di un
clima generale di intolleranza, razzismo e sessismo - che ha modificato i
rapporti sociali, i comportamenti collettivi e le dimensioni individuali,
basato com'è sul disprezzo e l’odio per le presunte ‘diversità’ - si ripropone
come sbocco ‘naturale’ di una mentalità autoritaria e di una strutturazione
gerarchica della vita sociale. Le politiche suicide della sinistra hanno fatto
il resto con la precarizzazione del lavoro, l’adesione al neo liberismo,
l’attacco alle conquiste sociali del ciclo di lotta precedente, l’ossessione
per la legalità dimenticando che la legge è sempre frutto dei rapporti di forza
sociali. Il risultato lo vediamo con Meloni e la sua cricca al potere. Ciò che
deve preoccupare oggi è il rafforzamento di una vasta rete di alleanze di
fatto, che va dalle destre istituzionali alla criminalità organizzata e ad ampi
settori dell’apparato statale, fino ai gruppuscoli dell’estremismo più becero.
Infatti, al di là dei linguaggi, i loro obiettivi sono identici (migranti,
realtà anarchiche e comuniste, centri sociali, sindacati di base, comportamenti
giovanili, etc.) e fatti propri anche da quei sedicenti ‘moderati’ che
vorrebbero più polizia e più repressione, rafforzando quell’apparato statale
che, tramite magistratura e polizia, arresta, denuncia e persegue penalmente l’attivismo
antifascista, criminalizzando le manifestazioni di piazza con il principio
della responsabilità collettiva e dilatando l’applicazione degli articoli
sull’associazione sovversiva. Quello
stesso apparato che, tra le file delle forze di repressione interna ed esterna,
dell’esercito, arruola e mantiene in servizio individui dichiaratamente
fascisti.
Viviamo
in un clima internazionale dominato dalle grandi manovre degli imperialismi,
che per ridisegnare le varie zone d'influenza e di dominio hanno scatenato
guerre atroci, ridando fiato ai totalitarismi etnici e religiosi, con il massacro
e il genocidio di popolazioni inermi.
Viviamo
in una pseudo-democrazia che ci fa credere di essere individui liberi solo
perché ci chiama periodicamente alle urne negandoci, l’indomani, il diritto
alla partecipazione e alle decisioni che riguardano la nostra vita individuale
e collettiva.
Viviamo
in città che lasciano sfilare impunemente i neo-fascisti con tanto di saluto
romano e vessilli nazisti e incarcera chi vi si oppone.
Viviamo
sotto il continuo attacco politico-clericale all’autonomia scolastica, alle
libertà individuali e collettive, all’autodeterminazione e al diritto di scelta
per le donne, alla libera sessualità, per garantire il privilegio patriarcale e
l'imposizione di un modello unico di relazioni interpersonali fino alla
sopraffazione e alla violenza.
Viviamo
sotto il ricatto dell'accettazione passiva di un lavoro salariato malpagato, sempre
più precario, a rischio d’infortuni e di morte, sottoposto alle speculazioni
antiumane della ricerca del profitto ad ogni costo.
Viviamo
in territori sempre più inquinati, dominati dalla speculazione - che ci nega il
diritto alla casa - e dalla devastazione ambientale (Grandi Opere, TAV, Ponte
sullo stretto, ecc.).
Viviamo
in città sempre meno socializzanti, militarizzate e più “impaurite”,
condizionate dall'offensiva mediatica dei mezzi di disinformazione di massa.
È
ora di invertire la tendenza!
Ora più che mai vi è la necessità di affermare
la nostra più ferma opposizione a questo sistema di oppressione e di
sfruttamento, ai tentativi di aumentare il nostro coinvolgimento in guerra, ai
nuovi tentativi sempre più autoritari che si delineano all’orizzonte con le
‘riforme’ istituzionali del premier solo al comando.
Abbandoniamo ogni illusione
parlamentaristica e diamo vita ad organizzazioni di base senza gerarchie, senza
funzionariato di partito e di apparato, per il rilancio dell’azione diretta
collettiva, la gestione in prima persona della lotta, il rifiuto della delega
come garanzie di un percorso autogestionario che non si limiti agli
“aggiustamenti”, alle “compatibilità” interne all’organizzazione capitalistica
del lavoro e della società, ma ponga all’ordine del giorno la trasformazione
radicale dei rapporti sociali, per un mondo di libere ed uguali.
Dobbiamo
sostenere lo sforzo di quanti nel mondo, dal Rojava, al Chiapas, alla Palestina,
lottano per conquistare la libertà e la propria organizzazione sociale.
Per rispettare la memoria storica, per
ricordare che la lotta antifascista è nata nel 1919 e non è finita il 25 Aprile
di settantanove anni fa, per onorare i compagni e le compagne cadute,
l’antifascismo deve tornare ad intrecciarsi alla critica radicale
dell’esistente ed alla prospettiva rivoluzionaria di una società senza
gerarchie né sfruttatori, sconfiggendo sul terreno della pratica sociale -
autogestionaria, solidale, anticapitalista, antirazzista, antisessista - ogni
tentativo di criminalizzazione delle nostre vite e di attacco alle libertà
individuali e collettive.
CONTRO TUTTE
LE GUERRE DEGLI STATI!
LIBERTÀ PER
LE ANTIFASCISTE E GLI ANTIFASCISTI!
LIBERTÀ PER
TUTTE LE PRIGIONIERE E I PRIGIONIERI POLITICI!
FEDERAZIONE ANARCHICA -
MILANO
Viale Monza 255 - faimilano@inventati.org
martedì 23 aprile 2024
SIAMO SULLA BUONA STRADA
di Angelo
Gaccione
Il
presidente della Polonia si è detto disponibile ad accettare sul proprio
territorio armi nucleari. La Germania ha dato disposizione ai propri soldati di
iniziare esercitazioni militari come se la nazione fosse in guerra. La
Finlandia è pronta a dare all’Ucraina ogni sorta di missili. In Italia, a detta
di lavoratori portuali, c’è un via vai di armi come non si vedeva da tempo, e
quasi tutte le nazioni dell’Unione Europea – con la von der Leyen in testa –
parlano di economia di guerra, di preparare i loro cittadini alla guerra. Gli
Stati Uniti daranno all’Ucraina una marea di miliardi di dollari per continuare
la guerra e presto arriveranno a Kiev le armi che da mesi Zelensky continuava a
chiedere. Il primo ministro ungherese Orbán ha detto pubblicamente: “Siamo a un passo dall’invio di truppe occidentali
in Ucraina e Bruxelles gioca col fuoco”. Preoccupato
ha affermato: “Ma noi ne resteremo fuori”. Non è perché si è convertito
al pacifismo che Orbán ha fatto tali affermazioni; le ha fatte semplicemente
perché ha capito quello che gli ottusi capi di Stato e di Governo che spingono
per la “soluzione finale” dell’Europa e del mondo intero non hanno capito e non
vogliono assolutamente capire: che questo accerchiamento costringerà la Russia a
vendere cara la pelle e ad usare le sue novemila testate nucleari. Ha commesso
una sola ingenuità il ministro ungherese: quella di credere che in un conflitto
nucleare ci si possa tirar fuori. E stanno commettendo una grossa
ingenuità gli Stati Uniti credendo che gli europei faranno la guerra alla
Russia in sua vece, e che la morte, le rovine, le distruzioni, riguarderanno
solo questa parte stupida ed ottusa di mondo e che Dio salverà la loro nazione
dal diluvio nucleare. Una illusione di cui non potranno pentirsi, perché dopo
non ci sarà un dopo; nessuno potrà disquisire sui torti e sulle ragioni,
sui calcoli errati e sugli azzardi, su chi era stato più criminale o più cieco,
se ne valesse la pena o meno.
Riprendo qui il titolo di questo scritto e ribadisco che siamo sulla buona
strada dell’annientamento finale. Le stesse opinioni pubbliche mondiali
mostrano che così deve essere: da una parte l’indifferenza generale, l’ignavia;
dall’altra la reazione isterica (uomini o donne non fa differenza) di chi vuole
andare fino in fondo, fino all’estinzione generale, totale, definitiva. Costi
quel che costi. Muoia Sansone con tutti i filistei. Che morte sia. Così vuole
questa parte di opinione pubblica mondiale. E non si tratta solo di gente malvagia,
accecata, biliosa. Ovviamente nell’insieme ce ne sarà, ma è formata anche di
persone di raffinata cultura e di buone letture; di studiosi sensibili al
patrimonio artistico, amanti della musica, del teatro, del paesaggio, della
natura, del pensiero. Non farebbero del male a un lucherino e in genere sono miti,
moderati, e per nulla estremisti. Purtroppo in tempi calamitosi come questi
accade, e la storia ce lo insegna, che anche le menti più lucide finiscono per
farsi travolgere dal conformismo generale. Senso critico e dubbio vengono
rimossi e si dimentica l’insegnamento di questi versi ammonitori di Brecht per
ogni guerra: “Al momento di marciare / molti non sanno / che alla
loro testa marcia il nemico. / La voce che li comanda
/ è la voce del loro nemico. / E chi parla del nemico / è
lui stesso il nemico.”
BIENNALE DI VENEZIA
di
Gianmarco Pisa
Precarietà, sfruttamento,
colonialismo: Serbia e Kosovo alla Biennale.
Separati della politica, dagli interessi
di élite nazionalistiche troppo spesso incapaci di prospettiva e di visione,
lacerati dai conflitti conseguenti all’aggressione imperialistica delle potenze
occidentali contro la Federazione Jugoslava del 1999, tenuti in una sorta di
“limbo” dalle ambivalenze della diplomazia e dalla irresolutezza di una
riconciliazione che stenta a prendere il largo, Serbia e Kosovo sono invece
sorprendentemente accomunati dall’intensità e dalla profondità dei messaggi
sociali e politici che i loro padiglioni alla Biennale di Venezia esprimono.
Opere d’arte di grande impatto, visuale ed emotivo, con al centro, rispettivamente,
due grandi questioni politiche e sociali del nostro tempo: la condizione delle
donne lavoratrici e la precarietà del lavoro, da una parte; il colonialismo e
il neocolonialismo, le moderne forme di oppressione e spoliazione,
dall’altra.
Il Padiglione del Kosovo alla LX
Esposizione Internazionale d’Arte - Biennale di Venezia - presenta l’installazione
dal titolo “The Echoing Silences of Metal and Skin” il cui tema-guida è la
dimensione di genere del lavoro, la condizione femminile nel lavoro e, in
generale, le disuguaglianze, in particolare di genere, sul posto di lavoro.
Partendo da due cruciali presupposti storico-politici, vale a dire la
deindustrializzazione dell’economia produttiva e la deregolamentazione del
mondo del lavoro, che caratterizzano l’insieme delle economie neoliberiste (è
la cifra della precarizzazione dei rapporti sociali a partire dagli anni
Ottanta e della fine dell’intervento pubblico in economia), l’artista Doruntina
Kastrati si interroga, attraverso la sua installazione, sulla precarietà del
lavoro, in particolare nel settore dell’industria leggera, all’indomani della
guerra del Kosovo del 1999, una stagione storica segnata da una radicale e
drammatica transizione da un sistema a orientamento socialista, contraddistinto
dall’intervento pubblico e dalle protezioni sociali, ad un sistema
neoliberista, segnato viceversa da
privatizzazioni, smantellamento dell’economia nazionale, precarietà.
In questo quadro si inserisce, poi,
anche una specifica, peculiare, dimensione di genere, dal momento che la “femminilizzazione” del lavoro in determinati settori
(l’industria alimentare, dalle conserve alla trasformazione) ha finito
per cristallizzare i ruoli tradizionali di genere presenti all’interno della
società, a maggior ragione in una società, come quella albanese kosovara, nella
quale persistono tracce profonde del retaggio patriarcale. Letta in questa
prospettiva, l’installazione del padiglione kosovaro, “The Echoing Silences of
Metal and Skin” corrisponde anche al bisogno di una presa di parola nello
spazio pubblico e porta le narrazioni delle donne, direttamente e
impietosamente, di fronte all’opinione pubblica. Questo progetto artistico si
basa, infatti, su una ricerca sociale, che ha portato l’artista a raccogliere
una serie di storie orali narrate dalle operaie di una fabbrica di lokum,
le cosiddette “delizie turche” (turkish delights), a Prizren, che è, al
tempo stesso, la città natale dell’artista, la seconda città più grande del
Kosovo, e la città cuore della presenza turca nella regione.
Il titolo
dell’installazione, di conseguenza, è presto spiegato. Le donne svolgono, in questo genere di
produzione, un lavoro stancante e
ripetitivo, una forma tipica di marxiana alienazione del lavoro, che le
costringe, tra l’altro, per molte ore al giorno, a stare in piedi: cosicché,
quasi un terzo delle operaie subisce interventi chirurgici al ginocchio. Le
protesi metalliche (il Metal del titolo) impiantate sotto pelle (la Skin)
nelle ginocchia sono la traccia di un lavoro massacrante per un salario basso,
in una condizione, ancora e duramente, di alienazione e di sfruttamento.
L’installazione è infatti composta da una serie di sculture indipendenti, che
riproducono allusivamente la forma dei gusci delle noci utilizzati per le
“delizie turche” e alludono, al tempo stesso, agli impianti chirurgici e alla
produzione industriale, con la scelta di un’associazione potente, ospedale e
fabbrica, tra luoghi che possono essere, al tempo stesso, di contenzione e di
liberazione, di oppressione e di salvezza.
Il Padiglione della Serbia alla
Biennale di Venezia, d’altra parte, avendo come luogo artistico centrale la
mostra dal titolo “Exposition Coloniale”, è un richiamo agli esiti e alle
conseguenze del periodo coloniale e una denuncia del colonialismo in tutte le
sue manifestazioni ed espressioni. È questo sfondo storico, infatti, ad aprire
la strada all’esplorazione dell’artista, Aleksandar Denić, intorno alla
dimensione contemporanea del colonialismo e all’impatto delle forme perduranti
e tuttora attuali di divisione, oppressione e sottomissione di popoli e
culture. La mostra allude chiaramente al fatto che tali temi, dalla divisione
internazionale del lavoro allo sfruttamento delle risorse fondamentali, fino
alle moderne forme di colonialismo e neocolonialismo, non solo non rappresentano
un retaggio del passato, ma continuano a essere pertinenti, certamente nel
campo della politica e dell’economia, ma anche nella sfera della cultura, nel
quadro dei valori e dei diritti umani. Qui, strutture, manufatti, conglomerati,
vengono rappresentati come veri e propri “cimeli” sociali, sfidando, al tempo
stesso, i visitatori, “costringendoli” a interrogarsi sulla loro visione o percezione
delle dinamiche e dei meccanismi del potere, dell’oppressione, del consumismo,
e, in definitiva, della realtà del mondo come lo conosciamo, sollecitando anche
interrogativi più profondi, sulle sue condizioni e sulla sua trasformazione.
lunedì 22 aprile 2024
GLI AUGURI DELLA COREIS
di Abu Bakr Moretta*
Auguri
per la Liberazione al Governo Italiano e alla Comunità Ebraica.
Questa
settimana è benedetta anche per la celebrazione di Pesach. Come Presidente
della COREIS trasmetto gli auguri all’UCEI, all’Assemblea Rabbinica d’Italia e
alle famiglie dei cittadini israeliani rapiti da Ottobre per la ricorrenza
della Pasqua Ebraica. Gli insegnamenti tradizionali ci ricordano che Pesach
rappresenta per i fratelli e le sorelle della comunità ebraica in Italia e nel
mondo la liberazione dalla tirannia e dalla schiavitù della corte di Faraone e
l’inizio di un nuovo ciclo per il monoteismo nell’adorazione del Dio Unico che
unisce ebrei, cristiani e musulmani.
Preghiamo insieme per la Pace e per la cessazione dei conflitti e delle
ostilità nei confronti dei cittadini e dei credenti ebrei, cristiani e
musulmani in Iran, Israele, Palestina, Russia e Ucraina.
La sicurezza nazionale e il legittimo combattimento contro il male della
corruzione nelle mafie e contro la violenza nel terrorismo non devono mai
dilagare in attentati a sedi diplomatiche, dimostrazioni e ritorsioni teatrali
di droni militari, boicottaggi del sapere e della collaborazione accademica per
scatenare una crisi escatologica in Medio Oriente e in Occidente.
Preghiamo affinché il Governo Italiano possa impegnarsi e ispirare una politica
di mediazione e di Pace favorendo i soccorsi umanitari alla popolazione a Gaza
ed evitando ogni ulteriore bombardamento, occupazione territoriale permanente e
massacro di famiglie a Rafah.
Preghiamo e operiamo affinché la discriminazione e l’odio contro gli ebrei e i
musulmani e tra cristiani in Europa non sia oggetto di strumentalizzazione e
propaganda politica. Lavoriamo insieme per la Conoscenza, per la Fratellanza, nella
Giustizia e nella Pace.
Preghiamo insieme per la Pace e per la cessazione dei conflitti e delle
ostilità nei confronti dei cittadini e dei credenti ebrei, cristiani e
musulmani in Iran, Israele, Palestina, Russia e Ucraina.
La sicurezza nazionale e il legittimo combattimento contro il male della
corruzione nelle mafie e contro la violenza nel terrorismo non devono mai
dilagare in attentati a sedi diplomatiche, dimostrazioni e ritorsioni teatrali
di droni militari, boicottaggi del sapere e della collaborazione accademica per
scatenare una crisi escatologica in Medio Oriente e in Occidente.
Preghiamo affinché il Governo Italiano possa impegnarsi e ispirare una politica
di mediazione e di Pace favorendo i soccorsi umanitari alla popolazione a Gaza
ed evitando ogni ulteriore bombardamento, occupazione territoriale permanente e
massacro di famiglie a Rafah.
Preghiamo e operiamo affinché la discriminazione e l’odio contro gli ebrei e i
musulmani e tra cristiani in Europa non sia oggetto di strumentalizzazione e
propaganda politica. Lavoriamo insieme per la Conoscenza, per la Fratellanza, nella
Giustizia e nella Pace.
[*presidente]
FORMA POLITICA E FORMA PARTITO
di
Franco Astengo
Nel
rivolgermi a un numero limitato di interlocutori cercherò di affrontare, pur
disponendo di limitate capacità intellettuali, il tema della forma-partito.
Forma
partito
come forma politica visto almeno sul versante delle forze costituzionali
di opposizione: una questione che pare tornata di grande attualità con le
scelte compiute in occasione della formazione delle liste delle candidate/i per
le elezioni europee condotte con metodi più riconducibile ad un casting per una
serie televisive piuttosto che per definire presenze di rappresentanza politico-istituzionale
della complessità sociale. Liste che non sono più formate attraverso la
crescita di una classe dirigente. In questo quadro si è anche aggiunta la
proposta per ora accantonata di definitiva personalizzazione del PD (quasi un
tentativo di allineamento al modello di partito personale).
Andando
per ordine: nel corso dell'infinita “transizione italiana” e nel modificarsi
proprio della natura delle organizzazioni politiche (analizzate nel corso del
tempo: dal partito ad integrazione di massa a “catch all party” fino a partito
azienda, partito personale, partito a “democrazia del pubblico”, partito della “democrazia
recitativa”) dalla classe dirigente della parte costituzionale di opposizione
alla destra non sono stati affrontati almeno due punti:
1) Il tema del progetto. A questo proposito non compare un’ipotesi
di superamento dell’impostazione di semplice gestione dell’esistente (cui sono
affidate anche le grandi transizioni da quella ecologica a quella digitale) e
di andare oltre all’avvenuto sacrificio di identità sull’altare del
governo come è avvenuto in diverse fasi contrassegnate da governi “tecnici” o
di “solidarietà”. In particolare Il PD, principale soggetto presente nell’opposizione
che si vorrebbe democratico-costituzionale, soffre di un’assenza di riferimenti
complessivi sul piano culturale che proviene da lontano, almeno
dall'espressione di quella “vocazione maggioritaria” basata su di una mera
visione elettoralistica dello scopo stesso di esistenza della formazione
politica.
L’assenza di progetto del resto accomuna il PD ad altri soggetti
sia a sinistra, sia a vocazione “centrista”. Manca complessivamente una visione
di collegamento culturale, non viene esercitata alcuna funzione pedagogica, non
è stata aperta una seria riflessione sulla completa assunzione
dell’ideologia neoliberista verificatasi a suo tempo nella fase
dell’Ulivo;
2) Il tema della forma politica. “Forma politica” e non tanto “Forma
partito”: la seconda definizione quella appunto di “Forma partito”, infatti,
risulterebbe quanto meno semplicistica proprio rispetto alla realtà dei tempi
che stiamo vivendo. La “politica” ha subito, anche sulla spinta
dell’innovazione tecnologica in campo mediatico e della comunicazione, una
modificazione profonda passando (come ci è già capitato più volte di
sottolineare) da fatto prevalentemente fondato sul pensiero come espressione di
una identità culturale a questione di immagine e di richiesta di scelta
elettorale basata sulla competizione individualistica dell’apparire. In questo
senso è risultato micidiale il meccanismo dell’elezione diretta dei Sindaci e
dei Presidenti delle Giunte Regionali (questi ultimi ormai impropriamente definiti
come “Governatori” dai mezzi di comunicazione di massa). Elezione diretta che
sicuramente ha garantito la stabilità degli esecutivi al prezzo di una vera e
propria mortificazione dei consessi elettivi e di conseguenza della
rappresentanza e della partecipazione. Da questa analisi si
deduce oggettivamente la necessità di formare un vero e proprio sbarramento all’ipotesi
di premierato che la destra sta ponendo all’ordine del giorno.
Su questi due punti, dell’identità progettuale e della forma
dell’agire politico, non appare nel sistema politico italiano una qualche
tendenza a rinnovarsi e anzi, sul piano dell’indeterminatezza identitaria,
sembra esercitare una sorta di coazione a ripetere rispetto al passato. In
realtà si tratta di una carenza di visione culturale che ha attraversato il
sistema fin dal processo di liquidazione del PCI. A sinistra non si sono realizzate scelte: né quella della
socialdemocratizzazione, né quella riferita al modello americano (cui pare
tendere Schlein di cui non deve essere dimenticata la forma di elezione al di
fuori dalle istanze di partito). A complicare il quadro va inoltre ricordato
come a PD e AVS soggetti già provenienti tra loro da differenti culture tocca
misurarsi con l'antipolitica che permane come marchio identitario del M5S.
Non si può dimenticare come,
oggettivamente, il sistema lasci ampi spazi vuoti che non saranno sicuramente
colmati da un tentativo di definitivo allineamento proprio al modello del
partito elettorale fondato sulla “democrazia recitativa”; partito nel quale la
sintesi della feudalizzazione avverrebbe attraverso il dialogo diretto tra Capo
e potenziale elettorato, in sostanza tra il Capo e le masse.
CONFRONTI
Fascismo-antifascismo.
A differenza di quanto affermato da
Giovanni Minoli ex megadirigente galattico RAI, che ospite il 14 aprile scorso
della trasmissione Chesarà di Serena Bortone, ha affermato che il dibattito
fascismo-antifascismo è inutile, da cittadino mega-semplice penso che in questo
paese sia un dibattito indispensabile. A riprova, nella stessa trasmissione una
settimana dopo, è stato eliminato dalla scaletta annunciata Antonio Scurati,
reo di aver chiesto nel suo intervento il pronunciamento della parola ‘antifascista’
alla Presidente del Consiglio in carica. Agli zelanti cortigiani autori del
deferente omaggio, ha fatto eco la Presidente Meloni (ma com’è democratica lei)
che ha pubblicato il testo di Scurati gratuitamente sulla sua pagina Facebook,
spiegando che in RAI era stato scartato causa troppo esosa richiesta economica
dello scrittore. Ma riscaldata dalla “fiamma”, la Presidente continua a
rinunciare all’uso della parola antifascista, sostituendola con perifrasi buone
per tutti i palati, post fascisti compresi. Fra i cortigiani si ricorre di
continuo alla impropria contrapposizione, “ma chi si dice antifascista, perché
non aggiunge di essere anticomunista?”, e dietro questo paravento credono di
ripararsi dal dato di fatto tutto italiano, per cui l’antifascismo è un valore
fondante la Repubblica e costituzionale, destinato a vivere con la Costituzione
sino a che avrà vita, mentre l’anticomunismo è una libera opzione politica.
Ancora una volta però a pesare sulle sorti del nostro paese, sono gli “indifferenti”,
che considerano tutto inutile (a parte il loro ombelico), compreso il dibattito
attorno al dualismo fascismo-antifascismo.
Vittorio Melandri
CONFRONTI
“Alla pace eterna”
Immanuel Kant
Berlino. Il 22 Aprile 1724 nacque a
Königsberg il filosofo Immanuel Kant. Oggi se ne festeggia il trecentesimo
anniversario. Nell’odierna newsletter del Professor Heribert Prantl, giurista e
pubblicista, molto noto non solo in Baviera dove spesso scrive per la
Süddeutsche Zeitung, si fa riferimento ad un’opera kantiana forse non molto conosciuta,
ma ben adatta a questi tempi di morti e stragi di guerra. Il titolo, riferisce
Prantl, Kant lo prende ironicamente dal nome di una locanda, situata nei pressi
di un cimitero. Il filosofo naturalmente non vuole certo parlare solo di morte,
ma esprimere il suo pensiero sulla pace, che non cade dal cielo e neppure è
insita nella natura dell’uomo. Per assicurarla e mantenerla ci vogliono, così
Kant/Prantl, una ferma volontà, una logica rigorosa e una grande capacità
politica. Doti che oggi non sembrano essere alla portata di tutti. Neanche di
quelli che la invocano senza tener conto della realtà tra aggressori e
aggrediti e senza neppure sentire quella pietas che dobbiamo a tutte le
innumerevoli vittime di guerra. Una pace ingiusta non è una pace. Cosa
sarebbero oggi l’Europa e la Germania se Hitler non fosse stato costretto alla
resa? Certo meglio senza le armi quando la situazione lo permette. Le dittature,
oggi, non mancano e ben nota a tutti è la loro sete di sangue, non solo verso i
“nemici giurati” all’esterno dei loro paesi, ma all’interno degli stessi stati,
nelle cui prigioni vengono segregate e torturate fino alla morte le persone che
dissentono, solo perché anelano libertà e democrazia. A me, leggendo la
newsletter è venuta in mente la “frase dedica” del grande poeta e drammaturgo
tedesco Friedrich Schiller che introduce il suo dramma teatrale I masnadieri
(Die Räuber). La frase dedica è “In tyrannos” - contro la tirannia -. Di questo
anche oggi, cercando la pace, dobbiamo tenerne conto.
Lisa Mazzi
Immanuel Kant |
FREUD A GAZA
di Daniela Scotto Di Fasano
Lo psicoanalista, un testimone auricolare.
Lo psicoanalista non
può e non deve sottrarsi al (a volte impossibile) compito di pensare anche
nelle condizioni più atroci. Disumanità, inumanità definiscono al ‘negativo’ la
natura umana e si interrogano reciprocamente in relazione alla deumanizzazione
delle barbarie sociali. Freud a Gaza, dunque, come testimone auricolare di un
dramma a doppia faccia: quella della guerra tra Israele e Palestina. Mariano
Horenstein, socio ordinario con funzioni di training della Cordoba
Psychoanalytic Society e membro del gruppo di Studio internazionale Geografie
della Psicoanalisi [1], sabato 24 febbraio al Collegio Ghislieri a Pavia ha riflettuto su tale
drammatico avvenimento chiedendosi cos’è
natura umana. Nel numero di Psiche
Deumanizzazione (1/2006) Lorena Preta
proponeva il termine poco usuale ‘deumanizzazione’ poiché evoca l’idea di un
processo più che di uno stato. E proprio la domanda ‘cos’è umano’ è stata la bussola
orientante tutti i contributi: quelli introduttivi degli psicoanalisti Marco
Francesconi e Lorena Preta, quelli pomeridiani della filosofa Silvana Borutti,
della grecista e studiosa delle tragedie greche Anna Beltrametti e
dell’hispanista Paolo Pintacuda, quelli costituiti dalle domande del pubblico. In
psicoanalisi il binomio umanizzazione-deumanizzazione costituisce, con Eros/Thanatos,
una costante del processo di costruzione dell’immaginario sociale e individuale.
In molte delle sue opere, in particolare nel carteggio con Einstein Perché la guerra? (1932), Freud ha
riflettuto sull’inestricabile binomio vita-violenza, sul quale i relatori si
sono interrogati, spingendosi, con Silvana Borutti, sull’orlo del baratro dell’Intestimoniabile. D’altronde, è
d’obbligo entrare in contatto con una violenza inevitabile nel tentativo di renderla governabile.
“Lo sguardo psicoanalitico ‘binoculare’ di Mariano Horenstein
è particolarmente adeguato a occuparsi dell’ascolto e del silenzio, che vanno
profondamente differenziati dalle eccedenze di fusione empatica da un lato e del massiccio mettere a tacere denegatorio dall’altra. Sottotitolo di Freud a Gaza è Lo psicoanalista, un testimone auricolare. Sono sempre stato
colpito dalla somiglianza di ‘auris’
orecchio e ‘aurum’ oro, che sottolinea che in psicoanalisti il ‘testimone
auricolare’ ascolta per parlare, parla per ascoltare di nuovo (anche la propria
voce, come nella lettura ad alta voce degli antichi Greci studiata da Svenbro e
Bettini fra altri, e, comunque, nell’ascolto del proprio controtransfert),
dialoga per riformulare i pensieri cambiando vertice, non solo per ‘esserci’ o
‘vedere’. Se accade troppo spesso, ieri e oggi, che si chiudano gli occhi di fronte a realtà paurose, più difficile
risulta chiudere le orecchie, se
concordiamo con John Cage quando diceva che ‘il silenzio non esiste’.”
Queste le parole introduttive di Marco Francesconi. Poi Horenstein,
chiedendosi “Cos’è uno psicoanalista?”, ha detto: “Di fronte alla catastrofe,
il nostro lavoro non è quello di un opinionista politico o di uno scienziato
sociale, ma consiste piuttosto nell’ascolto e nella comprensione. Capire cosa?
Le mentalità in gioco, ovvero il modo in cui le mentalità si configurano in
base a ciò che accade, o viceversa: come la mappa di ciò che accade risponde a
meccanismi non solo storici o geopolitici, ma anche psichici. E da quale
posizione, allora, noi analisti ascolteremmo/capiremmo l’epoca? In un mondo in
fiamme, credo che la posizione etica dell'analista debba essere dalla parte dei
perseguitati.
Lasciatemelo dire attraverso un antico commento rabbinico: «Si può trovare un caso in cui un uomo giusto perseguita un uomo giusto, e Dio è dalla parte del perseguitato; quando un malvagio perseguita un giusto, Dio è dalla parte del perseguitato; quando un uomo malvagio perseguita un uomo malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato, e persino quando un uomo giusto perseguita un uomo malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato. [2]». Credo che anche noi analisti dobbiamo stare sempre – come il Dio della storia – dalla parte dei perseguitati. Pensare dalla parte dei perseguitati. Il che equivale a pensare contro il potere. Perché se la psicoanalisi merita di continuare ad esistere, non è solo perché porta un notevole sollievo a chi vi si affida, e spesso un riposizionamento nella posizione soggettiva di chi soffre. Non solo perché offre un insieme di teorie che spiegano il funzionamento degli aspetti intimi dell’essere umano come nessun altro sapere. Sebbene entrambe le cose siano vere, ciò che giustifica la psicoanalisi come disciplina nei tempi contemporanei è che si tratta di una variante del pensiero critico, dove di solito prevale il pensiero unico. E in questo senso funziona – o dovrebbe funzionare – come una fabbrica artigianale di liberi pensatori.”. Il discorso sul pensiero unico – vera ‘figura odierna del potere’, come noterà in un intervento dal pubblico Agnese Grieco – è stato uno dei fili conduttori dell’incontro. Un pensiero unico che vieta i ‘perché’. Nota infatti Francesconi: “Ci sarebbero molte cose da dire, su questa coazione a ripetersi della Storia, su questi attacchi al legame che, con Bion, sembrano servire, confermando Primo Levi, a distruggere ed espellere i perché, il pensiero causale, dando anche morte all’angoscia per liberarsi dell’angoscia di morte [3]. Si sopprime così la concatenazione generativa differenziata (A genera B, che genera C ecc.) e la sostituisce con l’autogenerativa sequenza di A che genera A che genera A… eliminando ogni diversità: sorta di an-alfabetica mise en abîme di un Sé narcisistico autoconcluso”. Infatti, ancora Horenstein: “Chi sono i perseguitati in Medio Oriente?
I palestinesi costretti a emigrare nel sud di Gaza per ordine dell’esercito israeliano prima che venga scatenata una grande offensiva, o i giovani israeliani che fuggono disperati dai terroristi di Hamas, quando solo pochi secondi prima ballavano al ritmo della musica elettronica? Gli ebrei della diaspora che sognavano di tornare in una terra sicura ed essere liberi dai pogrom avvenuti sul suolo europeo, o i palestinesi che, avendo vissuto per generazioni in quegli stessi luoghi, sono vessati sia dai coloni israeliani sia dai presunti fratelli arabi che chiudono loro le frontiere? I termini Shoah e Nakba possono essere usati nella stessa frase? Non ho mai creduto in un campionato di vittime, in una competizione per il numero di morti o per il numero di anni di oppressione. Ogni vittima conta, e credo che la psicoanalisi abbia un impegno etico nei confronti degli sconfitti della storia, come li chiamava Benjamin, un luogo in cui potremmo benissimo collocare sia ebrei che palestinesi.” Anche Beltrametti dirà: “All’universale umano si sostituiscono, e ora con maggiore urgenza, soggetti storicamente e geograficamente determinati e i perseguitati, i vinti della storia - nella definizione di Benjamin - e i dannati della terra - nella definizione di Fanon - si impongono allo psicoanalista consapevole del proprio compito. Mariano Horenstein insiste con competenza e partecipazione emotiva su questa necessità. La forza speciale del suo discorso sta qui, in questa volontà e in questa capacità di riconoscere i nuovi soggetti individuali e collettivi, con le loro nuove sofferenze, che l’analisi contemporanea non può permettersi di ignorare”.
Infatti, prosegue Horenstein, “Oggi entrambi i popoli si
stanno massacrando a vicenda per un luogo. La nostra specie è capace di
distruggersi per un luogo. Un luogo che si distingue più per il vuoto che lo
abita che per ciò che possiede [4].Il compito della
psicoanalisi è tentare di pensare dalla parte dei perseguitati, anche se questo
significa perdere la tutela di ogni forma di correttezza politica. Pensare a
partire dalla psicoanalisi non implica farlo in termini bonari o caritatevoli,
poiché la psicoanalisi non prospera tra i benpensanti e si ferma, nella sua
incessante ricerca, solo ai limiti di una verità scomoda. Ma, in verità, non
dovrebbe essere difficile per lo psicoanalista pensare dalla parte dei
perseguitati, poiché egli stesso è sempre stato oggetto di polemiche o di
condanne: la psicoanalisi era considerata scienza borghese dai comunisti,
oscenità dalla Chiesa cattolica, scienza ebrea e bolscevica dai nazisti,
scienza boche dai francesi, scienza
latina dai nordici o scienza cristiana dai nuovi sostenitori dello scientismo [5]. Mettersi dalla parte dei
perseguitati implica pungolare l’altro e estraniarsi dal consenso, diventare
estranei ogni volta che un’identificazione minaccia di unirci in un conforto
collettivo. È una posizione evidentemente scomoda, ma solo così la psicoanalisi
può diventare ogni volta contemporanea.”.
Analogamente, Beltrametti: “Forse ripensare la tragedia antica non più
nella forzata e abusata chiave neoclassica della ricomposizione e della
compensazione catartica, forse ripensare la tragedia per quello spettacolo
molesto che i testi ancora ci trasmettono, ripensarla per i turbamenti e gli
straniamenti che poteva e voleva provocare sul suo pubblico e che ancora ci
provoca, ripensarla nei termini aristotelici, negli effetti complementari di paura,
phobos, che fa regredire gli spettatori in sé e di compassione, eleos,
che li reintegra nella comunità”.
Horenstein invita a “immaginare Gaza come un’eterotopia [6] e a ripensare la
psicoanalisi partendo da lì e tornando alla domanda iniziale: come identificare
i perseguitati? Confondere i perseguitati con Hamas è altrettanto osceno quanto
confondere i persecutori con Israele.
I perseguitati sono i bambini israeliani
rapiti o uccisi, le adolescenti violentate, gli anziani condannati a rivivere
la minaccia di un olocausto che non finisce mai, così come le famiglie
palestinesi costrette a spostarsi da un luogo all'altro o a vedere il loro
futuro delimitato, le perdite di vite umane considerate solo danni collaterali.
Il lato dei persecutori non riconosce le differenze di fede, e i
fondamentalisti di entrambe le parti si incontrano senza problemi, gli unici ad
avere la meglio in un'escalation di violenza senza fine. È facile cadere nell'osceno. Osceno significa uscire di
scena. Dalla scena umana”. A tali questioni si collega Silvana Borutti, che, evocando Agamben di Quel che
resta di Auschwitz. L’archivio e il
testimone, afferma che “I sommersi, sono i testimoni che non potranno
testimoniare (nel cui conto parleranno i sopravvissuti), ma sono loro
paradossalmente i veri testimoni, perché sono i testimoni impossibili
dell’intestimoniabile, dell’indicibile, dell’irrappresentabile [7]”. Un irrappresentabile,
una Gorgone, un’alterità non pensabile ai quali Borutti
risponde mediante Sebald, che, con la
scrittura, tenta – come ci ha invitato a fare Horenstein – di affrontare il
tema del testimoniare l’intestimoniabile, l’indicibile, l’irrappresentabile.
[Pavia, Collegio Ghislieri, 24
febbraio 2024]
Note
1.
Coordinato dal 2008 da Lorena Preta.
2.
Rabbi Huna, nel nome di Rabbi Joseph in un antico midrash, salvato da Pierre
Vidal-Naquet in Gli assassini della memoria, Siglo Veintiuno, Messico, 1994
3.
Francesconi M., Scotto di Fasano D., 2023, Angoscia
di morte o morte dell’angoscia? in Preta L., 2023, a cura di, Still life. Ai confini tra il vivere e il
morire, Mimesis, Milano.
4.
È interessante pensare che le Crociate possano essere state intraprese dietro
una tomba vuota, o il modo in cui i luoghi sacri sono abitati dall'assenza. A
un'assenza rimanda anche il Muro del Pianto, residuo delle mura di contenimento
della spianata dove un tempo sorgeva il Tempio ebraico e oggi due moschee. La
sacralità che abita quella spianata è legata alla propensione al sacrificio –
di Isacco o di Ismaele, a seconda della tradizione che lo racconta – da cui
sembra che non ci siamo ancora liberati.
5. Roudinesco, E., Pourquoi tant de haine? - Anatomie du livre noir de la psychanalyse,
Navarin, Parigi, 2005.
6. Foucault, M., Des espaces autres, Architecture, Mouvement, Continuité, n. 5,
ottobre 1984, pp. 46-49 (traduzione in spagnolo di Luis Gayo Pérez Bueno,
pubblicata sulla rivista Astrágalo,
n. 7, settembre 1997).
7. Agamben, analizzando «la
relazione tra impossibilità e possibilità di dire che costituisce la
testimonianza» in quanto testimonianza di eventi senza testimoni, offre argomenti
per affrontare il tema aporetico della non coincidenza tra fatti e verità. (Quel
che resta di Auschwitz, Einaudi, Torino 1998. p. 146)