La
provocazione dell’attualità
di
Giovanni Bianchi
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Il Quarto è stato |
Schermaglie
Anche l'attualità è in grado di provocare.
Figuriamoci il passato prossimo. Intorno alle nuove leadership si raduna una antropologia
sempre più divisa e divisiva. Naufraghi dell'ideologia e del delirio
narcisistico si aggrappano al ruolo come ad ultima tavola di salvezza. Nuove
generazioni alla ricerca di un futuro non programmato e quindi introvabile.
Restano
gli antichi giudizi sull'italica gente. Continuiamo a mancare di dimensione
interiore e di classe dirigente. La corruzione è figlia della mancanza di
dimensione interiore. Il ceto politico è figlio della mancanza di classe
dirigente. La quale non può essere ridotta ai soli politici. Come non può
essere riassunta in una leadership prestigiosa.
Se
il problema centrale del Paese è per comune opinione il lavoro, perché non ci
concentriamo sulla consistenza e la competenza degli imprenditori? Perché gli
antichi padroni delle ferriere, i signori del fordismo, hanno deciso negli anni
Ottanta di seppellirsi nel cimitero dorato dei finanzieri? Perché non mettiamo
sotto la lente il sistema bancario -anche i banchieri sono classe dirigente-,
le sue modalità di intervento in ordine allo sviluppo e al temperamento delle
disuguaglianze? Non sono una lobby di
filantropi i banchieri tedeschi, ma il loro rapporto con le imprese sul
territorio richiama molto da vicino la prassi che fu delle Casse Rurali ed
Artigiane. Insomma le banche tedesche non si sono lasciate tutte risucchiare
nell’universo finanziario e nella sua avidità, pur ovviamente avendo di mira,
come tutte le banche del mondo, i profitti.
L’ultimo
Raul Gardini aveva l’aria di ripetere: la
chimica sono io. Se n’è andato tragicamente Gardini ed è sparita la chimica
italiana, pur accreditata nelle previsioni di un ruolo preminente nella divisione
del lavoro internazionale. C’è dunque un problema di rappresentanza che non
riguarda soltanto le istituzioni democratiche. Una democrazia infatti cresce
nelle sue rappresentanze civili prima di confrontarsi con la geometria delle
istituzioni. È questo il luogo dove è
possibile discernere se ci si trova in presenza di un ceto politico,
interessato a perpetuarsi, oppure di una classe dirigente decisa a mettersi in
gioco.
Tanto
più in uno Stato come il nostro dove, a far data dall’Ottantanove berlinese, è
stato azzerato -unico Paese in Europa- tutto il precedente sistema dei partiti
di massa.
In
tal modo il cittadino italiano vive una condizione nella quale ad ogni tappa
parlamentare si ricomincia tornando al punto di partenza, come nel gioco
dell’oca. E nel tempo medio-lungo il gioco è destinato ad annoiare e ad
allontanare l'elettore. Mentre i residui paretiani delle culture politiche
aprono cantieri che si rivelano il Luna Park delle nuove rappresentazioni
mediatiche.
Quel
che si è confuso è una distinzione proposta negli anni Sessanta da Francesco
Alberoni, in un suo dimenticato libro dal titolo L’élite senza potere.
Un saggio tuttora utilissimo perché opera una distinzione preziosa tra la
leadership politica e il divismo.
Il
leader è dotato di autorità, di carisma, deputato a governare. Il divo domina
l’immaginario, affabula, non governa, è circondato di enorme simpatia e gli
viene consentita la trasgressione.
Una
distinzione evidentemente superata dai fatti. Gli idealtipi e i personaggi si
sono mischiati, con nessun vantaggio per il leader politico, chiamato a
confrontarsi con competitori anomali su terreni per lo più impolitici.
Il
punto di svolta, o se si vuole la “frattura”, in Italia la produce Marco
Pannella con la candidatura e l’elezione al Parlamento nel 1987 di Ilona
Staller, in porno-arte Cicciolina.
Anche in questo caso l’elezione della Staller farà tendenza e aprirà autostrade
più impolitiche che politiche. Non a caso avremo da allora una sempre maggiore
presenza degli uomini di spettacolo in politica, sia con teatri e trasmissioni
dedicate alle vicende nazionali correnti, sia con la presenza sul terreno della
rappresentanza di attori e soprattutto comici.
È
anche utile dire che non si tratta di un fenomeno soltanto italiano. Una
imitatrice di Cicciolina interessò qualche anno fa le cronache politiche
spagnole, mentre il caso più clamoroso è quello del “pagliaccio Tiririca” in
Brasile, approdato al Parlamento di Brasilia con 1 milione e 750 mila voti di
preferenza e con un programma molto sintetico: “Non so cosa facciano in
Parlamento, ma se mi eleggerete ve lo spiegherò giorno per giorno”.
È
anche per questa ragione che è esplosa, in particolare nel nostro Paese, la
discussione intorno al rapporto tra politica e antipolitica, spesso
dimenticando che il confine tra politica e antipolitica è un confine
estremamente poroso, ossia percorribile nei due sensi.
Non
solo le culture politiche si sono progressivamente sfarinate, ma appaiono
inutili i volenterosi tentativi di ricostituirle. E un bilancio oramai doveroso
pare dire che le perdite sono superiori ai guadagni.
L’incontenibile
chiacchiera sulle regole non riesce infatti ad occultare il problema dei
soggetti politici, che fu seriamente e tragicamente centrale in tutta la Lotta
di Liberazione. Basterebbe a convincerci una rilettura veloce delle lezioni
moscovite di Togliatti ai quadri dirigenti del Pci sugli strumenti del consenso
messi in campo dal regime mussoliniano.
Usciamo
da due decenni di ingegnerie istituzionali sulle regole ed è venuto il tempo
probabilmente di occuparci con più attenzione dei soggetti politici chiamati a
scendere in campo per giocare la partita. Le nuove leadership si collocano
indubbiamente alla fine delle culture politiche e si presentano come emergenti
da questa fine, non essendo certamente la causa della fine. Vincono lungo strade inedite, perché
rompono con "l'eccesso diagnostico" (l'espressione è ancora di papa
Francesco) e con la democrazia discutidora
proponendo agli elettori il decisionismo dell'esecutivo.
Questo
è il "bene" in nome del quale anche i più avveduti hanno scelto di
rinunciare alle discussioni circa il "meglio". Un’apertura di credito
che tuttavia non può durare a lungo soltanto con questa motivazione e che
assomiglia sempre più al tifo sportivo: da una parte con Pierluigi Bersani i
fans del Grande Torino, e dall'altra con l'ex sindaco di Firenze i fans della
Nuova Fiorentina. Il problema che si pone è il solito: quale sia il luogo dal
quale guardare alla fase attuale, alle tensioni che l'attraversano e agli esiti
possibili. Avviare a soluzione questo problema non è un quesito astratto,
perché ne discende insieme la sensatezza e l'efficacia del prendere posizione.
Il dilemma delle forme del
politico
Tutto
il discorso sulla Resistenza, sulla sua ampiezza, sulla capacità di
coinvolgimento e sui soggetti, ma anche sui numeri, sulle classi, sui
territori, sui ceti sociali, sui mondi regionali italiani come sul mondo
cattolico, non può prescindere da alcuni concetti perfino elementari che il
dibattito della politica politicante ha abbondantemente dimenticato.
Si
tratta di ripetere che anche nella turboglobalizzazione non si entra come
cittadini del mondo, ma con diverse e storiche identità nazionali. Se dunque
non ci può essere patria senza popolo, ci può essere politica senza popolo?
C'è
una crisi nelle forme del politico italiano della quale sembra doveroso
preoccuparsi. È per questo che non si critica, non si prende posizione, ma ci
si schiera come tifosi. Si può ad esempio lanciare l'idea di un "partito
della nazione" senza interrogarsi su a che punto siamo in quanto italiani
del 2015 con l'idea di nazione. Si può fare una politica popolare a prescindere
da un qualche idem sentire in quanto popolo?
Dovrebbe
oramai essere a tutti chiaro, dopo tante prove e tanti scacchi, che non è
possibile fare politica soltanto a partire dalle regole. Il problema infatti
restano comunque i soggetti. E pare oramai dimostrato che le regole in quanto
tali non sono maieutiche dei soggetti.
Si
è puntato sempre a cambiare le regole del gioco; i soggetti restano latitanti e
quindi impossibilitati a giocare. Non è stata breve la stagione nella quale ci
si è affaticati con l'ingegneria delle leggi elettorali a strutturare quello
che un tempo veniva chiamato il quadro costituzionale e in generale tutto il
campo delle presenze politiche lungo un viale che conducesse al bipolarismo.
Ci
fu poi il tempo del partito "a vocazione maggioritaria", figlio di
una teologia politica che ho sempre faticato ad intendere. E adesso la prua
della politica italiana sembra dirigersi verso una formazione politica a
vocazione egemonica, pensata come partito dalla nazione.
Ma
anche qui torna comunque la domanda: ci può essere una nazione e un partito
della nazione senza popolo? Non è necessario avere letto tutti i libri di Asor
Rosa per essere inseguiti da un simile dubbio.
Chi
lavora al popolo? I partiti non erano per Mortati, Capograssi, e anche per
Togliatti il civile che si fa Stato? Era completamente fuori strada il leader
del Pci quando sosteneva che quella italiana era una Repubblica fondata sui
partiti, chiamati a surrogare una endemica debolezza dello Stato? Non erano in
molti ad essere preoccupati della scarsa solidità delle nostre istituzioni, con
la conseguenza del nostro tardo e lento farci nazione? Dove condurrà questo
scialo di discorso politico disinteressato al senso storico e improntato a una
sorta di marinettismo pubblicitario?
L'anniversario del 25 Aprile
Ha
seminato perplessità la "leggerezza" del messaggio del governo e del
parlamento sul settantesimo anniversario del 25 Aprile. Tutt'altro discorso dal
Quirinale, quello antico e quello nuovo. Sergio Mattarella è risultato
presente, puntuale, perfino didattico ed esauriente. Si è lasciato alle spalle
una laconicità che pareva fare da contrappeso alle esasperate eccedenze del
dibattito politico. L'intervista al direttore di "la Repubblica" è un saggio di spessore insieme storico e
politico, e può ben costituire una mappa di lavoro.
Altrettanto
ha fatto Giorgio Napolitano sul "Corriere della Sera", anche in
questo caso evitando inutili celebrazioni per andare al nocciolo politico della
storia e del problema.
Non
lo stesso si può dire dei politici di nuova generazione, ininfluenti o assenti,
forse perché la Resistenza non entra facilmente in un tweet o perché gli
importa il potere e il suo esercizio più delle ragioni che consentono e
consigliano il governo.
Eppure
è un grave errore dei populismi e della politica in generale senza fondamenti
questo disinteresse per le radici e soprattutto per le soggettività storiche.
Così si riduce il messaggio politico a una sorta di fiera del bianco
programmata dal vicino centro commerciale, dando l'aria di affidarsi a una
fragile visione delle cose e del nostro futuro di nazione chiamata a costruire
Europa.
Senza
soggettività c'è solo pubblicità vincente, ma gli annunci pubblicitari non
durano a lungo e non supportano una politica resistente nel lungo periodo. Va
detto che sui contenuti resistenziali imposti dall'anniversario si è invece
impegnata la ministra della Difesa Roberta Pinotti, che è arrivata ad inventare
la premiazione dei partigiani superstiti assistiti da compite crocerossine in
divisa, in una commovente cerimonia svoltasi al Ministero.
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J. L. Borges |
Un inedito che fare
Era
Borges che scriveva: "Se potessi vivere un'altra volta comincerei a
camminare senza scarpe dall'inizio della primavera e continuerei così fino alla
fine dell'autunno. Farei più giri in calesse, contemplerei più albe e giocherei
con più bambini, se avessi un'altra vita davanti a me. Ma come vedete, ho già
ottantacinque anni e so che sto morendo". Appunto questo è il problema:
sì, la vita bisognerebbe viverla due volte... Ma intanto?
Intanto
è importante rendersi conto dei termini e delle stagioni in disuso. Tenere nel
contempo le distanze dall'apocalittica e dall'iperbole.
Bisogna
piuttosto avere il coraggio di riflettere sull'ironia della storia: la storia è
siffatta che arriva talvolta a dare ragione a chi mezzo secolo prima si trovava
con i piedi nel torto.
A
che punto siamo nella fase in cui tutti siamo congedati dal Novecento?
Tutte
le politiche in campo prescindono dal "progetto", come figura
montiniana del pensare politica. Queste politiche muovono infatti da due cesure.
Si
è già osservato che dopo l'Ottantanove l'Italia è l'unico paese al mondo ed in
Europa ad avere azzerato tutti i
partiti di massa. In secondo luogo l'ingresso del Partito Democratico italiano
nella famiglia socialdemocratica europea chiarisce due cose: le culture
politiche non organizzate svaniscono e si suicidano (Toynbee); non ci sono nodi
gordiani da tagliare, si tratta piuttosto di prendere nota che i nodi non
esistono più.
Tutto
si muove all'interno di una polarità rappresentata dalla governabilità da una
parte e dalla democrazia dall'altra. La tensione tra i due poli continua ad
essere forte e i populismi ed i decisionismi stanno piegando il bastone tutto
dalla parte della governabilità.
Orbene
è chiaro che una democrazia senza governabilità fa deperire se stessa e si
autodistrugge. Ma è anche vero che può darsi governabilità senza democrazia.
Il
fatto curioso della fase è che una comunicazione onnivora riesce tuttavia a
mantenere al proprio interno e nei rapporti con la pubblica opinione gli arcana imperii, con accordi e patti tra
gli attori il cui contenuto viene tenuto segreto ai cittadini, chiamati a
constatarne gli effetti e a schierarsi secondo la propria opinione. Ha ragione
Christian Salmo: "Governare oggi vuol dire controllare la percezione dei
governati".
La
sindrome di Pasolini colpisce la democrazia: "Hanno considerato
"coraggio" quello che era solo un codardo cedimento allo spirito del
tempo". È bene collocarsi oltre l'eccesso diagnostico, ma è anche bene
chiedersi quanto può durare la scelta ogni volta del bene invece del meglio.
Il compito preliminare
Costruire
un punto di vista (condiviso) è sempre il compito preliminare. C'è chi auspica
la redazione di un nuovo Codice di Camaldoli, non solo tra i cattolici
democratici. Un problema di progetto e di programma che ovunque l'esperienza
suggerirebbe di affrontare prima e oltre le alleanze, perché gli interlocutori
non possono essere prefabbricati sul piano teorico. Ma allora, dove siamo? E
soprattutto, chi siamo?
In
mezzo c'è tutta la fase politica; quella "transizione infinita" che
Gabriele De Rosa evocò negli anni Novanta e che stiamo tuttora attraversando.
In mezzo c'è l'Ottantanove, la caduta del Muro e l'azzeramento in Italia dei partiti di massa.
Tornano
i fondamentali della nostra storia nazionale: Togliatti che ripeteva che la
nostra era una Repubblica fondata sui partiti; l'avvertenza che non esiste
cultura politica se non organizzata. E adesso che si sono consumate tutte le culture politiche del
Novecento?
Insomma,
tocca ancora una volta constatare che resta in giro qualche richiamo della
foresta, ma non ci sono più le foreste: per nessuno. Tutte le politiche che
abbiamo di fronte sono "senza fondamenti", anzi lo dichiarano
apertamente. Non hanno e non cercano un progetto, ma presentano una leadership
decisionista e vincente. Le puoi giudicare solo a posteriori, dagli effetti, e
non per rapporto a un disegno preventivamente esaminato.
Tutto
si muove all'interno della polarità governabilità/democrazia. Senza governabilità
-vale la pena ribadirlo- la democrazia deperisce e muore. Ma inquieta la
circostanza che ci può essere governabilità senza
democrazia. E se in questo quadro si fa ineludibile il confronto con il
lascito, reale e costituzionale, della Lotta di Liberazione, la prima cosa da
fare è misurare le distanze in questa fase dal sentimento del tempo di allora.
La storia e le sue fasi non ritornano, ma le epoche -questo il suggerimento del
solito Le Goff- sono destinate a dialogare tra loro.
Note
¹Francesco Alberoni, L'élite
senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Vita e Pensiero, Milano 1963.