Consumatori
Ovviamente il titolo e il tema non rifanno
indecentemente il verso all'espressione epocale di Martin Luther King. Stanno
piuttosto a indicare il corrompimento prima della visione e poi del linguaggio
nella stagione del grande disordine storico e mediatico. Dei troppi che, ignari
di obbedire a un comando da sopra e da fuori, si esibiscono e sdottorano
succubi di un nuovo etilismo ideologico. Nel senso che non poco i media vanno
contribuendo a disordinare il mondo: instaurando un ordine apparente e fittizio, una neolingua, l'illusione di un pianeta altro e pacificato. Vale
ancora beffardamente l'antico: tutto in ordine e niente a posto. Ovviamente ciò
accade quando si è riusciti a sostituire al cittadino lo spettatore, o più
precisamente ancora il consumatore di immagini. Tutti esposti, nuclei familiari
e legioni supine, alla manipolazione quotidiana di giornalisti e politici –
anzi più spesso di commentatori o analisti che non alzano il culo dalla sedia e
gli occhi dal computer – che non hanno capito che il testo fondamentale della
cosiddetta Seconda Repubblica è Il più
mancino dei tiri[1] di Edmondo Berselli.
Il
loro è soltanto vuoto da pose e da immagine, corredato di parrucca, anche
quando ostentano il cranio rasato. L'unico che si salva (perché lavora per
mappe e viene dalle Acli) è Ilvo Diamanti.
C'è
solo un modo probabilmente per evadere da questa gabbia di plastica e
cellophane: recuperare il flaneur e
perdere tempo; a zonzo per la strada guardando i passanti al posto delle
vetrine, osservando da entomologo verista come in metropolitana tutte le nuove
generazioni – giovani immigrati multinazionali e badanti comprese – non stacchino
gli occhi dai giochini del tablet e dal
telefonino. Inutile fingere culture politiche: sono tutte consumate. È rimasto
il richiamo della foresta, ma non c'è più la foresta.
Bisogna
tuttavia intendere che il personale è tornato ad essere politico, in senso
rovesciato rispetto al Sessantotto. La Ministra dell'Agricoltura finalmente
dimissionaria giace lì, in questo incrocio confuso e stagnante, in larghissima
compagnia di casta e controcasta, generazionale e non. Nel Mezzogiorno che
Cavour evitò di includere nei confini della Nazione, tardivamente rammaricandosene nel delirio dalla morte. E
infatti – narra una vulgata ironica che si diverte a rifare il verso alla
diceria nordista e protoleghista – chi provvide a risolvere tutto con un colpo
di mano e di nave fu Giuseppe Garibaldi (le cui letture non erano molto estese)
con i suoi Mille, la gran parte di Bergamo e Brescia, ponendo in tal modo le
radici della ribellione generazionale dei trisnipoti.
Un
Paese per vecchi? No: un Paese per cani. Affacciatevi all’ora canonica e
vedrete antichi pensionati fordisti e nuove partite Iva alla passeggiata. Dopo
il capolavoro di Umberto Eco su la fenomenologia di Mike Bongiorno[2],
è tempo di una fenomenologia della pisciata canina quotidiana. Rigorosamente
plurale: almeno tre volte al giorno, generalmente dopo i pasti. Allegra e
cicloide, perché si formano capannelli d'amicizia non solo tra i quadrupedi di
diversa taglia (in ascesa i mignon vista l'esiguità di troppi appartamenti) ma
anche tra i proprietari, che dimenticato finalmente il tablet, fraternizzano:
una stupenda combriccola di buontemponi che perdono finalmente tempo, aprendo
spiragli alla creatività non soltanto canina.
Non
tutti hanno letto Lorenz, ma quando il caso urge eccoli correre dallo psicologo-veterinario-comportamentista
o trovare il tempo per gli interminabili scaffali dei cibi per animali, che
resistono nel loro estensivo chilometraggio alla crisi dei consumi che pur
affligge da tempo i supermercati. Stabilito che l'uomo è il miglior amico del
cane – con gli imperdonabili abbandoni estivi causa vacanze – esternerò il mio
ultimo mantra: amo il cane, ma odio i
padroni (del cane).
Perché?
Perché il cane non ha generalmente un cucciolo d'uomo col quale condividere i
suoi umori e le scorribande, e magari allenarsi alla pet theraphy. Quel che mi addolora è che il quadrupede ha sostituito
il cucciolo bipede dell'uomo. Non facciamo più figli da europei colti e "detronizzati" (Carl Schmitt, 1971)
e ci riduciamo agli animali da
appartamento, neppure più da cortile. E’ un segno tangibile di quella
decadenza che la politica non riesce ad esorcizzare con la ripresina del
prossimo anno dietro l'angolo del prossimo anno.
L'amore
e il sesso continuano a interessarci, ma i figli non ce li possiamo permettere.
E non è un problema di morale sessuale né tantomeno cattolica, se in recupero
da anni troviamo la natalità degli svedesi e dei francesi, un tempo noti per la
libertà dei costumi e una interpretazione separatista della laicità.
I corpi degli Italiani
Saltiamo
d'un balzo tutta una serie di passaggi doverosi e diciamo ex abrupto che le riforme non sono affare di popoli decrepiti e
avviati sul viale dell'estinzione. Come può sopravvivere una Repubblica tanto a
lungo attaccata e alfine svuotata dagli stessi soggetti che dovrebbero esserne
parte ricostituente? Il problema cioè è tornare a riflettere non soltanto
sull'indole degli italiani – lo hanno fatto Machiavelli, Guicciardini,
Leopardi, Prezzolini – ma sul rapporto carsico tra le energie antropologiche
della società civile e il suo destino politico. L'emergenza antropologica è
dunque la prima e più inquietante tra le molte emergenze che quotidianamente ci
affliggono. A che punto siamo nel rapporto tra i corpi degli italiani e gli
scenari della politica?
Non
è neppure un problema di avvicinamento alle esistenze quotidiane, se quanti si
occupano lodevolmente dei percorsi di cittadinanza attiva ci informano che nel
rapporto tra volontariato e istituzioni monitorato dal Cinque per Mille, ben 40.000 associazioni si candidano alla tabella
delle entrate. Quanta strada compiuta nel tempo! Il volontariato contemporaneo
nasce nel 1975, in un gennaio napoletano nel quale si danno convegno otto
persone intorno alla leadership mite e determinatissima di monsignor Giovanni Nervo.
Con un processo di adattamento rapido delle istituzioni. (Il forum nasce nel
1994.) Mentre il sistema dei partiti italiani è alla deriva, impegnato in un
ripiegamento corporativo e castale per assorbire o resistere alle pressioni del
sistema economico.
Il
tutto in una crisi in corso la cui natura resta tutto sommato indefinita e
senza plausibile spiegazione. La crisi del 1929 durò un paio d'anni e fu subito
individuata come crisi di sovrapproduzione di merci. Noi viaggiamo da cinque
anni in una sorta di terra di nessuno, avendo al massimo inteso che non si
tratta di crisi del vecchio sistema nel quale sarà poi possibile rientrare, ma
di crisi piuttosto che sospinge alla creazione di un nuovo modello di sviluppo
e di civiltà.
In
grado di sinceramente rallegrarsene pare fosse soltanto Albert Einstein, che
però è deceduto qualche decennio fa. Diceva lo scopritore della relatività nel
1931: "Non possiamo pretendere che
le cose cambino se facciamo sempre le stesse cose. La crisi è la più grande
benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La
creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella
crisi che sorgono l'inventiva, le
scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza
essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e le difficoltà
violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.
La vera crisi è la crisi dell'incompetenza".[3]
È
così che dalla solidarietà costituzionalmente e istituzionalmente supportata si
è passati a una politica come luogo esteso e tumultuoso del rancore. Dilaga
l'invidia. Tutto ridotto alla categoria dell'emergenza. Mentre la capacità innovativa della politica tende a
zero perché scarso e sempre
insufficiente è il tempo che le è concesso per capire, programmare, intervenire
(vedi Luigino Bruni). È dunque prevedibile che il dramma esploderà ancora più
drammaticamente tra 10 o 15 anni, e morderà sicuramente nel vivo le carni delle
nuove generazioni.
Alcide
De Gasperi poteva suggerire sacrifici: andate all'estero a cercare lavoro
(anche nel Belgio delle miniere e di Marcinelle) e trovate modo di aiutarci...
D'altra parte nessuno al mondo riesce più a fare riforme, da Cameron, alla
Merkel, a Obama, ma tutti si cimentano in manovre di adattamento nel breve
periodo. Mentre il dovere dell'ora sarebbe non tanto quello di vincere la
prossima competizione elettorale, quanto quello di riformare queste democrazie
esauste.
La fatica d’apprendere
Da
che cosa si apprende? Generalmente dal dolore. "Nessuno più dovrà patire
quel che ho provato io", ripetiamo nella sventura che ci ha appena
colpiti. Senza solidarietà non se ne esce (e neppure si capisce). Le idee del
resto non stanno più sui libri. Si tratta piuttosto di sperimentarle in maniera
molecolare e diffusa per individuare vie nuove di sortita. Le ricerche sono
necessarie e aiutano, ma si è anche fatta evidente l'insufficienza delle
ricerche. Non tutta colpa delle istituzioni. Non tutta colpa dei partiti che da
vent'anni hanno lasciato la scena. Non tutta colpa di un volontariato che
continua contro le apparenze a crescere: i suoi numeri infatti sono passati a
301 mila realtà nel 2011 rispetto alle 235 mila del 2001. La voglia e la
competenza a partecipare non si sono dunque estinte.
Aumenta
il tessuto della cittadinanza attiva. Il volontariato non dipende più dalla
crisi fiscale dello Stato analizzata da Klaus Offe. Le foreste camminano
davvero... Nonostante le resistenze e le controtendenze istituzionali che hanno
sviato riforme destinate ad essere "epocali" nelle intenzioni. È in
tal modo che le Regioni hanno assunto la sussidiarietà
come esternalizzazione dei Servizi Sociali consentita dal titolo V della
Costituzione. Lo stesso dicasi ancora una volta della latitanza dei partiti. I
partiti costituenti non ci sono più, e i loro resti furono tiepidamente
presenti nel referendum del 2006 nel quale gli italiani decisero di mantenere
la Costituzione del 1948.
Drinko anch’io
Rompo
cautele ed indugi. Mi fingo dinanzi un buon bicchiere di rosso, e da antico
ufficiale degli alpini provo a esporre il nucleo del mio pensiero. Comincio
malauguratamente dall'onda dei ricordi. Era la primavera del 1996 ed ero
candidato nelle liste dell'Ulivo per la circoscrizione di Sesto San Giovanni e
Bresso. Alla chiusura della campagna elettorale fu organizzato al Cinema Rondinella
un confronto tra i tre candidati della costituency: una giovane leghista, uno
stimato chirurgo di proclamate ascendenze fasciste e il sottoscritto. Alla fine
del dibattito, tanto vivace quanto urbano, il moderatore invitò i tre candidati
a lanciare un messaggio sintetico agli elettori. Toccò a me per ultimo. (Chi
legge tenga conto che anche in quella occasione il pericolo da esorcizzare
risultava l'astensionismo, con i soliti profittatori che invitavano al mare al
posto del seggio.) Dissi pressappoco così: Avete certamente misurato quanto
grande sia la distanza tra le nostre posizioni. Eppure mi sento di dirvi:
preferisco chi vota per uno dei miei avversari a chi diserta il seggio per una
piccola vacanza. Grande fu lo sconcerto tra i miei supporter, pari forse al
mugugno: "Cosa ti salta in mente! Vai sempre a caccia di difficoltà
inutili". E invece avevo semplicemente reso omaggio alla mia fede
democratica, che veniva prima del successo, che d'altra parte mi fu decretato
abbondantemente dalle urne.
Vale
la spesa porre a questo punto un problema di sistema, fattosi cronico per la
latitanza della politica quotidiana. Bisogna ripetere ancora una volta che il
nostro è l'unico Paese al mondo, che, a far data dal 1989, ha azzerato tutto il
precedente sistema dei partiti di massa. Non è successo così in nessun altro Paese
europeo. Neppure nel Belgio che ha battuto ogni record di durata dell'assenza
di governo.
Anche
l'importazione benefica della pratica delle primarie rischia di essere alla
lunga logorata dall'assenza di partiti gestori e collettori. Le primarie, che
sono un comportamento collettivo, non possono fare da toppe per tutti gli
sbreghi dell'abito della democrazia. È curioso che il partito che le ha
importate, il PD, non si sia neppure interrogato sulle conseguenze derivanti
dalla circostanza che si tratta di un comportamento americano innestato su un
corpo partitico in ogni caso europeo. Quasi che difficoltà, anomalie, crisi di
rigetto non dovessero comunque affiorare. In un quadro dove gli sforzi in
direzione del bipolarismo si scontrano con una consolidata conformazione
dell'elettorato in quattro parti evidenti: un quarto non vota più; un quarto si
pone totalmente fuori dal sistema invocando ed aspettando una propria
investitura ad unico rappresentante del popolo; gli altri due quarti si
dividono il campo tra Partito Democratico e nuova Forza Italia, destinati in
queste condizioni dai rapporti di forza e dalla forza del destino ad
affrontarsi, opporsi, accordarsi...
Esiste
tuttavia al fondo di tutto una questione di sistema che dovrà pur essere
affrontata. È quantomeno dal 1994 che il tema centrale intorno al quale ruota
la politica italiana è costituito dalla governabilità. Governabilità è un termine ereditato dal 1974, quando la
Commissione Trilaterale in Giappone lo mise all'ordine del giorno a fronte di
una condizione che presentava, secondo il suo giudizio, "un eccesso di
democrazia". L'Italia in particolare pareva rientrare in questa "anomalia"
messa sotto le lenti da Huntington – lo studioso che poi avrebbe assunto un
ruolo di evidenza mondiale con la teorizzazione dello scontro di civiltà – e
preparata dalle analisi di Niklas Luhmann. In Italia le relazioni del convegno
furono raccolte in un testo prefatto da Gianni Agnelli.
Vent'anni
di sperimentazioni non proprio fortunate per non dire fallimentari ci hanno
condotti in una sorta di Waste Land
dove le macerie della Prima Repubblica superano di gran lunga i cantieri della
Seconda. Pare a questo punto di poter dire che la governabilità non è la
soluzione dei problemi della nostra democrazia, ma un problema interno alla
nostra convivenza democratica. Mettendo la governabilità al principio e al
primo posto si creano problemi e difficoltà in primo luogo alla democrazia e in
secondo luogo alla stessa governabilità.
Discriminante
è sempre la circostanza che il nostro Paese è l'unico ad avere azzerato tutti
partiti di massa della Costituzione repubblicana. Fu inattesamente lapidario il
rappresentante in Italia del popolo Saharawi che, mio ospite dopo una
conferenza, alla colazione del mattino mi propose non richiesto la sua sintetica
visione delle cose: "Negli altri paesi cambiano gli uomini e restano i
partiti. In Italia cambiano i partiti restano gli uomini". Lucido candore
africano...
Orbene
le prove di un ventennio, sia nel campo della destra come in quello di centrosinistra,
hanno testimoniato che senza partiti strutturati la gestione del governo
incontra difficoltà insormontabili. Non dunque i ritmi della democrazia
discendono dalla governabilità, ma la governabilità è conseguente al
funzionamento complessivo – partecipazione popolare inclusa – del sistema
democratico. Le difficili performance governative di Berlusconi e Prodi sono a
questo punto testimonianze incontrovertibili.
Ovviamente
non si tratta di ripristinare le vecchie case partitiche con le loro culture e
le loro sigle. Anche se il confronto con le altre nazioni europee suggerisce
che dal dopoguerra in poi in Germania come in Francia come in Gran Bretagna si
sono continuati a votare i partiti dalla tradizione, con poche variazioni. Può
essere che ancora una volta giochi e funzioni l'anticipo italiano. Pare comunque evidente che senza partiti non si
dia democrazia e neppure governabilità. Senza partiti o un loro analogo e
succedaneo: una struttura organizzativa e culturale che colleghi i cittadini e
la società civile ai canali istituzionali. Possiamo definirli diversamente.
Chiamiamoli pure "motociclismo". Ma pare improbabile prescindere da
una loro rinnovata presenza. Non risultano cioè sufficienti per la democrazia e
per la governabilità formazioni riconducibili alla logica e al funzionamento
delle liste elettorali, disponibili ad un rapido smantellamento una volta
conseguito il risultato.
Crisi dei partiti e crisi
della politica
Ci
siamo lasciati alle spalle quella che Palmiro Togliatti definiva una Repubblica
fondata sui partiti, chiamati a surrogare una storica debolezza dello Stato
italiano. Non solo per questa ragione la crisi dei partiti si risolve in crisi
della politica e contribuisce al suo dilatarsi. Non poco ha pesato la
circostanza che le classi dirigenti italiane hanno da subito abbandonato il
testo costituzionale nella vicenda della politica politicante quotidiana.
Un
ultimo problema e un'ultima frizione si evidenziano. Essi consistono nel
rapporto problematico tra la leadership e il partito. Scorre sotto i nostri
occhi tutto il film dei capi populisti, di un narcisismo esasperato nei decenni,
del partito personale. E torna alla mente l'ammonizione di Norberto Bobbio che
considerava una contraddizione in termini il partito personale: proprio perché
lo strumento partito indica da sempre un'impresa collettiva.
Resta
il fatto che così come sono problematiche le riforme dall'alto, ancora più
problematico appare il vezzo di assegnare la riforma della politica ai leaders,
pensati in grado di produrla dall'alto per una sorta di emanatismo plotiniano.
Il partito, comunque pensato e ristrutturato, è destinato ad essere in ogni
caso una impresa collettiva. Destinato a precedere, accompagnare, seguire il
governo quando l'avvicendamento democratico lo assegna alla parte avversaria e
concorrente.
Il
resto assomiglia in tutto alle liste elettorali, costringendoci ogni volta a
ricominciare daccapo e a richiamare un uso dei partiti che ricorda la celebre
espressione di Enrico Mattei, che gli assegnava la funzione e il prezzo di un
taxi. Né cambia se al posto del taxi si è sostituita la metafora del pullman.
L'interrogativo
finale è se dopo aver tanto puntato sulla governabilità per restaurare la
democrazia, non sia pensabile di instaurare la governabilità attraverso la
ristrutturazione della democrazia e del suo funzionamento in termini di
partecipazione. Sostengo da tempo che dobbiamo avere il coraggio di porci
domande per le quali sappiamo di non avere risposte. E l'interrogativo appena
formulato può non essere uno dei più ardui che ci inseguono in questa fase
storica. Anche perché se è vero che la democrazia è commisurata all'uomo
comune, è altresì vero che essa suscita risorse che al comune buon senso fanno
riferimento e dalla prassi quotidiana traggono ispirazione.
Non
è del tutto vero che siamo rimasti all'anno zero della forma partito e che le
soluzioni non siano state cercate. Non è casuale l'accorciamento della distanza
tra gli ambiti dell'amministrazione e quelli della politica. Non solo i
politici più avvertiti, ma anche la pubblica opinione si sono ben presto resi
conto che, archiviati i partiti e chiuse le scuole di partito insieme alle
sezioni territoriali, un qualche banco di prova andava comunque trovato per
produrre cultura politica condivisa e selezionare la classe dirigente. L'unico
luogo disponibile a un qualche training, a percorsi di acculturazione e avvicinamento
alla cosa pubblica, a tecniche necessarie nello spazio pubblico è rimasto
quello dell'ente locale, di quelli che la dottrina sociale della Chiesa
continua a chiamare "corpi intermedi".
Qui
il confronto con le esigenze della popolazione e le difficoltà di soluzione è
obbligato e quotidiano. Qui le capacità vengono comunque messe alla prova ed
allenate. Non a caso a far data dal 1994 i movimenti che fanno riferimento ai
sindaci hanno di tempo in tempo guadagnato la cresta dell'onda e il favore
dell'opinione pubblica.
Detto
in breve e alla plebea: si sono notevolmente accorciate le distanze tra
l'amministrazione e la politica. Una sorta di "via francese": perché
in Francia nessun leader è tale e può sperare di arrivare all'Eliseo senza aver
prima fatto il sindaco della propria città. Ci imbattiamo addirittura nella
figura del deputé-maire.
Rutelli
fu sindaco di Roma. Veltroni diventa leader del PD dopo aver occupato la
medesima carica. Matteo Renzi è sindaco a Firenze. Le competenze altrove
smarrite per la dissipazione della tradizione e la mancata organizzazione di
percorsi formativi e selettivi, hanno dunque l'amministrazione come banco di
prova. Una base estesa e certamente non priva di competenze. L'immaginazione
politica può attingervi energie, stili di vita, leadership. È un augurio, ma
anche una realtà in movimento. Perché la democrazia non è un guadagno fatto una
volta per tutte. E perché la democrazia si occupa anche di quelli che non si
occupano di lei.
Note
Edmondo Berselli, Il più mancino dei tiri, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2010.
Umberto Eco,
Diario minimo, Bompiani, Milano 1992
Albert
Eistein, Il mondo come io lo vedo,
Newton Compton, Roma 2012