UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

giovedì 23 agosto 2018

Uri Avnery. Fino all’ultimo respiro
di Patrizia Cecconi
 
Uri Avnery

L’età - implacabile nel decretare la fine della vita per chi ha avuto la fortuna di non vedersela stroncare dalla violenza o dalla malattia - ha privato il mondo di una delle menti più lucide e oneste del sionismo.

Sionismo, termine che fa tremare le vene ai polsi ai tanti attivisti filo-palestinesi che in esso vedono solo razzismo o suprematismo fascistoide. In realtà hanno ragione se si prende il sionismo per quel che è nella sua pratica generale, ma non hanno ragione se prescindono da quella che è una delle caratteristiche fondamentali che determinano il sionismo stesso, e che figure quali Jeff Halper o Gideon Levy hanno abbracciato, cioè il sostenere giusta l’esistenza dello Stato di Israele all’interno della Palestina storica e, in alcuni casi,  lo scegliere di  diventare israeliani pur venendo da altre parti del mondo, cittadinanza acquisita semplicemente in quanto ebrei grazie a una delle due leggi fondamentali dello Stato di Israele che è la cosiddetta “legge del ritorno”.
“Ritorno” già in sé comporta un’arrogante pretesa e la base di una menzogna, ma fu la geniale trovata di Theodor Herzl, il padre del sionismo, appunto, ad essere vincente e a modificare il corso della storia nella terra di Palestina. Se il luogo in cui far nascere lo Stato per gli ebrei fosse stato in Africa o in America Latina, come pure ipotizzato prima della scelta finale, estremamente comoda per il colonialismo europeo del secolo scorso, forse non ci sarebbe stata una “legge del ritorno” perché l’evocazione biblica non sarebbe stata tanto efficace, ma non lo sappiamo. La Storia del resto non si fa con i se o con i ma.
Il fatto è che Israele non ha ancora una vera legge costituzionale, perché la costituzione implica i confini dello Stato e sappiamo bene che Israele quei confini li ha in testa in modo molto lontano dalla Risoluzione Onu 181 cui si aggrappa per legittimare la propria nascita e alla quale, invece, non ha mai portato rispetto né l’ha mai riconosciuta, a partire dall’autoproclamazione dello Stato decretata da Ben Gurion poco prima della scadenza del Mandato britannico e, quindi, prima che la Risoluzione 181 divenisse giuridicamente operativa. Ma al di là degli interessi imperialisti c’è da considerare, come fattore sociale, cosa potesse significare per un ebreo dopo la Seconda guerra mondiale e i campi di sterminio (ma anche dopo i ricorrenti progrom nella storia) avere un proprio Stato in cui sentirsi sicuro.
Su questa retorica, che però si fonda su basi concrete e che, solo per citare i momenti e le figure europee più rilevanti che già durante la Prima guerra mondiale hanno avuto il loro peso - come gli accordi Sykes-Picot nel 1916 e la dichiarazione Balfour nel 1917 - è venuta a crearsi l’idea che lo Stato di Israele, all’interno della Palestina e per di più cacciando i palestinesi, cosa non prevista né dalla Risoluzione 181 né dalla dichiarazione Balfour, fosse un sacrosanto diritto del cosiddetto “popolo ebraico” che veniva di fatto a crearsi raccogliendo sefarditi e askenaziti, arabi, europei, americani e altri, unificati dalla fede religiosa e non certo dalla nazione di provenienza. Uri Avnery fu uno di quelli e lo fu prima della grande tragedia della Seconda guerra mondiale. Tedesco, nato nel 1923 nella cittadina di Beckum nella Renania ed emigrato con la sua famiglia in Palestina quando Hitler andò al potere. Aveva solo 10 anni e non fu facile quel periodo visto che la sua famiglia aveva perso ogni ricchezza nella fuga dalla Germania nazista. Il giovanissimo Helmut, diventato poi Uri divenne un potenziale israeliano prima che si costituisse Israele.
Aveva solo 15 anni Helmut-Uri quando si arruolò nell’Irgun, la famigerata organizzazione paramilitare guidata da Menachem Begin autrice di azioni di  terrorismo ebraico delle peggiori, tra le quali si ricorda anche la strage al King David Hotel di Gerusalemme del 1946. Ma Uri ne era già uscito da quattro anni, cioè da quando aveva visto che le azioni dell’Irgun non andavano verso l’indipendenza dagli inglesi ma soprattutto erano focalizzate contro gli arabi. Sionista convinto, ma contrario alla pratica terrorista dell’Irgun, Uri Avnery abbandonò quindi molto presto la formazione che poi avrebbe dato lustro a Begin.
Ciò non gli impedì di partecipare alla guerra contro gli arabi nel 1948/49, ma non gli impedì neanche di vedere e raccontare le atrocità commesse contro i palestinesi che raccontò nel suo libro “Il rovescio della medaglia”. Libro che lo fece odiare da tanti ebrei, anche italiani e non solo israeliani, che definirono tradimento  la sua onestà intellettuale e morale. Quest’uomo, che pur restando sionista fu un grande amico del popolo palestinese, fu tra i fondatori di un importante movimento pacifista e fu un grande e lucidissimo giornalista, oltre che scrittore. Trovando poco efficace Peace Now ne uscì e fondò Gush Shalom, movimento pacifista più radicale, senza mai abbandonare la sua visione “sionista” di ebreo che credeva giusta l’esistenza dello Stato ebraico accanto ad uno Stato palestinese.
Chi scrive andò a trovarlo a Tel Aviv nel 2011, ma aveva appena perduto l’amatissima moglie e non aveva voglia di parlare di politica, per cui l’incontro avvenne con un altro rappresentante di Gush Shalom, più giovane ma altrettanto convinto delle sue stesse idee e altrettanto critico verso Israele, Adam Keller. Adam Keller raccontò che sua madre, una donna ultraottantenne e claudicante, in una manifestazione a sostegno dei diritti del popolo palestinese venne strattonata, picchiata e vilipesa dai soldati israeliani. Una piccola cosa rispetto a ciò che subiscono ogni giorno i palestinesi, e questo era chiaro ad Adam Keller, il quale comunque ci tenne a mettere l’accento sull’episodio per dire che non era certo questo l’Israele che lui, Uri Avnery ed altri convinti assertori dell’esistenza dei due Stati avevano in mente. In Italia i suoi articoli venivano tradotti e pubblicati dal Manifesto, giornale in qualche modo “di nicchia” e leggerli è sempre stato vero cibo per la mente. Lucido e logico nelle sue riflessioni, Avnery, già oltre 30 anni fa, mentre il mondo si prodigava in inchini e apprezzamenti che poi si rivelarono ingiustificati, proprio in un articolo pubblicato dal Manifesto definì Perez “Una menzogna che cammina”. Articolo che chi scrive portò in lettura ad un’amica ebrea di sinistra avendo in cambio l’esclamazione disperata di nascondere subito quel giornale perché in casa sua, ebrei di sinistra, era vietato anche solo pronunciarlo il nome di Uri Avnery.
Questo è solo un aneddoto, che unito a quello di Adam Keller potrebbe aiutare a far capire quanto lavoro c’è da fare per arrivare veramente a quella pace giusta al cui raggiungimento Avnery ha dedicato la vita.
L’essere stato un parlamentare della Knesset per tre legislature, fino al 1981 non lo ha salvato dalle invettive e dall’ostruzionismo delle istituzioni e del popolo israeliano sionista. Sionista nell’accezione che abitualmente si dà al termine e che i governi Netanyahu hanno notevolmente incrementato. Ma già quando nel 1982 incontrò Arafat, si dice che  il grande nemico del presidente palestinese, Ariel Sharon, avesse tentato  di utilizzarlo per eliminare Arafat dando indicazioni al Mossad di “adempiere al loro compito” anche se questo avesse comportato la morte di Avnery che andava a intervistarlo. Lo raccontò proprio Avnery, sionista di stampo diverso da Ariel Sharon, congratulandosi con i servizi palestinesi per aver scampato il pericolo. Con lui oggi non sparisce solo una grande mente, ma una mente capace di mettere in contraddizione le più grandi e le più piccole cose, come ad esempio le decisioni liberticide della Knesset israeliana circa la pratica di boicottaggio degli attivisti filo-palestinesi con analoga decisione della Knesset a favore del boicottaggio di un certo prodotto alimentare che danneggerebbe analogo prodotto di fabbricazione israeliana. Ma Uri Avnery era veramente una mente scomoda, una mente che la falce della morte ha portato via con sé avendo raggiunto i 94 anni e che fino all’ultimo ha conservato lucidità, forza e determinazione. Come racconta Adam Keller nel suo triste comunicarne la scomparsa, Avnery è collassato alcuni giorni fa tornando a casa dopo aver partecipato alla manifestazione contro la “nation state law” e dopo aver scritto un duro articolo contro quella legge. Fino all’ultimo respiro Uri Avnery è stato coerente. La sua scelta di ebreo che non ha mai respinto l’esistenza dello Stato di Israele, sognandolo però democratico e rispettoso dei diritti dei palestinesi ai quali si “doveva” (e non si doveva concedere) il proprio Stato, lo ha accompagnato fino alla morte. Qualcuno lo ha definito un visionario perdente ma, come dice Adam Keller, suo ideale portavoce e successore in Gush Shalom, “i più grandi avversari di Avnery dovranno seguire le sue orme, perché lo Stato di Israele non ha altra scelta reale.”
Se sarà così o meno non lo sappiamo, ma sappiamo che Israele ha perso la mente  lucida di un ebreo israeliano di sinistra, fortemente critico e anche per questo valido ostacolo contro la deriva barbarica della destra estrema. E anche i palestinesi hanno perso un amico, benché fosse un convinto sionista, tanto convinto e tanto aperto alla dialettica politica da mandare il suo articolo settimanale anche a chi non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele. Perché Avnery era una di quelle figure, sempre più rare, che riconoscono nell’avversario onesto un possibile collaboratore indiretto nel grande disegno di una società più giusta. A chi scrive, pur essendo contraria al sionismo anche nell’accezione di Uri Avnery, mancherà molto il suo contributo. Altri invece ringrazieranno la falce della natura per aver spento una voce che ancora a 94 anni aveva la capacità di battersi contro chi viola sistematicamente i diritti umani, sebbene nello specifico si tratti dello stesso paese che sentiva come propria patria. Avnery usava dire che “la differenza tra un combattente per la libertà e un terrorista dipende solo dalla prospettiva con cui si guarda”. Questo non è l’accettazione del terrorismo ma il riconoscimento e la stima per chi combatte per la libertà. 
Che la terra ti sia lieve, grande combattente.


mercoledì 22 agosto 2018

ALLARME PONTI
di Franco Manzoni

Il ponte dello scalo Farini negli anni Trenta

Milano. Calcinacci caduti sulle rotaie dello scalo Farini.
Il ponte di via Farini è lungo 200 metri. Per ora hanno tolto il bus numero 70, tutti i Tir, tutti i tram tranne il numero 4, che però deve procedere a 10 km all’ora. Perché non chiuderlo se davvero è a rischio? E poi pochi sanno che è così fatiscente. Non si è proceduto nel mese di luglio e agosto ad interventi diretti sulla struttura. Su richiesta della Rfi si faranno nuove verifiche approfondite e il ponte sarà costantemente monitorato, così dicono. Il tutto ha subìto un'accelerazione dopo il disastro di Genova. Occorrerà intervenire quanto prima sui ferri dell'armatura e altri lavori che la giunta comunale deve ancora approvare. A settembre, oltre a ripristinare lo stato superficiale, sarà installata una rete di protezione sotto il ponte. Ricordo che sotto passano tutti i treni in arrivo e in partenza dalla Stazione Garibaldi. Per ora il ponte continuerà a funzionare per il traffico leggero (?) e solo per il tram 4. Non si poteva chiudere il ponte durante il periodo di luglio e agosto e dare il via subito a questi interventi? È interessante osservare che il Comune ha deciso di fermare il traffico pesante superiore alla 35 tonnellate. Di conseguenza i Tir di minor peso possono tutt'oggi transitare sul ponte Farini. Un rischio reale, senza voler fare i catastrofici. Chiediamoci anche da quanti anni tale ponte viene utilizzato da un traffico costante e dalla tramvia, che da semplice tram nel tempo si è modificata in un metrò con parecchi vagoni in entrambe le direzioni, e quali interventi siano stati fatti (o meno) in precedenza nel corso degli ultimi cinquant'anni!




ANNIVERSARI
Il 19 agosto dello scorso anno abbiamo perduto un caro amico, un collaboratore di questo giornale, e un raffinatissimo intellettuale, Giovanni Bianchi. Lo ricordiamo commossi, pubblicando questa sua poesia inedita.


Giovanni Bianchi

La cosa umana

Torno, cari compagni,
per riattraversare gli enigmi
umanamente insieme.

Canticchio nel sole
dell’autobus
il salmo popolare.

Il mio Dio continua ad abitare
le sorprese.

[Giovanni Bianchi]

ANCORA IGNORATA LA RICORRENZA DALLA FONDAZIONE
DEL PARTITO SOCIALISTA
di Franco Astengo


Anche quest’anno non mi pare di aver raccolto segnali di ricordo al riguardo della fondazione del Partito Socialista avvenuta a Genova il 15 agosto 1892, cioè 126 anni fa.

Provvedo, indegnamente, con queste poche righe partendo da un assunto di attualità.
L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.
L'impoverimento generalizzato e l'inversione delle aspettative sono stati i fenomeni documentati qualche anno fa dal rapporto McKinsey dal titolo  "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi.) Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare - secondo lo stesso Rapporto McKinsey - il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump, al gruppo di Visegrad ai nostri Lega e M5S.
Lo studio di McKinsey prendeva in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C'è dentro tutto l'Occidente più il Giappone. In quest'area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c'è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l'impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L'Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l'81% ei segnali di crescita si stanno verificando in un quadro di protezionismo e di innalzamento di barriere. Seguono Inghilterra e Francia. Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l'intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le disuguaglianze e si misurino davvero con il tema del lavoro sul quale si riflette soltanto in termini di assistenzialismo (80 euro, reddito di cittadinanza) o di inasprimento delle condizioni di sfruttamento (Job Act).
L'altra conclusione del Rapporto McKinsey riguardava i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. "I lavoratori giovani e quelli meno istruiti - si legge nel Rapporto - sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri". Questa generazione ne è consapevole, l'indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.
Lo studio non si limitava a tracciare un quadro desolante, vi aggiungeva delle distinzioni cruciali per capire come uscirne : se lasciata a se stessa, l'economia non curerà l'impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: "Perfino se dovessimo ritrovare l'alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi". E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell'ultimo decennio, dal 70% all'80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione. Si confermano quindi le analisi di economisti come Piketty, Atkinson, Stiglitz  e le ricerche di un marxista capace di una visione “mondiale” come l’appena scomparso Samir Amin.
Eppure nonostante l’emergere di questo quadro desolante poco o niente si sta muovendo soprattutto sul piano della rappresentanza politica di coloro che soffrono delle contraddizioni generate da questo stato di cose: uno stato di minorità e di sfruttamento allargato sull’insieme della società sempre più sfrangiata, sfibrata, preda dei “falchi” dell’innovazione tecnologica che punta alla riduzione nella condizione della schiavitù individualistica mentre appare in piena evoluzione il processo di divorzio tra la politica e la cultura.
Oltre cento anni fa la reazione alle condizioni di sfruttamento imposte dalla prima rivoluzione industriale fu ben diversa e vale la pena di raccontarla per sommi capi. In Italia la crescita del movimento operaio si delinea sulla fine del XIX secolo. Le prime organizzazioni di lavoratori sono le società di mutuo soccorso e le cooperative di tradizione mazziniana e a fine solidaristico. La presenza in Italia di Michail Bakunin dal 1864 al 1867 dà impulso alla prima organizzazione socialista-anarchica, ma aperta anche ad istanze più generalmente democratiche e anche autonomiste: la Lega Internazionale dei Lavoratori (opposta all'Associazione internazionale dei lavoratori di Karl Marx). L'episodio anarco -socialista di propaganda più noto è quello del 1877 (un gruppo di anarchici tentò di far sollevare i contadini del Matese)
In merito alla formazione dei socialisti in Italia (che a tutti gli effetti si configuravano come prima realtà partitica moderna) è interessante notare l'eredità mazziniana e della struttura di "partito" che, decenni addietro, si era data la Giovane Italia di Mazzini. Essa infatti, pur scevra da costrutti dottrinali ideologici per come li intendiamo noi, basava la propria attività su tre punti fondamentali: proselitismo, coordinamento centrale e autofinanziamento del movimento. I socialisti, volontariamente o meno, si strutturarono quindi in maniera simile, poggiando le basi su una concettualità ideologica, e formando così il primo partito moderno italiano. Intanto la Lega Internazionale dei Lavoratori nel 1874 si era sciolta e l'anima più moderata, guidata da Andrea Costa, sosteneva la necessità di incanalare le energie rivoluzionarie in un'organizzazione partitica disposta a competere alle elezioni. Tra i più convinti sostenitori di questa linea troviamo Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi Viani, fondatori nel 1876 della "Federazione Alta Italia dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori" e, nel 1882, del Partito Operaio Italiano, con la rivista "La Plebe" (di Lodi), alla quale poi si affiancano altre pubblicazioni. Nel 1879 Costa, uscito dal carcere, si trasferì a Lugano in Svizzera. Qui scrisse la lettera intitolata "Ai miei amici di Romagna", in cui indicava la necessità di una svolta tattica del socialismo, che doveva passare dalla «propaganda per mezzo dei fatti» a un lavoro di diffusione di principii, che non avrebbe presentato risultati immediati, ma avrebbe ripagato sul medio periodo. La lettera fu pubblicata nel n. 30 del 3 agosto 1879 de “La Plebe”.
La presa di posizione di Costa determinò nel movimento socialista italiano una prima separazione dei socialisti dagli anarchici. Nel 1881 questi organizzò il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che sosteneva, fra l'altro, le lotte dei lavoratori, l'agitazione per riforme economiche e politiche, la partecipazione alle elezioni amministrative e politiche. Il partito di Costa incontrò grandi difficoltà, anche se egli riuscì ad essere eletto alla Camera nel 1882: fu il primo deputato socialista della storia d'Italia.
Anche il Partito Operaio Italiano di Costantino Lazzari e Giuseppe Croce si presentò alle elezioni del 1882, ma senza successo. Frattanto il movimento operaio si organizzava in forme più complesse: Federazioni di mestiere, Camere di lavoro, ecc. Le Camere di Lavoro si trasformano in organizzazioni autonome e divengono il punto di aggregazione a livello cittadino di tutti i lavoratori. Su queste basi nel 1892 nasce a Genova il Partito dei Lavoratori Italiani che fonde in sé l'esperienza del Partito Operaio Italiano (nato nel 1882 a Milano), della Lega Socialista Milanese (d'ispirazione riformista, fondata nel 1889 per iniziativa di Filippo Turati) e di molte leghe e movimenti italiani che si rifanno al socialismo di ispirazione marxista.
La scelta di Genova come città in cui svolgere il congresso il 14 e 15 agosto del 1892, tra le altre cose, fu dovuta alla contemporanea presenza delle manifestazioni Colombiane per il quattrocentenario della scoperta delle Americhe: le ferrovie infatti in tale occasione avevano concesso degli sconti sui biglietti per il capoluogo ligure, che vennero sfruttati dai convenuti al congresso (la maggior parte dei quali provenivano dalle regioni del nord). La decisione generò attriti con i rappresentanti della locale Confederazione operaia genovese, inizialmente tenuti fuori dall'organizzazione dell'evento, e mediaticamente si rivelerà controproducente, essendo in quei giorni l'interesse dei quotidiani e delle riviste concentrato proprio sugli eventi (gare ginniche e regate) correlati alla grande esposizione colombiana, che finiranno per mettere in ombra il congresso. Al congresso si presenteranno circa 400 delegati, rappresentanti di interessi e posizioni non sempre allineate tra di loro.  I fondatori ufficiali della nuova formazione politica furono Filippo Turati e Guido Albertelli. Altri promotori furono Claudio Treves, Leonida Bissolati, Ghisleri, Enrico Ferri, che erano provenienti dall'esperienza del Positivismo. Turati ed altri (Camillo Prampolini, Anna Kuliscioff, Bosco, ecc..) furono a Genova fin dal 13 e proprio la sera di quel giorno si riunirono per discutere delle proposte da presentare nel congresso dei giorni seguenti. Gli esponenti anarchici, commentando al tempo questa riunione preparatoria, la descrissero come una riunione che aveva come tematiche le decisioni da prendere contro la corrente anarchica stessa. Gli attriti tra le due anime proseguirono il giorno successivo, nella sala Sivori, con la richiesta della parte anarchica (Pellaco, Galleani e Gori) di sospendere i lavori e la posizione di Turati e Prampolini che invece chiesero ed auspicarono una netta separazione tra le due correnti del movimento.[14] Turati decise quindi di riunire i congressisti che erano fedeli alla sua linea non più alla sala Sivori, ma nella sede dell'associazione garibaldina "Carabinieri Genovesi".
Il 15 agosto si ebbero quindi due incontri, quello degli appartenenti alla linea di Turati (circa i 2/3 dei rappresentanti convenuti a Genova ), che, dopo alcuni infruttuosi tentativi di mediazione tra le due correnti portati avanti da Andrea Costa, fonderà il Partito dei Lavoratori Italiani, e quella nella sala Sivori dove l'ala anarchica ed operaista (circa 80 delegati) darà vita ad un omonimo partito, la cui esistenza, di fatto, terminerà con la fine del congresso. Viene eletto Segretario del neocostituito Partito Carlo Dell'Avalle, fondatore nel 1882 della "Società Genio e Lavoro", che riuniva le principali organizzazioni operaie milanesi, tra cui i ferrovieri e i lavoratori della Pirelli.
Nel 1893, nel II Congresso di Reggio Emilia, il partito si dà un'autonomia e un nome ufficiale come Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, inglobando anche il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano di Andrea Costa. È confermato Segretario Carlo Dell'Avalle.
Nell'ottobre del 1894 il partito viene sciolto per decreto a causa della repressione crispina. Il 13 gennaio 1895 si tiene in clandestinità il III Congresso a Parma che decide di assumere la denominazione di Partito Socialista Italiano. È eletto Segretario Filippo Turati.
Turati è erede del radicalismo democratico; nel 1885 si era unito con la rivoluzionaria Anna Kuliscioff; conosce le opere di Marx ed Engels, è legato alla socialdemocrazia tedesca ed alle associazioni operaie lombarde. Considera il socialismo non dal punto di vista insurrezionale, ma come un ideale da calare nelle specifiche situazioni storiche. Alle elezioni del 1895, in contrapposizione alla repressione, viene creata un'alleanza democratico - socialista. Vengono eletti in Parlamento 15 deputati socialisti, tra i quali Bissolati, Costa, Prampolini, Turati. Si apre la lunga stagione del socialismo italiano e delle tappe della sua crescita che passerà attraverso momenti di feroce repressione come quello del maggio 1898 con le cannonate di Bava Beccaris , del suo sviluppo, delle sue rotture, ricomposizioni, scissioni, la più importante delle quali rimane quella del 24 gennaio 1921 quando a Livorno si separarono socialisti e comunisti.
La grande epopea della Rivoluzione d’Ottobre aveva fornito, come nel resto dell’Europa Occidentale, l’effetto della divisione tra i due grandi filoni rappresentativi della storia del movimento operaio del ‘900.
Del resto la II internazionale era già fallita nella torrida estate del 1914, quando la grande SPD e il PSF avevano votato i crediti di guerra smentendo l’opzione pacifista ad arrendendosi alle vocazioni imperiali e nazionaliste sulla base delle quali era scoppiata la “Grande Guerra”.
Sono passati 126 anni dalla fondazione di Genova e 97 anni dalla scissione di Livorno.
Dopo lo scioglimento del PSI e del PCI avvenuto nel quadro del rivolgimento di fine anni’90 la sinistra italiana si trova priva di una qualche propria presenza significativa, in una situazione di arretramento storico quale quella che è stata descritta nella prima parte di questo intervento.
Una situazione di difficoltà nell’espressione di soggettività estesa anche alla dimensione internazionale dove, a fronte di segnali di rinnovamento e di crescita che si stanno verificando in particolare negli USA e in Gran Bretagna senza dimenticare Portogallo e Spagna, con l’affermazione di un socialismo di sinistra da considerare come reazione allo slittamento a destra avvenuto nei primi decenni del secolo (Blair, Schroeder, il PD italiano) e al fallimento delle socialdemocrazie francese e tedesca, non pare corrispondere una nuova capacità di collegamento internazionalista.


A CINQUANT’ANNI DA PRAGA
NEL VORTICE DELLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE
di Franco Astengo


La democrazia liberale europea, quella che ha garantito il compromesso socialdemocratico dei “trenta gloriosi” è in crisi: una crisi che secondo Gianfranco Pasquino deriva dall’incompetenza, dalla disinformazione, dal mancato impegno, dal conformismo dilagante.
La valutazione dell’illustre politologo bolognese è sicuramente incompleta e andrebbe accompagnata da un’analisi riguardante ciò che è accaduto alla fine del mondo bipolare con l’introiettazione, prima di tutto sul piano culturale, dell’idea della “fine della storia” e l’accettazione del processo definito di globalizzazione accompagnato da una fretta eccessiva nell’accelerare la “cessione di sovranità” dello Stato Nazione.
I risultati di questo stato di cose sono sotto gli occhi di tutti e possono essere riassunti in due punti: allargamento delle disuguaglianze su tutti i piani; intensificazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nell’ampliarsi della differenza di genere, nell’imposizione del predominio della tecnica e dell’economia; nella riduzione della politica a governabilità amministrativa. Oggi i nodi stanno venendo al pettine e non sembra che si cerchino di sciogliere per il verso giusto: anzi.
Certamente, a cinquant’anni di distanza dall’Agosto praghese, per chi ha vissuto quei momenti l’amaro in bocca rimane. Allora, infatti, il tema era quello del nesso tra socialismo e democrazia tentato dalla “Primavera” : esperimento brutalmente stroncato dai carri armati del Patto di Varsavia: certo con tutte le contraddizioni dell’epoca che è difficile riassumere qui in poche righe. Oggi, invece,  si profila una crisi verticale della democrazia che, a quel tempo, definivamo come “borghese”.
Una crisi che apre le porte al profilarsi dell’instaurazione di regimi autoritari fondati su principi che possono essere ben appellati come di “arretramento storico”: di ritorno ai tempi cupi degli anni’30-’40 del 900, i tempi del fascismo e del nazismo. All’interno delle grandi potenze i segnali di questa involuzione ci sono giù tutti e ben evidenti.  Allora diventa ancora una volta è importante ricordare Praga ’68, momento fondamentale di snodo nella storia europea e mondiale. Una vicenda molto diversa da quella di Budapest ’56. Da Praga sortì la lunga fase del “gelo brezneviano” e si posero le condizioni  oggettive del crollo del sistema sovietico. Emerse l’impossibilità di un’autoriforma che pure nel periodo ’56-’64 aveva animato il dibattito all’interno del movimento comunista internazionale.
Ma, sul piano culturale, come può essere possibile oggi identificare il tentativo portato avanti dal Partito Comunista Cecoslovacco? Il tentativo della “primavera di Praga” iniziò coltivando l’ipotesi che fosse possibile andare oltre le diagnosi e i rimedi proposti dal XX congresso del PCUS nel 1956, utilizzando lo spazio aperto dalla nuova politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev.
Data la situazione complessiva entro il blocco sovietico, in un primo tempo, i successi dei tentativi che furono svolti sulla base di quell’analisi, risultarono scarsi ed effimeri.
L’idea di “andare oltre” il XX congresso pur essendo presente come corrente all’interno dei partiti comunisti in tutto l’ambito del Patto di Varsavia, ebbe effettivamente una funzione politica decisiva soltanto in due casi: in Ungheria e in Cecoslovacchia. Il caso ungherese risultò anomalo in due sensi: infatti, il primo insorgere di un movimento di riforma comunista (il governo Nagy tra il 1953 e il 1955) si verificò addirittura in precedenza alla celebrazione del XX congresso e fu inevitabilmente destinata al fallimento; il secondo tentativo, invece, nel 1956 la temporanea egemonia della corrente riformista era solo la conseguenza di un’esplosione rivoluzionaria incontrollabile e la reazione dell’apparato dirigente conservatore e dell’URSS fu, logicamente, commisurata a quel dato d’incontrollabilità.
In contrasto con la nascita precoce e la distruzione prematura della variante ungherese, il tentativo di riforma in Cecoslovacchia fu più lento a maturare, più saldamente radicato e meglio attrezzato per una graduale radicalizzazione. Ebbe origine, infatti, da una reazione tardiva rispetto al XX congresso e acquisì un più deciso impulso a partire dal 1963; la sua vittoria nel 1968 fu il segnale di partenza per movimenti di base, che avevano negli intellettuali il supporto più attivo, ma si espandevano ad altri settori della popolazione. Il modello cecoslovacco può essere perciò considerato il solo caso completo di tentativo di riforma di un regime “a socialismo reale”.
Su queste basi si verificò una grande osmosi tra l’ideologia di trasformazione del regime e l’analisi critica complessiva del “socialismo reale” stesso.
Negli anni’60 il crescente movimento di riforma assorbì l’immissione di energie intellettuali di varie correnti e discipline e anche dopo l’invasione, l’eredità della “primavera” continuò a influire in modo diretto sull’insieme del dissenso, a Est come a Ovest. Si dimostrò subito come il programma di riforme fosse incompatibile con gli interessi costituiti del gruppo dirigente sovietico, nel quadro - tra l’altro - di una nuova forzatura bipolare dell’equilibrio mondiale in conclusione del tentativo di distensione attuato nella prima metà degli anni ’60 (pur con grandi contraddizioni: muro di Berlino, missili a Cuba). Dopo la seconda guerra mondiale, la Cecoslovacchia (paese di grande tradizione industriale, con una classe operaia molto avanzata fin dagli anni’20 in un contesto di disponibilità di alta tecnologia in campo meccanico , dell’industria di precisione e degli armamenti) era il paese nel quale il partito comunista disponeva del maggior sostegno di massa tra i lavoratori e gli intellettuali. Ciò aveva reso più facile la conquista del potere e meno vulnerabile il regime postrivoluzionario, anche se il meccanismo iniziale era stato quello del classico colpo di stato nella primavera del ’48. Di fronte alla politica di “normalizzazione” si aprì, dunque, fin dall’inizio degli anni’60 per poi prendere corpo nel corso del decennio l’idea di un nuovo sistema politico.
Questa idea fu al centro dei più franchi dibattiti pubblici che ebbero luogo nei Paesi dell’Est, tra il gennaio e l’agosto del 1968. Nella sinistra in cui i comunisti lavoravano in direzione dell’emancipazione politica delle forze sociali, c’era una traccia autenticamente pluralista.
Nel loro programma c’era anche, e veniva apertamente affermato da alcuni teorici del movimento, uno sforzo per cambiare i rapporti tra stato e società civile.
In questo senso, un primo documento programmatico di Zdenek Mlynar rappresentava in modo fedele questa linea di sviluppo “ Prima di tutto si deve riconoscere che lo status di agente politico indipendente doveva essere attribuito alle diverse componenti specifiche dei gruppi e degli strati sociali, ai gruppi d’interesse comune e, in ultimo, a ogni cittadino in quanto individuo”.
Nelle discussioni meno ufficiali emergevano due linee di differenziazione: una di esse divideva i gradualisti da coloro che sostenevano che solo un’accettazione immediata dei principi pluralistici poteva assicurare il successo a lungo termine del movimento.
Il tema dibattuto in modo più vivace era quello dell’istituzionalizzazione dell’opposizione politica. Questo tema, dopo un serrato scambio di vedute fra maggio e giugno, fu posto in ombra da questioni più urgenti ma non vi è ragione per dubitare che per molti all’interno del PCC si concepisse l’introduzione di un sistema pluripartitico come lo sbocco logico del processo di democratizzazione, anche se non si arrivava a pensare che le condizioni del 1968 fossero mature per un simile esito.
Il secondo aspetto delle discussioni si sviluppò più lentamente e riguardava l’introduzione di elementi di democrazia diretta, in luogo della scelta di una più stretta osservanza dei principi della democrazia parlamentare. In termini più pratici ciò significava la richiesta di autogestione.
Dopo alcuni inizi incerti l’idea di “organi democratici di gestione” guadagnò rapidamente terreno e quando apparvero sulla scena i “Consigli del popolo lavoratore” (da non confondersi con i consigli operai intesi in senso stretto) il conflitto prima latente fra concezioni democratiche e tecnocratiche si fece più acuto.
I tentativi di difendere i Consigli furono gli atti più importanti della resistenza durante i sette mesi tra l’invasione e l’avvento della normalizzazione completa avvenuta nell’aprile del 1969.
A posteriori, si può vedere in questo passaggio un primo accenno a una strategia che, più tardi, sarebbe stata applicata in Polonia: basare la lotta per le riforme su un movimento sociale esterno al Partito.
Ma in Cecoslovacchia questa ipotesi fu prospettata solo quando il movimento della “primavera” era ormai sulla difensiva. Il dibattito sull’autogestione chiamava in causa anche il terzo pilastro dell’ideologia delle riforme: la teoria della “produzione socialista di beni di consumo”.
Riforme del genere erano discusse e in una qualche misura messe in atto dappertutto, ma solo in Cecoslovacchia questo tema era legato a quello di un generale rinnovamento di carattere intellettuale e politico. In Ungheria le riforme economiche si spinsero più avanti rispetto agli altri paesi dell’Est europeo, ma il loro contesto sociale fu determinato dalla sconfitta della rivoluzione del 1956 e dalla distruzione dell’ipotesi di riforme politiche; in Polonia le proposte di riforme economiche divennero negli anni’60 sempre più accademiche e fuori sintonia con la politica di Gomulka.
Dopo l’aprile del 1969 il tentativo di riforma, nel senso tradizionale del termine, non costituì più un’opzione praticabile, ma le conclusioni da trarre dalla sconfitta non erano per nulla ovvie.
In seguito Rossana Rossanda introducendo, dieci anni dopo a Venezia, un convegno su “potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie” organizzato dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono per la prima volta di persona dissidenti dell’Est russi, polacchi, cecoslovacchi, sostenne che si era smarrita in quel frangente l’idea del socialismo, non come generica aspirazione, ma come “teoria di una società”, modo diverso degli uomini di organizzare la loro esistenza.
E’ questo un punto di riflessione da riportare in evidenza nel quadro della crisi - evidente  almeno nei paesi europei sia di democrazia “matura” sia di nuova democrazia post- 89 - della democrazia liberale.
In questa fase di evidente “rivoluzione passiva” ricordare gli elementi fondativi della primavera di Praga, oggi di fronte al fallimento epocale dell’ipotesi capitalistica seguita alla caduta dei blocchi e all’affermazione di un solo modello di egemonia sociale fondato sull’iper-liberismo e sull’assolutismo della finanza può essere ancora esercizio utile se partiamo proprio dall’idea di non abbandonare l’obiettivo di una società “altra”  rispetto alla crisi della democrazia liberale: opponendoci, prima di tutto, al riemergere dell’assolutismo e avanzando, con tenacia, proposte alternative anche in una condizione di apparente minorità. Rimangono sullo sfondo i temi delle istituzioni e dell’organizzazione politica sui quali deve essere aperta una riflessione al riguardo della quale l’analisi di ciò che accadde a Praga il 21 agosto 1968 deve far parte e non certo semplicemente per un richiamo storico.

martedì 21 agosto 2018


IL PENSIERO DEL GIORNO
di Ilaria Guidantoni



“La Passione si misura con la paura.
Spesso la paura la uccide, ma accade che la passione la sfidi e la vinca comunque. Non morire per la passione, è più forte della morte stessa”


IL PENSIERO DEL GIORNO
di Max Hamlet Sauvage

Veduta di Gallipoli

“Non è la città che fa un popolo,
ma è la gente che fa una città”


MILANOARTEMUSICA



Giovedì 23 agosto ore 20.30
Basilica di Santa Maria della Passione

Hear my prayer

The Tallis Scholars

Peter Phillips
direttore

sabato 18 agosto 2018


AFORISMI
di Nicolino Longo


“L’esempio della rana di Fedro, che scoppiò nel volere imitare l’enormità del bue, sarebbe potuto essere di proficuo insegnamento se ce se ne fosse ricordati al momento della costruzione, su imitazione di quello di Brooklyn, del Ponte di Genova, che non avrebbe potuto non fare, con una grande strage di innocenti, la fine della rana”.

*
“Bisogna fare, mai imitare; essere, mai diventare”.

*
“Il lupo, pur se attratto dal campanaccio, alla fine sceglie
sempre la pecora”.

*
“L’Amazzonia: la più grande antologia vivente di versi al mondo”.

*
“Ogni poeta, mettendo versi su versi, vuole crearsi il piedistallo
su cui ergersi vivo da morto”.



venerdì 17 agosto 2018


TRAGEDIE
di  Franco Astengo

Genova. Il crollo

L’Italia è un paese costruito tra gli anni ’50-’60 sulle macerie della guerra e sulla spinta della motorizzazione di massa e dell’avvento del consumismo; si è smesso di curarlo negli anni’90 con la deindustrializzazione, le privatizzazioni, il territorio “da bere” e ha cominciato ad andare in pezzi nel corso degli ultimi dieci anni senza che nessuno se ne curasse dopo la “grande abbuffata” dei decenni precedenti.
Una “grande abbuffata” e una noncuranza della realtà che hanno portato, come conseguenza, non solo la distruzione delle infrastrutture, del territorio, di migliaia di posti di lavoro anche al degrado e all’incattivimento dell’agire politico. In questo modo oggi si sono rese evidenti situazioni che hanno resto incredibili le istituzioni e minato alla base la credibilità del sistema democratico, fino al punto da aprire la strada a soluzioni potenzialmente molto pericolose. Una situazione che si presenta come di grave responsabilità per chi, negli ultimi vent’anni, ha condotto l’Italia dentro a questo vero e proprio baratro. Responsabilità da non dimenticare. Al di là del cordoglio e delle drammatiche prospettive che il crollo del ponte sul Polcevera determinano quali prime reazioni, questa mi sembra - in poche righe - la sintesi più efficace per riassumere ciò che è accaduto e la difficile prospettiva che ci troviamo di fronte.

giovedì 16 agosto 2018


A PROPOSITO DI VACCINI
di Alessandra Paganardi




Considero largamente condivisibile la posizione di Gaccione sui vaccini espressa sulla prima pagina di “Odissea” domenica 12 agosto. Personalmente, da paziente, vorrei che un immunologo finalmente mi spiegasse perché ho fatto il mio onesto morbillo a 7 anni, la mia onesta rosolia a 8, la pertosse da piccola e la parotite ben due volte senza quasi accorgermene e perché, invece, ho avuto una bruttissima convulsione a 11 mesi, per fortuna senza conseguenze, dopo un vaccino Sabin, già all’epoca giudicato a rischio quasi zero. Da grande consultai un luminare, anzi due, per avere una risposta, ed entrambi mi parlarono di “caso imprevedibile”. Ho concluso (un po’ affrettatamente, ma non avevo altri strumenti) che il mio organismo forse sopporta meglio le malattie vere di quelle simulate dai vaccini. E che di imprevedibile ci sono i mali, non la previsione isterica di tutti i mali possibili. Spiegabile, dunque, perché ho preferito limitarmi sempre, per me e per i miei figli, alle vaccinazioni strettamente obbligatorie. Richiamandole solo se strettamente prescritto. Tutta la mia generazione ha avuto il morbillo. Eravamo tutti mutanti o supereroi? Mah.

mercoledì 15 agosto 2018




VENERDì 17 AGOSTO ORE 20.30

Chiesa di San Bernardino alle Monache
via Lanzone 13, Milano

BWV OR NOT: BACH E LE OPERE DUBBIE

Ensemble Gli Incogniti
Amandine Beyer, maestro di concerto

Gli Incogniti, diretti dalla violinista Amandine Beyer, presenteranno la loro ultima pubblicazione con Harmonia Mundi “BWV or not?”, un programma sulle opere attribuite o trascritte da J. S. Bach, il cui comune denominatore è l’eccellenza musicale.


DOMENICA 19 AGOSTO ORE  18.30 e 20.30

Chiesa di Santa Maria della Sanità
via Durini 20, Milano

LES VOIX DES ANGES

Vittorio Ghielmi, viola da gamba

Un altro grande nome della scena internazionale a Milano Arte Musica: Vittorio Ghielmi presenta Les voix des Anges, programma di brani ispirati al repertorio inglese della lyra viol e che prende il titolo da un brano di Marin Marais, con musiche di Marais, Hume, Abel, Jenkins, Forequay e trascrizioni dello stesso Ghielmi.
Associazione Culturale La Cappella Musicale


IL PENSIERO DEL GIORNO
di Nicolino Longo

“L’uomo è l'unico animale al mondo che uccide i propri simili
e distrugge il proprio habitat”.

lunedì 13 agosto 2018

IL PENSIERO DEL GIORNO
di Angelo Gaccione

Da qualche tempo pensavo ad una definizione di quel ridicolo bipede chiamato uomo, specie alla quale mio malgrado appartengo. Il Corano, di cui giustamente i più evitano la noiosa lettura, lo definisce goccia di sperma che goccia. Ecco la mia.
Uomo: mammifero appartenente ad una singolare specie di bipede molto feroce e stupida. Dalla stragrande maggioranza di loro si consiglia di tenersi, saggiamente e prudentemente, il più possibile alla larga.
[Milano, 18 giugno 2018]

NUMERI ELETTORALI DELLA SINISTRA
TRA GOVERNO E OPPOSIZIONE
di Franco Astengo

Segnaliamo ai lettori questa lunga indagine di Franco Astengo sulla parabola elettorale delle sinistre italiane dal 1946 al 2018, perché sono numeri da meditare. La troverete integralmente nella rubrica "I Dossier". 




Mi permetto di offrire alla riflessione collettiva una carrellata tra i numeri delle elezioni politiche svoltesi tra il 2 giugno 1946 e il 4 marzo 2018 utilizzando quattro sistemi elettorali diversi. Il riferimento che si è cercato di sviluppare riguarda la presenza della sinistra divisa tra governo e opposizione, seguendo anche il filo della partecipazione elettorale, i cui dati sono sempre stati fortemente sottovalutati nello sviluppo delle analisi compiute di volta in volta. Le percentuali sono sempre riferite al totale degli aventi diritto e viene riportato il dato dei voti validi complessivi, comprensivi delle schede bianche e nulle.
Questo lavoro, molto approssimativo, è dedicato soprattutto a chi ha risposto in modo sostanzialmente negativo oppure con un assordante silenzio ad una semplice proposta di ripresa d’incontro tra le varie componenti, oggi assolutamente minoritarie, nelle quali si trovano suddivisa ciò che rimane della sinistra italiana: giusto i richiami all’identità, sbagliate le affermazioni di disporre in esclusiva della ricetta giusta, superficiale l’analisi che ignora i rischi incombenti sul fragilissimo sistema politico italiano... [continua a leggere nella rubrica “I Dossier”]

AFORISMI IRRIVERENTI
di Nicolino Longo
Disegno di Alberto casiraghy

“Magia divina: solo io (voi, giammai), sedendomi (assente, per un attimo,
il Cristo) alla destra di dio, posso trasformarmi, da essere umano,
in elemento chimico: iodio”.

*
“Agli atei: voi dite che Dio non c’è. Ma, prima di dirlo, dovreste fare il giro,
data la sua ormai avanzatissima età, di tutti gli ospizi”.

*
“Il diavolo: il primo schizzo, che all’uomo venne male, di Dio”.

*
Non avrai altro Dio all’infuori di me: come potrebbe, un Dio, con la scusa
di salvarci dall’idolatria, avere tanta arroganza, se non fosse l’uomo stesso,
arrogante per natura, a mettergliela in bocca?”.

domenica 12 agosto 2018


ALLI BENIGNI LETTORI

Oliviero Arzuffi
Segnaliamo ai lettori e alle lettrici di "Odissea", il robusto e ricco Reportage sulla Russia, del nostro collaboratore Oliviero Arzuffi, pubblicato nella rubrica Nevskij Prospekt.
 


L’Elzeviro
di Angelo Gaccione


Mi è stato chiesto da più parti cosa ne penso di questa storia dei vaccini. I miei amici forse credono che io sia un tuttologo e che possa intervenire su ogni argomento possibile. Mi spiace deluderli. In giro ci sono virologi, medici, ricercatori, - anche indipendenti - e non solo venduti alle grandi multinazionali dei farmaci e dei vaccini, dunque dovrebbero essere loro ad aprir bocca. Queste pagine sono comunque sempre aperte alla loro scienza, se ne hanno voglia. Ad ogni modo bastava formare per tempo una commissione di virologi di fama mondiale per capire quali sono necessari, quali dannosi e quali servono ad ingrassare le multinazionali. Purtroppo il 99% di chi ci governa (anche di coloro che si credono dei geni della comunicazione) è composto da fessi, da dogmatici, superstiziosi e da gente infarcita di credenze fideistiche che non dubita mai. Da parte loro i medici prescrivono farmaci, ma ignorano essi stessi tutte le controindicazioni e i danni collaterali. E se gli chiedi di prendere una qualsiasi posizione pubblica su ciò che ci fa ammalare, diventano omertosi e complici. Tacciono sugli esperimenti nucleari, sulle varie forme di inquinamento, sulle discariche tossiche, sui cibi adulterati, sulle condizioni malsane dei posti di lavoro. Muti. Sanno che il nostro sistema immunitario è già abbondantemente compromesso, ma non alzano la voce come dovrebbero. Sono i migliori alleati di questo sistema, e mai li si trova, se non individualmente, in conflitto con chi comanda. È forse anche questa la ragione, per cui sui vaccini, molti genitori hanno dubbi e diffidano.   


Gaza. Barbarie

Abdullah Al-Qatati

Marcia del Ritorno

Feriti
307
tra loro 28 bambini, 2 giornalisti, 5 paramedici
Uccisi
Ali Ghandour, 33 anni,
Enas Khemash, 23 anni,
incinta di nove mesi, e la sua figlioletta
Bayan Khemash di un anno e mezzo,.
Abdullah Al-Qatati, medico volontario, ucciso a Rafah con un colpo al petto
Ali Sa'id al-Alul, 55 anni, ucciso anch'egli a Rafah
Ahmed Abu Loli, 40 anni, deceduto sabato 11 per le ferite riportate.

Privacy Policy