LA LEGGE TRUFFA
di Franco Astengo
Settant’anni fa gli italiani furono chiamati al voto per le
elezioni della II legislatura repubblicana.
È il caso di ricordare quel passaggio proprio adesso mentre è
vigente una formula elettorale dai profili incostituzionali (dopo che altre due
sono state bocciate dalla Corte grazie all'iniziativa di singoli coraggiosi nel
silenzio delle forze politiche): un tema ormai abbandonato quello della formula
elettorale (anzi il tema abbandonato riguarda l'insieme delle norme che
regolano il diritto di voto che presentano ormai rilevanti "discrepanze
democratiche" non soltanto sul punto della formula che dovrebbe tradurre i
voti in seggi parlamentari ma anche, ad esempio, come nel caso del voto
all'estero). Effetto "rappresentatività del voto" del resto
violentato con la stupida riduzione del numero dei parlamentari avvenuta nel
2020. Andando per ordine: il 18 aprile 1948 nelle elezioni per la prima
legislatura repubblicana la DC aveva ottenuto il 49,8% dei voti e la
maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati, formando un governo
quadripartito presieduto da De Gasperi e comprendente i rappresentanti di Unità
Socialista che poi nel corso della legislatura avrebbero formato il PSDI, il
PRI e il PLI. Prima dell’inizio della II
legislatura si svolsero in Italia, in due tornate, tra il 1951 e il 1952, le
elezioni amministrative e si compì, tra De Gasperi e il Vaticano uno “strappo”
circa la proposta, rifiutata dal Presidente del Consiglio, per la formazione di
un “listone” alle elezioni comunali di Roma comprendente anche i neo-fascisti
del MSI. L’esito complessivo della tornata
amministrativa 51-52 mise in allarme la maggioranza di governo. Infatti, la DC vide diminuire il suo consenso di ben 13
punti percentuali rispetto al 1948. Questo
significava che, se lo stesso fenomeno si fosse riprodotto al momento delle
elezioni politiche, la geografia politica del Parlamento sarebbe stata
profondamente modificata. Inoltre, il dato che
emergeva in modo chiaro dai risultati elettorali era quello della tendenza di
un sistema che nella sua prima manifestazione era apparso fortemente bipolare
(il Fronte Democratico Popolare aveva ottenuto il 31%, quindi i due primi
partiti assommavano circa all’80% dei voti su di una partecipazione complessiva
del 92,23%), a diventare almeno tripolare a causa della forte legittimazione
ottenuta nella competizione, soprattutto al Sud, dal Partito Monarchico e dal
MSI. Questo risultato produsse nella classe
politica di governo e in particolare all’interno della DC quella che viene
comunemente definita come “sindrome di Weimar”: ovvero il timore che i partiti
posti ai due estremi dell’arco parlamentare possano strategicamente unire le
loro due opposizioni contro il governo e rendere, di fatto, il sistema
ingovernabile. In questo clima maturò,
alimentata anche dal timore che lo scontro Est-Ovest potesse travalicare i
confini della guerra fredda e portare il mondo verso un terzo conflitto
mondiale, la decisione di "blindare la democrazia". Scelta fortemente sostenuta dagli Stati Uniti attraverso
l'ambasciatrice Clara Boothe Luce, un esempio di vera e propria
"ferocia" anticomunista. Il metodo
seguito per ottenere questo risultato fu quello di realizzare un cambio del
sistema elettorale in modo da permettere alla formula degasperiana del
centrismo di mantenere e consolidare la guida del Paese. Si avviò così, sul finire della prima legislatura un acceso
dibattito in Parlamento e nel Paese. Dibattito
avviato attorno al progetto di riforma elettorale presentato dal ministro
dell’interno Scelba nell’ottobre del ’52.
Il "progetto Scelba" intendeva promuovere l’assegnazione di un premio di maggioranza del 65% dei seggi al partito o alla coalizione di partiti apparentati che avessero ottenuto un consenso pari almeno al 50% più uno del totale dei voti validi (come si può osservare si trattava, comunque, di un vero e proprio premio di maggioranza). La determinazione con cui il governo perseguì l’approvazione del progetto, dimostrata dall’aver posto la “fiducia” in entrambi i rami del Parlamento (come poi sarebbe accaduto nel 2015 nell'occasione dell'Italikum poi bocciato dalla Corte Costituzionale), l’anomalia delle procedure (in particolare nell’occasione del voto finale al Senato) e le accuse di volontà di manipolazione del risultato elettorale che le opposizioni lanciarono a più riprese alla Democrazia Cristiana restarono nella memoria collettiva attraverso l’epiteto appunto, di “legge truffa”, inventato dalla fertile mente propagandistica di Giancarlo Pajetta. Un dibattito arroventato che ebbe anche importanti conseguenze politiche sui partiti che appoggiavano la DC e all’interno dei quali non mancarono le voci di distinguo fino a provare vere e proprie scissioni che sfociarono nella formazione di liste schierate contro l’apparentamento centrista: da PSDI e PRI, Parri e Calamandrei formarono “Unità Popolare”, dal PLI l’ex-ministro Epicarmo Corbino (che aveva sostituito al ministero dell’Economia Luigi Einaudi, quando questi era stato eletto alla Presidenza della Repubblica) fondò l’Alleanza Democratica Nazionale e si schierò contro la nuova legge anche un’altra piccola formazione di ex-PCI usciti dal partito a causa dello “scisma” jugoslavo e guidata dai deputati Cucchi e Magnani formando l'Unione Socialista Indipendente (USI). Tre gruppi che, alla fine, non ottennero seggi al Parlamento ma le cui percentuali ebbero indubbiamente un peso sull’esito finale della vicenda.
Anche la campagna elettorale risultò particolarmente “calda”: il
responsabile della propaganda del PCI, Giancarlo Pajetta, inventò anche dopo
quello della "legge truffa" il celebre motto dei “forchettoni”
rivolto ai notabili democristiani e la stessa DC; o meglio un suo giovane astro
emergente Umberto Tupini incappò in un clamoroso infortunio, organizzando a
Roma una mostra fotografica sulla “Chiesa del Silenzio” per dimostrare le
condizioni di vessazione in cui versava la Chiesa Cattolica nel Paesi dell’Est a
“socialismo reale”. Fu, però, dimostrato, che la mostra era composta di
fotomontaggi e che i sacerdoti ritratti dietro il filo spinato o stretti dalla
guardia dei “vopos” se ne stavano tranquillamente a Roma e si erano prestati
come comparse.
I risultati elettorali non furono quelli auspicati
dal Governo.
Calderoli
Rispetto ai risultati delle
amministrative la DC dimostrò notevoli doti di recupero (perdendo però rispetto
al 1948 circa due milioni di voti) ma alla fine i partiti apparentati non
ottennero la maggioranza assoluta per uno scarto minimo di 34.000 voti. Come
era già avvenuto per il referendum istituzionale si parlò di brogli. De Gasperi, però, non rivendicò il riconteggio delle schede
accettando il risultato delle urne e assimilando così il risultato a una sorta
di responso referendario sulla legge maggioritaria. Lo scontro in atto produsse, comunque, un’impennata nella
partecipazione, che era già stata alta nel 1948, ma che crebbe sino al 93,8%
degli elettori (con il 4,6% di schede nulle e l’1,5% di schede bianche).
Comunisti e socialisti si presentarono, in questa
tornata elettorale, separati ottenendo il PCI il 22,6% e il PSI il 12,7%,
dimostrando quindi evidenti segnali di crescita rispetto al risultato
realizzato dal Fronte Democratico Popolare nel 1948 e codificando il
rovesciamento dei rapporti di forza a favore del PCI rispetto all'esito delle
elezioni per la Costituente del 1946. Le tre
piccole formazioni schierate “contro” la legge maggioritaria ottennero
complessivamente l’1,8% (USI 0,8%, Unità Popolare 0,6%, ADN 0,4%) ma
risultarono determinanti nell’ostacolare il raggiungimento della soglia del 50%
da parte dei partiti apparentati spostando voti da PRI, PLI, PSDI (quest'ultimo
sceso dal 7,07% del 1948 al 4,51%). Di grande
rilievo risultò, infine, l’avanzamento di monarchici e missini che ottennero
rispettivamente il 6,8% e il 5,8%, avanzando nel complesso del 4% (con punte
del 21,8% in Campania, anche grazie alla campagna elettorale delle “due scarpe”
e dei pacchi di pasta condotta dal sindaco di Napoli, Lauro, del 15% in Puglia,
dell’11,6% in Sicilia.) Il sistema
proporzionale si era dunque imposto come la tecnica preferita per
l’attribuzione dei seggi e avrebbe permeato gli equilibri del sistema politico
italiano per un lungo periodo, fino agli anni’90 del XX secolo quando, dopo
fatti politici di grandissimo rilievo (trattato di Maastricht, caduta del muro
di Berlino, Tangentopoli) parse prevalere l'antipolitica della
"governabilità" con l'idea che l'adozione della formula elettorale maggioritaria
contenesse l'elisir di tutti i mali della profonda crisi del sistema politico
italiano corroso dall'assenza di alternativa al ruolo pivotale di un DC ormai
imperniata sul CAF e la logica del potere per il potere. Un sistema politico
pervaso da una profonda corruzione morale la cui crisi diede vita una lunga
fase di transizione oggi apparentemente approdata al più radicale dei possibili
spostamenti a destra.