di
Franco Astengo
L’
8 maggio 1945 un emissario tedesco, il generale Jodl, firmava a Reims, presso
il quartier generale alleato, la resa della Germania. Il giorno successivo
analogo documento veniva firmato a Berlino, in presenza del maresciallo Zukov. Finiva
così la guerra in Europa: il clima era quello della speranza che chiudeva
un’immensa catastrofe. I responsabili della guerra venivano sommariamente
sentenziati, o imprigionati e avviati verso processi come quello di Norimberga.
Si scoprivano le atrocità compiute, specialmente dopo il 1942, nei campi di
concentramento nazisti.
Le
vie della Germania verso gli altri paesi d’Europa erano percorse da colonne di
profughi che tornavano alle loro dimore o, come i Tedeschi il cui territorio
era stato ceduto alla Polonia, cercavano una nuova patria; erano percorse anche
da reduci laceri, affamati, stremati, che con i più diversi mezzi di fortuna,
percorrendo strade che la guerra aveva distrutto, cercavano di ritornare nelle
loro case.
L’Europa,
quella parte d’Europa dove la guerra era stata combattuta, dove le frontiere
avevano segnato i momenti di battaglia, guardava alla pace misurando
l’immensità del compito della ricostruzione ma percorsa dall’emozione che la
parola pace portava con sé. Nessuna guerra aveva provocato nella storia
conseguenze più vaste e profonde della Seconda guerra mondiale. Esse non furono
subito tutte visibili e anzi furono necessari alcuni anni perché si
manifestassero appieno, tuttavia, in questo caso non è esagerato affermare che
nulla dopo il 1945 poteva tornare a essere quel che era stato nel 1939. Sebbene
questa sia soltanto la sede di una modestissima rievocazione storica è
necessario, in primo luogo, pensare ancora all’aspetto umano di quella situazione.
Gli
effetti materiali e morali della guerra furono enormi: il numero sconvolgente
delle vittime, la distruzione di centinaia di città, la devastazione di
fabbriche e campagne, la scoperta dei campi di sterminio.
Nessuno
avrebbe mai più cancellare dalla propria mente l’idea che l’uomo occidentale,
l’uomo che aveva saputo creare la società più raffinata, colta e opulenta della
storia fosse stato capace di scendere negli abissi del male, per trovarvi
argomenti che dessero una motivazione, se non una spiegazione ragionevole di
ciò che era stato compiuto.
Ancor
oggi è impossibile dire con certezza quante siano state le vittime della
guerra, al di là delle statistiche ufficiali.
Durante
la Seconda guerra mondiale si ebbero quasi 40 milioni di morti in combattimento,
più del doppio delle vittime della prima guerra.
Ha
ancora senso, oggi a 75 anni di distanza, soffermarsi nel trascrivere questi
dati? Il dubbio può essere legittimo ma per rispondervi è necessario sviluppare
due considerazioni:
1) Quando i rapporti tra le
nazioni producono una carneficina senza precedenti, ciò significa che le regole
di convivenza sono così stravolte da rendere inevitabile un trauma. Crebbe
allora in Europa una forza che divenne sempre più cieca poggiando sul senso
della paura rispetto a un futuro nel quale gli europei non sarebbero più stati
dominatori. Gli Europei si erano lasciati avviluppare dalla paura del comunismo
e da quella della loro decadenza dal potere mondiale e finirono con il subire
l’egemonia dell’unica potenza che non aveva ancora esaurito la sua capacità di
dominio;
2) La Seconda guerra
mondiale scavò trincee di odio così profonde da far pensare che nessuno sarebbe
mai stato capace di colmarle; essa lasciò dietro di sé l’eredità di una
esperienza così pesante e così penosa da imprimere nella mente dei
sopravvissuti il desiderio di non vedere più il ripetersi di conflitti così
vasti, che le armi nucleari avrebbero reso autodistruttivi.
Oggi
come allora, in un momento così pericolosamente tragico per le sorti dell’umanità
e di fronte al riaccendersi della possibilità di conflitti che potrebbero
determinarsi nuovamente a livello globale non possiamo che tornare al pensiero
dominante in quel 1945: nessuno allora poteva più pensare alla guerra come a un
momento di rigenerazione tra i popoli, o di irrobustimento della coscienza
civica e nazionale.
In
questo senso appare completamente sbagliata l’idea che un Paese possa ergersi a
“gendarme del mondo” e proporsi di esportare “la democrazia” sulla punta delle
baionette. Le conseguenze di ciò sono ancora sotto gli occhi di tutti. Il
ricordo dell’8 maggio 1945 deve ancora una volta coincidere con l’affermazione
di un preciso pensiero: la Guerra è il sinonimo del Male. Senza alcuna giustificazione.