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UNA NUOVA ODISSEA...
L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea

1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
martedì 30 settembre 2025
SAN SIRO: ABBIAMO PERSO
Un consenso
trasversale che unisce da almeno un trentennio, maggioranze e finte opposizioni
su un disegno comune: privatizzare quanto più è possibile; svendere ai privati
ciò che si avrebbe il dovere di gestire. E un po’ alla volta si è finiti come è
accaduto con la Sanità. Introiti favolosi per i privati, crisi, tagli, e
impoverimento per il pubblico e dunque dei cittadini. Se la mangeranno tutta la
città, di questo dobbiamo avere consapevolezza. Perché checché possano pensarne
i sostenitori del Pd, questa sigla non contiene nulla della sostanza di ciò che si ostinano
a immaginare e sostenere. Nella pratica è parte integrante degli interessi
antipopolari: negli affari come nella guerra.
SOCIALISMO: RITORNO ALL’UMANESIMO
di Franco Astengo
L’immane
tragedia di Gaza ci ha fatto un regalo restituendoci il concetto di umanità
come valore morale: quel concetto di valore morale che muove le persone sulle
piazze del mondo, d'Europa e d'Italia in una forte richiesta - prima di tutto -
proprio di "ritorno all'umanità". Dal valore morale discende però
direttamente la necessità di recuperare i fattori decisivi di una concezione
diversa della politica da quella oggi dominante intrisa di senso di dominio e
di sopraffazione. L'umanità quale fattore politico: questo può essere il punto
di svolta di questa asfittico sistema politico italiano ormai stretto nello
pseduo-valore di una governabilità fondata sui principi estremistici
dell'egoismo, dell'individualismo competitivo, di una destra definibile
semplicisticamente "di potere". La traduzione del concetto di umanità
in fatto politico è la grande sfida di questa modernità: ci sarebbe bisogno di un universalismo radicale fondato su
di una comune umanità come origine delle nostre norme e quindi in grado di
opporsi ai nazionalismi reazionari e ai riduzionismi identitari. Sovrasta la
domanda: cosa rimane dell'universalismo, al di là delle petizioni di principio
di chi ancora crede che l'Occidente abbia identità e valori sottintesi come
buoni da essere esportati al resto del mondo? Dell'universalismo ci è rimasto
il volto predatorio: l'Antropecene, che coincide piuttosto con il volto
violento ed aggressivo di un nuovo capitalismo alla ricerca forsennata di nuove
risorse da sfruttare.
Continua a rilevarsi un vuoto: quello della
rappresentanza politica di quei valori di solidarietà e di uguaglianza che
un tempo avremmo definito "socialismo". Socialismo che dovrebbe
coincidere con "pace": Sarebbe necessario che pace e politica si
trasformassero in una binomia inscindibile partendo proprio da un recupero da
una visione del futuro attraverso l'elaborazione di una necessaria Utopia da
considerare veicolo per rendere possibile un progetto. La coscienza della propria appartenenza e la
volontà politica di determinare il cambiamento rimangono fattori
insuperabili e necessari come motore di qualsivoglia iniziativa della
trasformazione dello stato presente delle cose. Attenzione però lo stato
presente delle cose va cambiato sia nel senso della condizione oggettiva della
nostra esistenza sia in quello dell'assunzione di una consapevolezza soggettiva
del vivere con gli altri. Da questa consapevolezza tra individuale e collettivo
"si realizza la vita d'insieme che è solo la forza sociale, si crea il
"blocco storico" (Gramsci Quaderno 11). Come auspicava
Luckas "la coscienza di classe trova il suo superamento
nell'universale riconoscimento della propria appartenenza al genere
umano". La coscienza della propria appartenenza deve così sfociare nella
coscienza di un'umanità che richiede uguali diritti per tutte e per tutti.
La volontà politica del "soggetto" va allora impegnata nella ricerca
di un socialismo possibile nella forma di un nuovo umanesimo rimanendo fedeli
ad un'etica della trasformazione in quanto opposizione allo sfruttamento
dell'uomo sull'uomo, dell'uomo sulla donna.
La politica non
riesce a fare quella che dovrebbe essere la propria parte: elaborare strategie
adatte ad evitare l'imbarbarimento generale. Ed è su questo punto che la
politica dovrebbe essere richiamata da un'idea di ritorno all'umanità e rimane
il bisogno di umanesimo socialista.
VE LO DICO IN VERSI
di
Marcello Capisani
Oltre
l’infamia
Per chi vive un disperato istante
non c’è altro valore che il presente!
Ma risulta ancor più ripugnante
di quanti han creato quel frangente
quello che ostacola i soccorsi,
che invita a tornare od a fermarsi
quelli che prontamente son accorsi,
per via di migliori altri percorsi;
perché la Flottiglia è di quei fessi
capaci pur di scatenar l’inferno
e persino di perdere se stessi
purché si parli male del Governo.
Quelli che chiamano democrazia
- dico tutta la stampa prezzolata -
la gente più spietata che ci sia
parla di losca impresa dissennata.
Pur se le acque son palestinesi,
gl’ israeliani ne chiudono le porte
e se si vuol davvero uscirne illesi
si rispetti la legge del più forte.
Ma che sbarchino viveri su Cipro,
da dove poi, molto probabilmente,
dei cristiani, con un salto triplo,
le faran arrivare in continente.
E, nel dir con queste altre minchiate,
tutti i nostri Fratelli anti-italiani
le dita le mantengono incrociate
per scaramanzia contro gli umani.
lunedì 29 settembre 2025
È L’UCRAINA CHE
PREPARA MENZOGNE?
di Larry C. Johnson
La domanda è
molto semplice: chi ha interesse ad allargare la guerra, l’Ucraina che perde, o
la Russia che vince? Seconda domanda: chi, se non dei superidioti, può
sostenere un giorno (Kallas) che la Russia può essere sconfitta in Ucraina, che
la Russia è una tigre di carta, che non ha neppure vinto la Seconda guerra
mondiale, e il giorno dopo (von der Leyen) che la Russia si appresta ad
invadere l’Europa, come se a Mosca ci fosse un superidiota pari a quelli dell’UE?
Ho ricevuto quanto segue da uno dei miei fedeli lettori. Giudicate voi
stessi. [Franco Continolo]
*
Oggi diversi media ungheresi hanno riferito dei piani di Zelensky di
effettuare sabotaggi in Romania e Polonia per incolpare la Russia. Pertanto,
riguardo a Bankova, stanno preparando il loro “incidente di Gleiwitz”, per
creare un casus belli per una guerra tra Russia e NATO. Secondo le informazioni
disponibili, il piano del regime di Kiev è il seguente:
Riparare diversi droni
russi abbattuti o intercettati.
Dotarli di una testata
da combattimento.
Inviare droni
controllati da specialisti ucraini - camuffati da “droni russi” - ai principali
hub di trasporto della NATO in Polonia e Romania.
Condurre
contemporaneamente una campagna di disinformazione in Europa per attribuire la
colpa di tutto a Mosca.
Innescare un conflitto
armato tra la Federazione Russa e la NATO.
Per realizzare questa
provocazione, il 16 settembre i droni russi “Geran” erano già stati portati al
campo di addestramento di Yavoriv, nell’Ucraina occidentale, dove si trova il Centro
Internazionale per il Mantenimento della Pace e la Sicurezza dell’Accademia
Nazionale Hetman Petro Sahaidachny. In precedenza erano stati riparati a
Leopoli, presso lo stabilimento LORTA.
Come scrivono i
giornalisti ungheresi, la ragione di queste azioni di Zelensky è semplice: l’AFU
sta subendo una sconfitta schiacciante. Il collassodell’esercito non è più a
livello tattico; sta assumendo un carattere strategico. Se tutto ciò fosse
confermato, allora dovremmo ammettere che... mai nei tempi moderni l’Europa è
stata così vicina allo scoppio della Terza Guerra Mondiale.
Spero che il post di
Donald Trump su Truth Social, in cui scarica la guerra in Ucraina sulle spalle
dell’Europa, faccia esitare Romania e Polonia dall’acconsentire a questo piano,
perché non c’è alcuna garanzia che gli Stati Uniti interverranno in loro aiuto.
Tuttavia, persone disperate si trovano di fronte a situazioni disperate.
(Traduzione di Google)
TOC TOC: C’È QUALCUNO CHE VIGILA?
di Associazione di
volontariato Idra
Sul
pericolo-Mugnone a Firenze i cittadini bussano alla porta dell’Autorità di
bacino.
Toc
toc! C’è qualcuno là dentro? C’è qualcuno che legge le carte degli scavi TAV a
ridosso del capriccioso torrente Mugnone? C’è qualcuno che ha visto il pelo
della piena lambire già due volte quest’anno il piano d’appoggio delle Frecce rosse che attraversano
Firenze? C’è qualcuno che ha messo in conto il rischio-Mugnone alle Cure, al
Romito, a Novoli? C’è qualcuno che sente di doversi allarmare per quella fossa grande
e profonda che si prepara per la scintillante stazione Foster proprio addosso
al torrente?
Sì, almeno a quest’ultima domanda una risposta
esplicita c’è: è quella del più alto esponente dell’Autorità di bacino distrettuale
dell’Appennino Settentrionale, il segretario Gaia Checcucci. Alla vigilia dell’ultimo
anniversario dell’alluvione del ’66, l’ha messa nero su bianco fra virgolette il quotidiano Il Tirreno, intervistandola: «Attenzione,
la cassa d’espansione del Mugnone mi diventa la stazione Foster e su queste
grandi opere ci piacerebbe ci fosse la sensibilità di chiedere un parere
all'autorità competente».
Una prova in più, dunque, della fondatezza delle
preoccupazioni che gli scavi TAV fanno ragionevolmente scattare negli abitanti
e nei visitatori che la città di Firenze la amano, la conoscono, la studiano.
Un caso esemplare di cittadini e istituzione che appaiono dover essere
oggettivamente alleati. E invece…
È da quel novembre 2024 che un’associazione parte
civile e testimone dei danni ambientali e sociali che la TAV ha regalato al
Mugello chiede un incontro con la dott.ssa Checcucci. Sono parecchi, gravi e
urgenti infatti i temi da discutere, sui quali Idra confida in un’iniziativa tempestiva
e rigorosa da parte dell’Autorità: appaiono da indagare i presupposti tecnici e
giuridici che hanno permesso di aggirare le procedure di valutazione, i
contenuti degli studi idraulici effettuati, l’affidabilità dei dati sui quali
si modellano gli interventi di adeguamento, la stessa omessa «sensibilità di chiedere un parere
all'autorità competente» che la dott.ssa Checcucci lamenta.
Ma, a dispetto dei reiterati solleciti anche per
posta certificata, la delegazione tecnica apprestata dall’associazione per il
colloquio è ancora qui che aspetta un invito formale al colloquio auspicato. Da
dieci mesi, ormai. Avranno la stessa pazienza Giove Pluvio e il Mugnone, coi chiari di luna meteorici che
abbiamo imparato a conoscere?
Da osservare che tutte le altre autorità pubbliche
investite a vario titolo di responsabilità in rapporto alle conseguenze potenziali
e attuali delle tante anomalie riscontrate nella progettazione,
nell’autorizzazione e nell’esecuzione degli scavi TAV continuano a ostentare indifferenza
a fronte delle segnalazioni fattuali trasmesse dai cittadini: dal sindaco al presidente della Regione, dalle commissioni consiliari ai Ministeri all’ ANAC. Il solo presidente di uno dei Quartieri coinvolti, il 5, Filippo Ferraro, ha mostrato curiosità e interesse: se ne attendono con fiducia gli
esiti. Sulla clamorosa assenza, nel progetto esecutivo del sotto attraversamento
TAV della città, del piano di emergenza imposto dal Decreto sicurezza gallerie
ferroviarie si registra - oltre l’insistita indisponibilità ad accordare un
colloquio - il silenzio persino del prefetto di Firenze, ancorché informato per
Pec direttamente dal Comando provinciale dei Vigili del Fuoco. Dov’è finita tutta la ‘cultura green’ che
si vanta nei Palazzi, sui media e nel dibattito pubblico?
Ecco perché lunedì 28 settembre, fra le 10 e le 13, nell’ambito
del ‘dialogo in strada’ sulla deriva bellicista che affligge in questa cupa stagione il mondo della
comunicazione e dell’economia (si veda anche l’alleanza strategica Militari Mobility fra Rfi e la società ‘Leonardo’), un rappresentante di Idra ha documentato
con cartelli e volantini lungo via de’ Servi, dove ha sede l’Autorità di bacino,
la strana vicenda del costosissimo super scavo autorizzato senza valutazione di impatto ambientale in un’area classificata a pericolosità idraulica alta, lungo un corso d’acqua già esondato nel 1992 e che per due volte (il 28 gennaio e il 14 marzo) ha minacciato di saltare gli argini nei soli ultimi nove mesi! Uno
di quei casi a cui i giornali e le telecamere riserveranno magari fiumi di cronache
solo a disastro avvenuto, invocando fuori tempo massimo - in coro con autorità,
partiti e sindacati - il valore imprescindibile della prevenzione! Saranno ‘distratti’
ancora una volta?
RISCOPRIRCI
INSIEME A TUTTI GLI ALTRI
di Chiara Landonio

Perugia per Gaza
Dobbiamo
fare un passo in più, un passo che ormai sento necessario: cominciare a pensare
che il genocidio in corso a Gaza non è causato solo dal sionismo, dallo stato
di Israele o dal governo Netanyahu. Queste affermazioni ci inducono di nuovo a
dividere il mondo in buoni e cattivi: sono gli altri che stanno compiendo
queste efferatezze, complici anche i nostri governi, ma noi siamo la parte
buona, la parte che denuncia il genocidio. Ricordiamo la frase di Merz di pochi
mesi fa? “Lo stato d’Israele sta facendo il lavoro sporco per l’Occidente”:
frase terribile, ma sulla quale dobbiamo fare una riflessione profonda. Il
genocidio, la rapina, la sottomissione di altri popoli sono connaturati alla
politica dell’Occidente che per lungo tempo è riuscita a far credere ai propri
cittadini che gli altri fossero il male, che fossero barbari, che avessero
norme abiette, che disprezzassero i diritti umani, che avessero a capo tiranni
e che il nostro mondo avesse il diritto di portare loro libertà e valori
inalienabili. La realtà è che i nostri privilegi, a partire dal nostro
passaporto, dalla possibilità di movimento, dalle libertà individuali, dal
nostro benessere, si basano tutte sulla rapina, sulla sottomissione,
sull’azzeramento della cultura di altri popoli. Lo voglio ripetere: i nostri
privilegi derivano dall’oppressione dell’altro. Ma che cos’è questo Occidente?
Siamo proprio noi, si identifica completamente con la nostra cultura o in
qualche modo è un qualcosa che nel suo sviluppo ha mangiato anche noi, senza
che ce ne rendessimo conto? Perché l’Occidente più che essere una cultura è un
sistema basato su un capitalismo predatorio, che ha bisogno di espansione
continua e che impone una crescita infinita e per fare ciò ha bisogno di
bruciare, di distruggere, di annientare tutto ciò che rappresenta una qualche
forma di resistenza alla sua espansione. Alla fine della Seconda guerra
mondiale tanti intellettuali italiani, come Carlo Levi, Nuto Revelli, Ignazio Silone
e altri cominciarono a raccontare il tramonto del mondo contadino, quello che
Pasolini chiamava un genocidio culturale a favore di un mondo dei consumi in
cui anche noi fummo rapinati del nostro passato e che ci ha fatti diversi,
colonizzati e dimentichi di ciò, attori della nuova colonizzazione. Ne Il mondo
dei vinti, scriveva Nuto Revelli:
“Quando dall’alto della
Pedaggera e dei Tre Cunei cerco la vita nelle ampie conche, riconosco più case
grigie, spente, morte, che case fresche di calce, vive, giovani; riconosco i
noccioleti che parlano di stanchezza, di abbandono, e i fazzoletti di vigna
come bandiere stinte, eroiche, e i dirupi del Belbo che rivogliono il bosco.
Non mi lascio tradire dall’edilizia residenziale, dalle ville di zucchero,
estranee, ostili come i castelli e le torri che dominavano la miseria antica.
Non mi lascio tradire dalla seconda, dalla terza casa degli ‘altri’. L’Alta
Langa, come tutta la campagna povera ormai è un cronicario immenso, è il
dormitorio di centinaia di pendolari, è il rifugio degli scarti, degli
invalidi, degli emarginati dalla società del benessere”.
![]() |
Perugia per Gaza |

Perugia per Gaza
La Fiat arriva nelle
campagne e promette ai contadini la liberazione: il trattore e i contadini
firmano cambiali che non riescono a pagare. Saranno i figli che andranno a
lavorare in Fiat per ripagare i debiti dei padri. E poi arriva la Michelin che
arruola nelle fabbriche migliaia di contadini e la campagna stessa diventa
terra predata dalle multinazionali che comprano terreni, che si impossessano
delle acque, delle sorgenti, che depredano il suolo e il sottosuolo mentre gli
uomini si rifugiano nelle città che offrono sicurezza e confort.
Così fiduciosi abbiamo
vissuto dal boom economico in poi, come se fossimo al riparo, abbiamo vissuto
per un po’ nella parte del mondo agiata, ma il mondo oggi si fa piccolo e non
c’è più luogo dove allargarsi. E i potenti, che sono uno sparuto numero di
persone che si nasconde dietro a multinazionali e lobby, non ha alcuna pietà
per noi come per il resto del mondo. Concludo con ciò che diceva Carlo Levi in Paura
della libertà: “L’individuo conchiuso tende a staccarsi e a vivere
autonomo: il contatto con gli altri è possibile soltanto attraverso quello che
a tutti è comune, attraverso l’indifferenziato, che col suo permanere fa
comprensibili tutte le differenziazioni”. Riscoprirci nelle piazze come vinti,
come diseredati, insieme a tutti gli altri in ogni luogo sarà forse l’inizio di
un vero cambiamento.

ALLA GALLERIA TULPENMANIE
Lunedì 6 ottobre
2025 alle ore 18.30 l’Accademia dei Conigli ospita presso la Galleria
Tulpenmanie (Villa Lavezzari, via Mauro Macchi 6, 20124 Milano) la conferenza in
lingua inglese Houses
in forests clearings di
Luis Callejas e successivo
dialogo con Elisa Cristiana Cattaneo,
con presentazione del libro dall’omonimo titolo, curato da Luis Callejas e
Jørgen Tandberg, pubblicato nel 2024 per i tipi di ACTAR Publishers,
Barcellona-New York City. Introduce i lavori Lorenzo Degli Esposti.
Il punto di partenza del libro
è una selezione di settanta fotografie di Luis Callejas. Queste immagini
ritraggono tre case e giardini progettati dallo studio LCLA office in due radure nelle foreste delle montagne delle Ande.
Il libro include anche disegni e tre dialoghi paralleli tra Luis Callejas e
Matteo Ghidoni, Elisa Cattaneo e Jørgen Tandberg.
Le fotografie sono state
scattate durante tre viaggi tra la Norvegia e la Colombia. Molte sono state
effettuate con il medesimo obiettivo da 35 mm, evitando prese grandangolari e
ricomprendendo ogni piccolo spazio in un singolo scatto.
I successivi dialoghi sono stati ispirati non da
un’esperienza diretta, bensì dalla condivisione delle fotografie con gli autori
coinvolti. Le immagini e i dialoghi affrontano le analogie tra la costruzione
di una casa, la modifica della radura e la leggibilità della loro reciproca
dipendenza.
Luis Callejas, architetto colombiano, è
fondatore dello studio di architettura e paesaggio LCLA Office, con sede a Oslo, che dirige insieme all’architetto
svedese Charlotte Hansson. È professore presso la Oslo School of Architecture e
visiting professor alla Graduate
School of Design dell’Università di Harvard, e nel 2020 ha insegnato alla Yale
University come Louis Kahn Visiting Professor. Tra i suoi progetti realizzati
figurano il centro acquatico per i Giochi sudamericani del 2010 e il
rinnovamento dello stadio nazionale della Colombia. Tra le opere più recenti si
annovera il progetto paesaggistico per il restauro della ex ambasciata
statunitense di Oslo, progettata da Eero Saarinen.
Elisa C. Cattaneo, architetto Phd, è progettista
del paesaggio e teorica, visiting scholar
al MIT Massachusetts Institute of Technology e alla Graduate School of Design
di Harvard. Inquadra il paesaggio come disciplina esplorativa del
contemporaneo. Tra le sue pubblicazioni: Loaded Void (2013-15), Nature
through the Mirror (2014); WeakCity
(2015), Soundscapes (2016), Landscape in Art and Science (2016); Andrea Branzi. Il progetto nell'era della relatività (2018), Prato
Factories Nature (2019). È professore di alta qualificazione in Teoria della Progettazione Architettonica
Contemporanea al Politecnico di Milano. Tra le opere più recenti, i
progetti paesaggistici per Cesena Sport City (2021-2025) e per il nuovo liceo artistico
metropolitano Gastel a Milano (2022-2025).
info@tulpenmanie.net
domenica 28 settembre 2025
“POETI” CONTRO L’INDIFFERENZA
di
Angelo Gaccione

Desmond Tutu
Avrei potuto scegliere fra tanti nomi
diversi per vergare questo scritto, ma poi mi sono detto: “La denuncia del
potere coloniale, delle dittature, del totalitarismo, la fanno, in maniera
efficace e drammatica, coloro che in quelle condizioni disumane sono costretti
a vivere; gli uomini e le donne che sono costretti a sopportare angherie,
carceri, assassinii; a pagare con la vita, a subire sui propri corpi le torture
e le umiliazioni a cui vengono sottoposti, e tuttavia non si arrendono”. Questi
uomini e queste donne non sono necessariamente poeti o intellettuali, sono
persone comuni; non hanno scritto e non scrivono poesie, ma le portano incise
sui lori corpi e nei loro cuori per consegnarle agli altri, alle future
generazioni come urli e messaggi di libertà e di giustizia perché ne facciano
tesoro, perché tengano viva la fiaccola della memoria, perché non si disperda.
Costoro hanno utilizzato, e utilizzano, parole e carne. E che parole toccanti
possono essere le loro, e che corpi gloriosi possono mettere sulla bilancia
dell’ingiustizia, sull’infamia della storia! Potevo scegliere fra molti, ma poi
mi sono affiorate alla mente in maniera prepotente le frasi di un uomo
speciale, di un vescovo, che tanto ha operato, agito, pronunciate parole,
parole pesanti come macigni, belle come i versi dei poeti.
![]() |
Desmond Tutu |
Consideriamole, allora, alcune di queste frasi, di queste
parole: “Se siete neutrali in situazioni di
ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore”. Non sono poetiche e
meravigliose queste parole in un mondo feroce e disumano come quello in cui ci
troviamo a vivere? Non è vera poesia questa, davanti ai corpicini mutilati dei
bimbi di Gaza e Palestina, bombardati senza pietà e senza colpa dall’esercito
di un Paese che si ritiene una democrazia? Davanti ai corpi scheletriti ed
affamati dei bimbi palestinesi che grattano i residui di cibo da un misero
tegame, che lo grattano con le unghie dalla terrà dove qualche brandello si è
rovesciato, in mezzo ad una calca di morte fra urli e pianti e dolori e mamme
disperate perché si nega il cibo per sfamarle quelle loro creature… perché si
vuole arrivare alla “soluzione finale” come quella che, in un’altra
tragica temperie storica, l’oppressore di oggi aveva subìto? No, non possiamo
essere neutrali davanti a tanto orrore, non ci è concesso.
La frase che ho citato in corsivo è di Desmond Mpilo Tutu, arcivescovo anglicano di pelle nera di Città del Capo, in Sudafrica. È stato primate della Chiesa anglicana dell’Africa meridionale, e per le sue battaglie contro l’oppressione, la dittatura e il regime dell’apartheid, si meritò il premio Nobel per la pace nel 1984. Che cosa ci vogliono dire le poetiche parole di Desmond Tutu? Qual è il loro significato? Non c’è alcun senso nascosto in queste parole, nulla che non possiamo immediatamente comprendere e fare nostre. La neutralità, o peggio, l’indifferenza, davanti all’orrore della storia, al disumano, all’umiliazione degli uomini, equivale a sostenere gli artefici dell’ingiustizia e dell’orrore; a schierarsi con i carnefici contro le vittime, a lasciarli prosperare, a continuare ad opprimere. Non prendere posizione, non parteggiare con chi subisce le discriminazioni e le oppressioni da parte delle dittature; tollerare la cancellazione delle libertà civili e politiche ad opera di regimi autoritari e persecutori; tacere sulle disuguaglianze delle false democrazie, sullo schiavismo economico, sui conflitti rovinosi e distruttivi messe in essere dai Governi e dagli Stati guerrafondai; tutto questo fa di ciascun uomo un complice. Ne fa un essere indegno che ha deciso di bendarsi gli occhi per non vedere; otturarsi gli orecchi per non sentire; diventare muto per non parlare. Lasciar fare ai potenti e agli aguzzini come se tutto ciò che accade nel suo tempo non lo riguardasse.
Se restiamo indifferenti davanti al disumano, siamo già morti come esseri umani; abbiamo perduto definitivamente l’essenza che ci rende tali. Tutu ci ammonisce a non abituarci all’orrore, ad agire per arginarlo: con la parola, con lo scritto, con la presenza dei nostri corpi nell’agorà pubblica; per mostrarlo il nostro corpo, per farlo vedere, per far sentire che vibra di indignazione contro gli aguzzini e di compassione per gli oppressi e i perseguitati. “Non abbiamo bisogno di armi per cambiare il mondo. Abbiamo bisogno di amore e compassione”. È ancora Desmond Tutu che parla: non sono poetiche anche queste parole? In esse emerge la grande importanza dell’empatia e della solidarietà: due princìpi e pratiche morali di straordinaria umanità e poesia. Le armi uccidono e distruggono, i sentimenti affratellano, consolano e soccorrono. Provocano un cambiamento positivo all’interno dei rapporti umani e del vivere sociale; migliorano i costumi, rendono retto l’agire.
E che dire di questo assioma di Martin
Luther King che di versi ne vale mille? “La pace non è semplicemente
l’assenza di conflitto, ma la presenza della giustizia”. Era un sentire
comune di Gandhi, di King, di Tutu, di Mandela: quattro giganti della pace, quattro
“poeti” della parola. Siamo davanti ad un pensiero denso e di straordinaria
saggezza che i decisori che reggono le sorti del mondo dovrebbero meditare a
fondo. Rimuovere le cause dell’ingiustizia è il solo modo per garantire una
pace duratura fra tutte le nazioni. Se bandire le armi che provocano lutti e
dolori, morte e rovine è una necessità; sciogliere i nodi che generano i
conflitti è un obbligo. C’è un unico modo possibile per assicurare la sicurezza
e la prosperità collettiva: cooperando, condividendo. È su questo insegnamento
ideale della convivenza pacifica ed armonica che si sono mossi questi quattro coraggiosi
difensori dei diritti umani. King seguirà l’insegnamento di Gandhi come Nelson
Mandela, proseguirà il cammino tracciato dal vescovo Tutu. Un cammino
accidentato ma infine vincente, per quel Sudafrica arcobaleno, per quella
Rainbow Nation, fatta di etnie diverse e collaborative che avevano sognato.
POETI
L’inutilità della guerra e
l’eternità dell’esistenza nel verso Sonetto n. 55 di W. Shakespeare. (Traduzione
di Anna Rutigliano)
Non il marmo, né i monumenti dorati
Non il marmo, né i monumenti dorati dei principi
sopravvivranno a queste potenti rime,
ma tu brillerai più luminoso in questi versi
che in pietra impolverata ed imbrattata dal tempo
trasandato.
Quando l’inutile guerra travolgerà le statue
ed i conflitti sradicheranno le opere in muratura,
né Marte con la sua spada, né il fuoco divampante
della guerra
bruceranno il ricordo vivo della tua memoria.
Contro la morte e tutte le indifferenti ostilità,
tu continuerai a vivere: la tua lode troverà
sempre spazio
persino negli occhi dei posteri
che logoreranno questo mondo ad una rovina senza
fine.
Così, fino al giorno del giudizio in cui
risorgerai,
tu vivrai in questi versi e abiterai negli occhi
di chi ama.
SCAFFALI
di Maurizio Minchella
Malditerra
«Siete
nati in esilio, una generazione inutile, senza futuro. Arrivati troppo tardi
per costruire dopo la guerra e troppo presto per abbattere un mondo in declino. Con i vecchi che non
vogliono più saperne d’esser vecchi…». È uno dei tanti flash che illuminano Malditerra
(Arca Edizioni, 2025, pagine 368 € 19) - un titolo perfetto, sottolinea Pino
Cacucci nella sua intensa prefazione - opera prima di Roberto Longoni, giovane giornalista
di cronaca, attento alle storie prima ancora che ai titoli. Al centro di questa
epigrafe si erge una serie di ritratti della meglio gioventù borghese degli
anni Ottanta, l’ultima a godere del benessere, elargito a piene mani dai
vincitori per poi riprenderselo con gli interessi qualche decennio dopo, per
chiudere la parabola di una guerra raccontata male e di un dopoguerra perso in
modo ancor peggiore. Longoni, in un romanzo ricco di poesia, tratteggia i loro
lineamenti sullo sfondo del golfo di Chiavari, trasformata da porto in città
proprio in quegli anni. In rada il Sueño ospita l’andirivieni dei giovani
consumatori di emozioni fugaci, annusatori della vita nelle sue espressioni più
seduttive perché quelle che richiedono tensione e volontà non le hanno cercate
in nessun mercato, legale o illecito che fosse. Eppure, un’anima questi ragazzi
ce l’hanno, ma irrequieta e fuggente. Gli istinti peggiori si alimentavano
dalla mancanza di senso e di radici, e così un gesto d’amore puro riusciva ad
esprimersi pienamente e senza inibizioni solo nell’ultimo eccesso, durante il
quale poteva andare in scena il sacrificio di sé. A beneficiarne è Quello
della barca, un navigatore solitario giunto nel Golfo da chissà dove, sulle
note dello Stabat Mater, zittito dal rock assordante lanciato dallo
stereo del Sueño. Un ragazzo fuori dal tempo. La partitura della sua
musica interiore era però scritta in un diario dei Vivaldi, navigatori genovesi
che si persero sulle coste africane nel XIII secolo. Quello della Barca
andrà a cercare la loro ultime tracce, non prima di aver attraversato in modo indelebile
le vite dei suoi coetanei del Golfo, ormai così estranei al mare, pur vivendoci
dentro. La terra e l’acqua sono elementi che collidono, e solo i veri marinai
li sanno tenere insieme, sia pure per il tempo di qualche racconto e di qualche
bevuta. Quello della barca riprende il largo, accompagnato dal sorriso divino
che sembra avvolgere tutti i protagonisti, a consolazione di una sconfitta già
sentenziata, ma non da loro. Proseguirà il suo viaggio, ben sapendo che nulla è
perduto quando si ha il coraggio di partire vincendo la tentazione di voltarsi
indietro.
CINEMA
di Marco Sbrana
Nel sogno dentro il sogno,
una storia di crescita. Alpha di Julia Ducournau. L’ultima volta che
Julia Ducournau ha presentato un film Cannes: Titane, le è stata
assegnata la Palma d’Oro. Torna quest’anno con un film che, a suo dire, serbava
da prima del trionfo.
Sabbia.
Vento. Vento rosso. E sembra marmo la superficie crepata su cui scorrono i
titoli di testa ma, quando la macchina da presa affonda, e affonda e affonda,
l’immagine prima è il buco su di un braccio. E il braccio, il braccio di un
eroinomane, è di buchi percorso. La mano di una bambina disegna segmenti che
uniscono i buchi: “Così è più bello,” dice la bambina. Si chiama Alpha, è la
protagonista, adesso ha cinque anni. E quando lo zio - Amin, si chiama - apre
la mano che rivela una coccinella, è di una bimba il meravigliarsi. Lo stacco è
netto. Siamo a una festa. Adolescenti. Droga e alcol. Ma quel che è peggio è un
ago sporco che segna una A sul braccio di Alpha, ora tredicenne. Questo
l’inizio di un film che non coccolerà mai lo spettatore. Lo assedierà di
domande. Ducournau crea un muro; sta a noi abbatterlo. Tale il rapporto tra
autrice e ricettore. Reciprocità: sicché fin dal desiderio della regista di non
spiegare mai (così come faceva Bunuel) si crea un cinema necessario, che è il
cinema politico, politico perché relazionale, politico perché interroga e non
fornisce risposta. Ma dà, Alpha dà tantissimo a chi accetta il patto.
Per capire quale sia il
patto, bisogna definire un minimo di trama.
Gira un virus - allegoria
dell’AIDS - che si trasmette come l’AIDS e che come l’AIDS crea terrore. L’ago
del tatuaggio era sporco. Il film racconta la storia di emarginata di Alpha, a
scuola ostracizzata, e dell’altrettanto emarginato Amin, zio di Alpha. Non si
creda di poter interpretare il film dopo una sola visione. Ma, alla seconda, si
ricavano indizi.
Alpha, terrorizzata, ascolta
la madre parlare con qualcuno che non vediamo e dirgli che non ce la fa
più: prima con lui, ora con la figlia. La madre - medico - è stanca, dice, di
lottare.
Così viene convocato Amin,
eroinomane invalidato dai tremori di una indotta astinenza per ripulirsi il
sangue.
Alpha è sovrabbondante di linee narrative. Questo
l’unico difetto. Titane era una linea retta; Alpha è un film
rizomatico. Barocco, forse. Sembra di sentire Ducournau e il suo desiderio (il
film ha molto di autobiografico) di essere totalizzante, di voler creare una
specie di romanzo-mondo à la Pynchon ma che si concentri sul conetto di trauma.
Amin, capiremo, non ha mai
raggiunto Alpha. È morto: il virus che trasforma la pelle dei malati in marmo
l’ha ucciso otto anni prima che Alpha tornasse a casa col tatuaggio. La morte
di Amin, smagrito, emaciato, tremante, ironico e sordido, viene mostrata e
risemantizza il testo prima delle ultime sequenze. Se Amin è morto, chi abbiamo
visto nella linea narrativa presente, quella del tatuaggio?
Non è domanda che sia
pertinente.
Ché il trauma ha una logica
indipendente, ché il trauma vive nella circolarità, nella reiterazione. Non si
deve pretendere, dice Ducournau, che il trauma combaci con le regole della
mente sana; i film che sovrappongono - sciatti - il trauma alle regole del
mondo sono disonesti. Pur di non disorientare, molti registi inscrivono il
trauma nella sfera della comprensibilità. Non Ducournau, che attraverso la
figura di Amin rende carne, incisione, ferita, ballo il trauma, il quale trauma
non perviene all’intelletto bensì arriva dove dovrebbe arrivare in ogni suo
racconto: allo stomaco. Ma il fatto che, nella scena con Beethoven (il pranzo
di famiglia), nessuno a parte la madre paia notare Amin può, alla seconda
visione, aggiungere qualcosa. Ma questo qualcosa non è necessario. Tutto il
necessario colpisce alla prima visione. È accessoria l’intellettualizzazione di
quanto vediamo nel film.

Julia Ducournau
Ducournau - come in Titane
- tratta la musica come personaggio agente, parlante. The Mercy Seat di
Nick Cave (splendida versione al piano) accompagna il ballo spasmodico (così
Breton: “La bellezza sarà convulsa o non sarà”) di Amin e Alpha, tra i malati
di marmo, tra le luci intermittenti di una discoteca di periferia. Scena
gemella del ballo su She’s Not There in Titane. Lunga canzone,
lunga sequenza. La macchina a mano che non si stacca dai volti, ma li segue e
ce li sbatte davanti, perché siamo davanti alla delicatezza del macellaio, non
a quella dell’architetto, siamo la carne, siamo il marcio che ci scorre nelle
vene, siamo fluido corporeo. E scorriamo. Vediamo lo scorrere delle cose come
in Fellini, l’impermanenza, vediamo Eraclito. Ma non è un fiume cristallino;
qui c’è sangue (come la superba scena in piscina), qui c’è mucillagine, i pesci
affogano.
Così, tra un tentativo (Alpha
tredicenne) di capire se sia o meno malata, tra una scena e l’altra (Alpha a
cinque anni) di Amin che muore di eroina e del virus il cui rimedio ha trovato
proprio nell’overdose, il fluire della vita e di un film che oscilla, appunto,
tra l’ineluttabile proseguire, incessante andare del tempo, e la fissità del
trauma.
Il professore di Alpha recita
una poesia: un sogno dentro un sogno, dice l’uomo in riva al mare, in pena per
una “spietata onda” che ha mietuto (dice il professore) “almeno una vittima”.
