UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 30 settembre 2025

SAN SIRO: ABBIAMO PERSO
di Angelo Gaccione
 

È
andata come si poteva immaginare. Del resto è da lunga data che l’opinione della città e dei cittadini non conta nulla. Se si avesse l’onestà di dire che il diritto di voto è diventato un voto senza diritti; che la stragrande maggioranza dei candidati che eleggiamo per fare gli interessi pubblici finisce per diventare nemica di chi l’ha eletta, le cose sarebbero più chiare. E magari troveremmo altri metodi e altre pratiche. Ed è da lunga data che i privati fanno del bene pubblico merce ghiotta per i loro arricchimenti ed i loro piani perché i decisori, molti nemmeno eletti, ma cooptati come “esperti”, riciclati nelle istituzioni come contrappesi dei rapporti di forza e di potere delle cricche che si formano nei vari partiti, non debbono tener conto della volontà di chicchessia, e diventano i loro più preziosi alleati. Basta il consenso di un pugno di consiglieri, di un sindaco compiacente, di qualche assessore ben disposto, e il sacco della città si può compiere legalmente, un bene pubblico alienare, arricchire un fondo di speculatori, deprivare di quella ricchezza e di quel bene la collettività tutta. Di tutela degli interessi pubblici nemmeno a parlarne, ed è raro che possa rientrare nel loro orizzonte di amministratori. Però il linguaggio corrente si ostina a definirli amministratori pubblici. Quasi tutti con le classi popolari costoro non hanno nulla a che vedere, né come provenienza sociale, né come soggetti militanti delle lotte. Sono o dei perfetti sconosciuti cooptati come funzionari, o dei manager (“neutri” li definiscono, ma poi fanno apertamente gli interessi dei poteri economici forti delle città). 



Che su San Siro non si sia voluto tener conto di nessuno dei tanti punti messi in fila dai Comitati contrari alla svendita; di nessuna obiezione, di nessun rilievo, da parte di una Amministrazione che si è blindata nella sua cittadella e che è composta da un pugno di uomini e donne – una inezia rispetto ad una città intera e ad un sentimento di contrarietà che proveniva anche dal resto d’Italia e persino dall’estero – è parso evidente fin da subito, ed ieri noi che eravamo in piazza della Scala e abbiamo seguito il dibattito da Palazzo Marino in diretta, ne abbiamo avuto la prova. 

Un consenso trasversale che unisce da almeno un trentennio, maggioranze e finte opposizioni su un disegno comune: privatizzare quanto più è possibile; svendere ai privati ciò che si avrebbe il dovere di gestire. E un po’ alla volta si è finiti come è accaduto con la Sanità. Introiti favolosi per i privati, crisi, tagli, e impoverimento per il pubblico e dunque dei cittadini. Se la mangeranno tutta la città, di questo dobbiamo avere consapevolezza. Perché checché possano pensarne i sostenitori del Pd, questa sigla non contiene nulla della sostanza di ciò che si ostinano a immaginare e sostenere. Nella pratica è parte integrante degli interessi antipopolari: negli affari come nella guerra.       

SOCIALISMO: RITORNO ALL’UMANESIMO
di Franco Astengo


 
L’immane tragedia di Gaza ci ha fatto un regalo restituendoci il concetto di umanità come valore morale: quel concetto di valore morale che muove le persone sulle piazze del mondo, d'Europa e d'Italia in una forte richiesta - prima di tutto - proprio di "ritorno all'umanità". Dal valore morale discende però direttamente la necessità di recuperare i fattori decisivi di una concezione diversa della politica da quella oggi dominante intrisa di senso di dominio e di sopraffazione. L'umanità quale fattore politico: questo può essere il punto di svolta di questa asfittico sistema politico italiano ormai stretto nello pseduo-valore di una governabilità fondata sui principi estremistici dell'egoismo, dell'individualismo competitivo, di una destra definibile semplicisticamente "di potere". La traduzione del concetto di umanità in fatto politico è la grande sfida di questa modernità: ci sarebbe bisogno di un universalismo radicale fondato su di una comune umanità come origine delle nostre norme e quindi in grado di opporsi ai nazionalismi reazionari e ai riduzionismi identitari. Sovrasta la domanda: cosa rimane dell'universalismo, al di là delle petizioni di principio di chi ancora crede che l'Occidente abbia identità e valori sottintesi come buoni da essere esportati al resto del mondo? Dell'universalismo ci è rimasto il volto predatorio: l'Antropecene, che coincide piuttosto con il volto violento ed aggressivo di un nuovo capitalismo alla ricerca forsennata di nuove risorse da sfruttare.
 Continua a rilevarsi un vuoto: quello della rappresentanza politica di quei valori di solidarietà e di uguaglianza che un tempo avremmo definito "socialismo". Socialismo che dovrebbe coincidere con "pace": Sarebbe necessario che pace e politica si trasformassero in una binomia inscindibile partendo proprio da un recupero da una visione del futuro attraverso l'elaborazione di una necessaria Utopia da considerare veicolo per rendere possibile un progetto.  La coscienza della propria appartenenza e la volontà politica di determinare il cambiamento rimangono fattori insuperabili e necessari come motore di qualsivoglia iniziativa della trasformazione dello stato presente delle cose. Attenzione però lo stato presente delle cose va cambiato sia nel senso della condizione oggettiva della nostra esistenza sia in quello dell'assunzione di una consapevolezza soggettiva del vivere con gli altri. Da questa consapevolezza tra individuale e collettivo "si realizza la vita d'insieme che è solo la forza sociale, si crea il "blocco storico" (Gramsci Quaderno 11). Come auspicava Luckas "la coscienza di classe trova il suo superamento nell'universale riconoscimento della propria appartenenza al genere umano". La coscienza della propria appartenenza deve così sfociare nella coscienza di un'umanità che richiede uguali diritti per tutte e per tutti. La volontà politica del "soggetto" va allora impegnata nella ricerca di un socialismo possibile nella forma di un nuovo umanesimo rimanendo fedeli ad un'etica della trasformazione in quanto opposizione allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dell'uomo sulla donna.
La politica non riesce a fare quella che dovrebbe essere la propria parte: elaborare strategie adatte ad evitare l'imbarbarimento generale. Ed è su questo punto che la politica dovrebbe essere richiamata da un'idea di ritorno all'umanità e rimane il bisogno di umanesimo socialista.
 

VE LO DICO IN VERSI
di Marcello Capisani


 
Oltre l’infamia   
 
Per chi vive un disperato istante
non c’è altro valore che il presente!
Ma risulta ancor più ripugnante
di quanti han creato quel frangente
 
quello che ostacola i soccorsi,
che invita a tornare od a fermarsi
quelli che prontamente son accorsi,
per via di migliori altri percorsi;
 
perché la Flottiglia è di quei fessi
capaci pur di scatenar l’inferno
e persino di perdere se stessi
purché si parli male del Governo.
 
Quelli che chiamano democrazia
- dico tutta la stampa prezzolata -
la gente più spietata che ci sia
parla di losca impresa dissennata.
 
Pur se le acque son palestinesi,
gl’ israeliani ne chiudono le porte
e se si vuol davvero uscirne illesi
si rispetti la legge del più forte.
 
Ma che sbarchino viveri su Cipro,
da dove poi, molto probabilmente,
dei cristiani, con un salto triplo,
le faran arrivare in continente.
 
E, nel dir con queste altre minchiate,
tutti i nostri Fratelli anti-italiani
le dita le mantengono incrociate
per scaramanzia contro gli umani.

BISCEGLIE PER LA PALESTINA




lunedì 29 settembre 2025

DIFFONDETE IL PIÙ POSSIBILE!
https://www.youtube.com/watch?v=OxKpraXMYoo 


Stefano Bertoldi


 

È L’UCRAINA CHE PREPARA MENZOGNE?
di Larry C. Johnson  


 
La domanda è molto semplice: chi ha interesse ad allargare la guerra, l’Ucraina che perde, o la Russia che vince? Seconda domanda: chi, se non dei superidioti, può sostenere un giorno (Kallas) che la Russia può essere sconfitta in Ucraina, che la Russia è una tigre di carta, che non ha neppure vinto la Seconda guerra mondiale, e il giorno dopo (von der Leyen) che la Russia si appresta ad invadere l’Europa, come se a Mosca ci fosse un superidiota pari a quelli dell’UE? Ho ricevuto quanto segue da uno dei miei fedeli lettori. Giudicate voi stessi. 
[Franco Continolo]

*
Oggi diversi media ungheresi hanno riferito dei piani di Zelensky di effettuare sabotaggi in Romania e Polonia per incolpare la Russia. Pertanto, riguardo a Bankova, stanno preparando il loro “incidente di Gleiwitz”, per creare un casus belli per una guerra tra Russia e NATO. Secondo le informazioni disponibili, il piano del regime di Kiev è il seguente:
Riparare diversi droni russi abbattuti o intercettati.
Dotarli di una testata da combattimento.
Inviare droni controllati da specialisti ucraini - camuffati da “droni russi” - ai principali hub di trasporto della NATO in Polonia e Romania.
Condurre contemporaneamente una campagna di disinformazione in Europa per attribuire la colpa di tutto a Mosca.
Innescare un conflitto armato tra la Federazione Russa e la NATO.
 


Per realizzare questa provocazione, il 16 settembre i droni russi “Geran” erano già stati portati al campo di addestramento di Yavoriv, ​​nell’Ucraina occidentale, dove si trova il Centro Internazionale per il Mantenimento della Pace e la Sicurezza dell’Accademia Nazionale Hetman Petro Sahaidachny. In precedenza erano stati riparati a Leopoli, presso lo stabilimento LORTA.
Come scrivono i giornalisti ungheresi, la ragione di queste azioni di Zelensky è semplice: l’AFU sta subendo una sconfitta schiacciante. Il collassodell’esercito non è più a livello tattico; sta assumendo un carattere strategico. Se tutto ciò fosse confermato, allora dovremmo ammettere che... mai nei tempi moderni l’Europa è stata così vicina allo scoppio della Terza Guerra Mondiale.
Spero che il post di Donald Trump su Truth Social, in cui scarica la guerra in Ucraina sulle spalle dell’Europa, faccia esitare Romania e Polonia dall’acconsentire a questo piano, perché non c’è alcuna garanzia che gli Stati Uniti interverranno in loro aiuto. Tuttavia, persone disperate si trovano di fronte a situazioni disperate.
(Traduzione di Google)

 

TOC TOC: C’È QUALCUNO CHE VIGILA?
di Associazione di volontariato Idra


 
Sul pericolo-Mugnone a Firenze i cittadini bussano alla porta dell’Autorità di bacino.
 
Toc toc! C’è qualcuno là dentro? C’è qualcuno che legge le carte degli scavi TAV a ridosso del capriccioso torrente Mugnone? C’è qualcuno che ha visto il pelo della piena lambire già due volte quest’anno il piano d’appoggio delle Frecce rosse che attraversano Firenze? C’è qualcuno che ha messo in conto il rischio-Mugnone alle Cure, al Romito, a Novoli? C’è qualcuno che sente di doversi allarmare per quella fossa grande e profonda che si prepara per la scintillante stazione Foster proprio addosso al torrente?
Sì, almeno a quest’ultima domanda una risposta esplicita c’è: è quella del più alto esponente dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino Settentrionale, il segretario Gaia Checcucci. Alla vigilia dell’ultimo anniversario dell’alluvione del ’66, l’ha messa nero su bianco fra virgolette il quotidiano Il Tirreno, intervistandola: «Attenzione, la cassa d’espansione del Mugnone mi diventa la stazione Foster e su queste grandi opere ci piacerebbe ci fosse la sensibilità di chiedere un parere all'autorità competente».



Una prova in più, dunque, della fondatezza delle preoccupazioni che gli scavi TAV fanno ragionevolmente scattare negli abitanti e nei visitatori che la città di Firenze la amano, la conoscono, la studiano. Un caso esemplare di cittadini e istituzione che appaiono dover essere oggettivamente alleati. E invece…
È da quel novembre 2024 che un’associazione parte civile e testimone dei danni ambientali e sociali che la TAV ha regalato al Mugello chiede un incontro con la dott.ssa Checcucci. Sono parecchi, gravi e urgenti infatti i temi da discutere, sui quali Idra confida in un’iniziativa tempestiva e rigorosa da parte dell’Autorità: appaiono da indagare i presupposti tecnici e giuridici che hanno permesso di aggirare le procedure di valutazione, i contenuti degli studi idraulici effettuati, l’affidabilità dei dati sui quali si modellano gli interventi di adeguamento, la stessa omessa «sensibilità di chiedere un parere all'autorità competente» che la dott.ssa Checcucci lamenta.



Ma, a dispetto dei reiterati solleciti anche per posta certificata, la delegazione tecnica apprestata dall’associazione per il colloquio è ancora qui che aspetta un invito formale al colloquio auspicato. Da dieci mesi, ormai. Avranno la stessa pazienza Giove Pluvio e il Mugnone, coi chiari di luna meteorici che abbiamo imparato a conoscere?
Da osservare che tutte le altre autorità pubbliche investite a vario titolo di responsabilità in rapporto alle conseguenze potenziali e attuali delle tante anomalie riscontrate nella progettazione, nell’autorizzazione e nell’esecuzione degli scavi TAV continuano a ostentare indifferenza a fronte delle segnalazioni fattuali trasmesse dai cittadini: dal sindaco al presidente della Regione, dalle commissioni consiliari ai Ministeri all’ ANAC. Il solo presidente di uno dei Quartieri coinvolti, il 5, Filippo Ferraro, ha mostrato curiosità e interesse: se ne attendono con fiducia gli esiti. Sulla clamorosa assenza, nel progetto esecutivo del sotto attraversamento TAV della città, del piano di emergenza imposto dal Decreto sicurezza gallerie ferroviarie si registra - oltre l’insistita indisponibilità ad accordare un colloquio - il silenzio persino del prefetto di Firenze, ancorché informato per Pec direttamente dal Comando provinciale dei Vigili del Fuoco.  Dov’è finita tutta la ‘cultura green’ che si vanta nei Palazzi, sui media e nel dibattito pubblico?



Ecco perché lunedì 28 settembre, fra le 10 e le 13, nell’ambito del ‘dialogo in strada’ sulla deriva bellicista che affligge in questa cupa stagione il mondo della comunicazione e dell’economia (si veda anche l’alleanza strategica Militari Mobility fra Rfi e la società ‘Leonardo’), un rappresentante di Idra ha documentato con cartelli e volantini lungo via de’ Servi, dove ha sede l’Autorità di bacino, la strana vicenda del costosissimo super scavo autorizzato senza valutazione di impatto ambientale in un’area classificata a pericolosità idraulica alta, lungo un corso d’acqua già esondato nel 1992 e che per due volte (il 28 gennaio e il 14 marzo) ha minacciato di saltare gli argini nei soli ultimi nove mesi! Uno di quei casi a cui i giornali e le telecamere riserveranno magari fiumi di cronache solo a disastro avvenuto, invocando fuori tempo massimo - in coro con autorità, partiti e sindacati - il valore imprescindibile della prevenzione! Saranno ‘distratti’ ancora una volta?

RISCOPRIRCI INSIEME A TUTTI GLI ALTRI
di Chiara Landonio


Perugia per Gaza
 
Dobbiamo fare un passo in più, un passo che ormai sento necessario: cominciare a pensare che il genocidio in corso a Gaza non è causato solo dal sionismo, dallo stato di Israele o dal governo Netanyahu. Queste affermazioni ci inducono di nuovo a dividere il mondo in buoni e cattivi: sono gli altri che stanno compiendo queste efferatezze, complici anche i nostri governi, ma noi siamo la parte buona, la parte che denuncia il genocidio. Ricordiamo la frase di Merz di pochi mesi fa? “Lo stato d’Israele sta facendo il lavoro sporco per l’Occidente”: frase terribile, ma sulla quale dobbiamo fare una riflessione profonda. Il genocidio, la rapina, la sottomissione di altri popoli sono connaturati alla politica dell’Occidente che per lungo tempo è riuscita a far credere ai propri cittadini che gli altri fossero il male, che fossero barbari, che avessero norme abiette, che disprezzassero i diritti umani, che avessero a capo tiranni e che il nostro mondo avesse il diritto di portare loro libertà e valori inalienabili. La realtà è che i nostri privilegi, a partire dal nostro passaporto, dalla possibilità di movimento, dalle libertà individuali, dal nostro benessere, si basano tutte sulla rapina, sulla sottomissione, sull’azzeramento della cultura di altri popoli. Lo voglio ripetere: i nostri privilegi derivano dall’oppressione dell’altro. Ma che cos’è questo Occidente? Siamo proprio noi, si identifica completamente con la nostra cultura o in qualche modo è un qualcosa che nel suo sviluppo ha mangiato anche noi, senza che ce ne rendessimo conto? Perché l’Occidente più che essere una cultura è un sistema basato su un capitalismo predatorio, che ha bisogno di espansione continua e che impone una crescita infinita e per fare ciò ha bisogno di bruciare, di distruggere, di annientare tutto ciò che rappresenta una qualche forma di resistenza alla sua espansione. Alla fine della Seconda guerra mondiale tanti intellettuali italiani, come Carlo Levi, Nuto Revelli, Ignazio Silone e altri cominciarono a raccontare il tramonto del mondo contadino, quello che Pasolini chiamava un genocidio culturale a favore di un mondo dei consumi in cui anche noi fummo rapinati del nostro passato e che ci ha fatti diversi, colonizzati e dimentichi di ciò, attori della nuova colonizzazione. Ne Il mondo dei vinti, scriveva Nuto Revelli:
“Quando dall’alto della Pedaggera e dei Tre Cunei cerco la vita nelle ampie conche, riconosco più case grigie, spente, morte, che case fresche di calce, vive, giovani; riconosco i noccioleti che parlano di stanchezza, di abbandono, e i fazzoletti di vigna come bandiere stinte, eroiche, e i dirupi del Belbo che rivogliono il bosco. Non mi lascio tradire dall’edilizia residenziale, dalle ville di zucchero, estranee, ostili come i castelli e le torri che dominavano la miseria antica. Non mi lascio tradire dalla seconda, dalla terza casa degli ‘altri’. L’Alta Langa, come tutta la campagna povera ormai è un cronicario immenso, è il dormitorio di centinaia di pendolari, è il rifugio degli scarti, degli invalidi, degli emarginati dalla società del benessere”.


Perugia per Gaza

La Fiat arriva nelle campagne e promette ai contadini la liberazione: il trattore e i contadini firmano cambiali che non riescono a pagare. Saranno i figli che andranno a lavorare in Fiat per ripagare i debiti dei padri. E poi arriva la Michelin che arruola nelle fabbriche migliaia di contadini e la campagna stessa diventa terra predata dalle multinazionali che comprano terreni, che si impossessano delle acque, delle sorgenti, che depredano il suolo e il sottosuolo mentre gli uomini si rifugiano nelle città che offrono sicurezza e confort.
Così fiduciosi abbiamo vissuto dal boom economico in poi, come se fossimo al riparo, abbiamo vissuto per un po’ nella parte del mondo agiata, ma il mondo oggi si fa piccolo e non c’è più luogo dove allargarsi. E i potenti, che sono uno sparuto numero di persone che si nasconde dietro a multinazionali e lobby, non ha alcuna pietà per noi come per il resto del mondo. Concludo con ciò che diceva Carlo Levi in Paura della libertà: “L’individuo conchiuso tende a staccarsi e a vivere autonomo: il contatto con gli altri è possibile soltanto attraverso quello che a tutti è comune, attraverso l’indifferenziato, che col suo permanere fa comprensibili tutte le differenziazioni”. Riscoprirci nelle piazze come vinti, come diseredati, insieme a tutti gli altri in ogni luogo sarà forse l’inizio di un vero cambiamento.

 CENTO OSPEDALI PER GAZA




ALLA GALLERIA TULPENMANIE   


 
Lunedì 6 ottobre 2025 alle ore 18.30 l’Accademia dei Conigli ospita presso la Galleria Tulpenmanie (Villa Lavezzari, via Mauro Macchi 6, 20124 Milano) la conferenza in lingua inglese Houses in forests clearings di Luis Callejas e successivo dialogo con Elisa Cristiana Cattaneo, con presentazione del libro dall’omonimo titolo, curato da Luis Callejas e Jørgen Tandberg, pubblicato nel 2024 per i tipi di ACTAR Publishers, Barcellona-New York City. Introduce i lavori Lorenzo Degli Esposti.
Il punto di partenza del libro è una selezione di settanta fotografie di Luis Callejas. Queste immagini ritraggono tre case e giardini progettati dallo studio LCLA office in due radure nelle foreste delle montagne delle Ande. Il libro include anche disegni e tre dialoghi paralleli tra Luis Callejas e Matteo Ghidoni, Elisa Cattaneo e Jørgen Tandberg.
Le fotografie sono state scattate durante tre viaggi tra la Norvegia e la Colombia. Molte sono state effettuate con il medesimo obiettivo da 35 mm, evitando prese grandangolari e ricomprendendo ogni piccolo spazio in un singolo scatto.
I successivi dialoghi sono stati ispirati non da un’esperienza diretta, bensì dalla condivisione delle fotografie con gli autori coinvolti. Le immagini e i dialoghi affrontano le analogie tra la costruzione di una casa, la modifica della radura e la leggibilità della loro reciproca dipendenza.
Luis Callejas, architetto colombiano, è fondatore dello studio di architettura e paesaggio LCLA Office, con sede a Oslo, che dirige insieme all’architetto svedese Charlotte Hansson. È professore presso la Oslo School of Architecture e visiting professor alla Graduate School of Design dell’Università di Harvard, e nel 2020 ha insegnato alla Yale University come Louis Kahn Visiting Professor. Tra i suoi progetti realizzati figurano il centro acquatico per i Giochi sudamericani del 2010 e il rinnovamento dello stadio nazionale della Colombia. Tra le opere più recenti si annovera il progetto paesaggistico per il restauro della ex ambasciata statunitense di Oslo, progettata da Eero Saarinen.
Elisa C. Cattaneo, architetto Phd, è progettista del paesaggio e teorica, visiting scholar al MIT Massachusetts Institute of Technology e alla Graduate School of Design di Harvard. Inquadra il paesaggio come disciplina esplorativa del contemporaneo. Tra le sue pubblicazioni: Loaded Void (2013-15), Nature through the Mirror (2014); WeakCity (2015), Soundscapes (2016), Landscape in Art and Science (2016); Andrea Branzi. Il progetto nell'era della relatività (2018), Prato Factories Nature (2019). È professore di alta qualificazione in Teoria della Progettazione Architettonica Contemporanea al Politecnico di Milano. Tra le opere più recenti, i progetti paesaggistici per Cesena Sport City (2021-2025) e per il nuovo liceo artistico metropolitano Gastel a Milano (2022-2025).
info@tulpenmanie.net

domenica 28 settembre 2025

“POETI” CONTRO L’INDIFFERENZA
di Angelo Gaccione

Desmond Tutu

Avrei potuto scegliere fra tanti nomi diversi per vergare questo scritto, ma poi mi sono detto: “La denuncia del potere coloniale, delle dittature, del totalitarismo, la fanno, in maniera efficace e drammatica, coloro che in quelle condizioni disumane sono costretti a vivere; gli uomini e le donne che sono costretti a sopportare angherie, carceri, assassinii; a pagare con la vita, a subire sui propri corpi le torture e le umiliazioni a cui vengono sottoposti, e tuttavia non si arrendono”. Questi uomini e queste donne non sono necessariamente poeti o intellettuali, sono persone comuni; non hanno scritto e non scrivono poesie, ma le portano incise sui lori corpi e nei loro cuori per consegnarle agli altri, alle future generazioni come urli e messaggi di libertà e di giustizia perché ne facciano tesoro, perché tengano viva la fiaccola della memoria, perché non si disperda. Costoro hanno utilizzato, e utilizzano, parole e carne. E che parole toccanti possono essere le loro, e che corpi gloriosi possono mettere sulla bilancia dell’ingiustizia, sull’infamia della storia! Potevo scegliere fra molti, ma poi mi sono affiorate alla mente in maniera prepotente le frasi di un uomo speciale, di un vescovo, che tanto ha operato, agito, pronunciate parole, parole pesanti come macigni, belle come i versi dei poeti.  


Consideriamole, allora, alcune di queste frasi, di queste parole: Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore”. Non sono poetiche e meravigliose queste parole in un mondo feroce e disumano come quello in cui ci troviamo a vivere? Non è vera poesia questa, davanti ai corpicini mutilati dei bimbi di Gaza e Palestina, bombardati senza pietà e senza colpa dall’esercito di un Paese che si ritiene una democrazia? Davanti ai corpi scheletriti ed affamati dei bimbi palestinesi che grattano i residui di cibo da un misero tegame, che lo grattano con le unghie dalla terrà dove qualche brandello si è rovesciato, in mezzo ad una calca di morte fra urli e pianti e dolori e mamme disperate perché si nega il cibo per sfamarle quelle loro creature… perché si vuole arrivare alla “soluzione finale” come quella che, in un’altra tragica temperie storica, l’oppressore di oggi aveva subìto? No, non possiamo essere neutrali davanti a tanto orrore, non ci è concesso. 



La frase che ho citato in corsivo è di Desmond Mpilo Tutu, arcivescovo anglicano di pelle nera di Città del Capo, in Sudafrica. È stato primate della Chiesa anglicana dellAfrica meridionale, e per le sue battaglie contro l’oppressione, la dittatura e il regime dell’apartheid, si meritò il premio Nobel per la pace nel 1984. Che cosa ci vogliono dire le poetiche parole di Desmond Tutu? Qual è il loro significato? Non c’è alcun senso nascosto in queste parole, nulla che non possiamo immediatamente comprendere e fare nostre. La neutralità, o peggio, l’indifferenza, davanti all’orrore della storia, al disumano, all’umiliazione degli uomini, equivale a sostenere gli artefici dell’ingiustizia e dell’orrore; a schierarsi con i carnefici contro le vittime, a lasciarli prosperare, a continuare ad opprimere. Non prendere posizione, non parteggiare con chi subisce le discriminazioni e le oppressioni da parte delle dittature; tollerare la cancellazione delle libertà civili e politiche ad opera di regimi autoritari e persecutori; tacere sulle disuguaglianze delle false democrazie, sullo schiavismo economico, sui conflitti rovinosi e distruttivi messe in essere dai Governi e dagli Stati guerrafondai; tutto questo fa di ciascun uomo un complice. Ne fa un essere indegno che ha deciso di bendarsi gli occhi per non vedere; otturarsi gli orecchi per non sentire; diventare muto per non parlare. Lasciar fare ai potenti e agli aguzzini come se tutto ciò che accade nel suo tempo non lo riguardasse.



Se restiamo indifferenti davanti al disumano, siamo già morti come esseri umani; abbiamo perduto definitivamente l’essenza che ci rende tali. Tutu ci ammonisce a non abituarci all’orrore, ad agire per arginarlo: con la parola, con lo scritto, con la presenza dei nostri corpi nell’agorà pubblica; per mostrarlo il nostro corpo, per farlo vedere, per far sentire che vibra di indignazione contro gli aguzzini e di compassione per gli oppressi e i perseguitati. Non abbiamo bisogno di armi per cambiare il mondo. Abbiamo bisogno di amore e compassione”. È ancora Desmond Tutu che parla: non sono poetiche anche queste parole? In esse emerge la grande importanza dell’empatia e della solidarietà: due princìpi e pratiche morali di straordinaria umanità e poesia. Le armi uccidono e distruggono, i sentimenti affratellano, consolano e soccorrono. Provocano un cambiamento positivo all’interno dei rapporti umani e del vivere sociale; migliorano i costumi, rendono retto l’agire.



E che dire di questo assioma di Martin Luther King che di versi ne vale mille? “La pace non è semplicemente l’assenza di conflitto, ma la presenza della giustizia”. Era un sentire comune di Gandhi, di King, di Tutu, di Mandela: quattro giganti della pace, quattro “poeti” della parola. 
Siamo davanti ad un pensiero denso e di straordinaria saggezza che i decisori che reggono le sorti del mondo dovrebbero meditare a fondo. Rimuovere le cause dell’ingiustizia è il solo modo per garantire una pace duratura fra tutte le nazioni. Se bandire le armi che provocano lutti e dolori, morte e rovine è una necessità; sciogliere i nodi che generano i conflitti è un obbligo. C’è un unico modo possibile per assicurare la sicurezza e la prosperità collettiva: cooperando, condividendo. È su questo insegnamento ideale della convivenza pacifica ed armonica che si sono mossi questi quattro coraggiosi difensori dei diritti umani. King seguirà l’insegnamento di Gandhi come Nelson Mandela, proseguirà il cammino tracciato dal vescovo Tutu. Un cammino accidentato ma infine vincente, per quel Sudafrica arcobaleno, per quella Rainbow Nation, fatta di etnie diverse e collaborative che avevano sognato.    

  

 







POETI


L’inutilità della guerra e l’eternità dell’esistenza nel verso Sonetto n. 55 di W. Shakespeare. (Traduzione di Anna Rutigliano)
 
Non il marmo, né i monumenti dorati
 
Non il marmo, né i monumenti dorati dei principi


sopravvivranno a queste potenti rime,


ma tu brillerai più luminoso in questi versi


che in pietra impolverata ed imbrattata dal tempo trasandato.


Quando l’inutile guerra travolgerà le statue


ed i conflitti sradicheranno le opere in muratura,


né Marte con la sua spada, né il fuoco divampante della guerra


bruceranno il ricordo vivo della tua memoria.


Contro la morte e tutte le indifferenti ostilità,


tu continuerai a vivere: la tua lode troverà sempre spazio


persino negli occhi dei posteri


che logoreranno questo mondo ad una rovina senza fine.


Così, fino al giorno del giudizio in cui risorgerai,


tu vivrai in questi versi e abiterai negli occhi di chi ama.
 

SCAFFALI
di Maurizio Minchella
 

Malditerra

«Siete nati in esilio, una generazione inutile, senza futuro. Arrivati troppo tardi per costruire dopo la guerra e troppo presto per abbattere un mondo in declino. Con i vecchi che non vogliono più saperne d’esser vecchi…». È uno dei tanti flash che illuminano Malditerra (Arca Edizioni, 2025, pagine 368 € 19) - un titolo perfetto, sottolinea Pino Cacucci nella sua intensa prefazione - opera prima di Roberto Longoni, giovane giornalista di cronaca, attento alle storie prima ancora che ai titoli. Al centro di questa epigrafe si erge una serie di ritratti della meglio gioventù borghese degli anni Ottanta, l’ultima a godere del benessere, elargito a piene mani dai vincitori per poi riprenderselo con gli interessi qualche decennio dopo, per chiudere la parabola di una guerra raccontata male e di un dopoguerra perso in modo ancor peggiore. Longoni, in un romanzo ricco di poesia, tratteggia i loro lineamenti sullo sfondo del golfo di Chiavari, trasformata da porto in città proprio in quegli anni. In rada il Sueño ospita l’andirivieni dei giovani consumatori di emozioni fugaci, annusatori della vita nelle sue espressioni più seduttive perché quelle che richiedono tensione e volontà non le hanno cercate in nessun mercato, legale o illecito che fosse. Eppure, un’anima questi ragazzi ce l’hanno, ma irrequieta e fuggente. Gli istinti peggiori si alimentavano dalla mancanza di senso e di radici, e così un gesto d’amore puro riusciva ad esprimersi pienamente e senza inibizioni solo nell’ultimo eccesso, durante il quale poteva andare in scena il sacrificio di sé. A beneficiarne è Quello della barca, un navigatore solitario giunto nel Golfo da chissà dove, sulle note dello Stabat Mater, zittito dal rock assordante lanciato dallo stereo del Sueño. Un ragazzo fuori dal tempo. La partitura della sua musica interiore era però scritta in un diario dei Vivaldi, navigatori genovesi che si persero sulle coste africane nel XIII secolo. Quello della Barca andrà a cercare la loro ultime tracce, non prima di aver attraversato in modo indelebile le vite dei suoi coetanei del Golfo, ormai così estranei al mare, pur vivendoci dentro. La terra e l’acqua sono elementi che collidono, e solo i veri marinai li sanno tenere insieme, sia pure per il tempo di qualche racconto e di qualche bevuta. Quello della barca riprende il largo, accompagnato dal sorriso divino che sembra avvolgere tutti i protagonisti, a consolazione di una sconfitta già sentenziata, ma non da loro. Proseguirà il suo viaggio, ben sapendo che nulla è perduto quando si ha il coraggio di partire vincendo la tentazione di voltarsi indietro.

 

 

CINEMA
di Marco Sbrana


 
Nel sogno dentro il sogno, una storia di crescita. Alpha di Julia Ducournau. L’ultima volta che Julia Ducournau ha presentato un film Cannes: Titane, le è stata assegnata la Palma d’Oro. Torna quest’anno con un film che, a suo dire, serbava da prima del trionfo.



Sabbia. Vento. Vento rosso. E sembra marmo la superficie crepata su cui scorrono i titoli di testa ma, quando la macchina da presa affonda, e affonda e affonda, l’immagine prima è il buco su di un braccio. E il braccio, il braccio di un eroinomane, è di buchi percorso. La mano di una bambina disegna segmenti che uniscono i buchi: “Così è più bello,” dice la bambina. Si chiama Alpha, è la protagonista, adesso ha cinque anni. E quando lo zio - Amin, si chiama - apre la mano che rivela una coccinella, è di una bimba il meravigliarsi. Lo stacco è netto. Siamo a una festa. Adolescenti. Droga e alcol. Ma quel che è peggio è un ago sporco che segna una A sul braccio di Alpha, ora tredicenne. Questo l’inizio di un film che non coccolerà mai lo spettatore. Lo assedierà di domande. Ducournau crea un muro; sta a noi abbatterlo. Tale il rapporto tra autrice e ricettore. Reciprocità: sicché fin dal desiderio della regista di non spiegare mai (così come faceva Bunuel) si crea un cinema necessario, che è il cinema politico, politico perché relazionale, politico perché interroga e non fornisce risposta. Ma dà, Alpha dà tantissimo a chi accetta il patto.
Per capire quale sia il patto, bisogna definire un minimo di trama.
Gira un virus - allegoria dell’AIDS - che si trasmette come l’AIDS e che come l’AIDS crea terrore. L’ago del tatuaggio era sporco. Il film racconta la storia di emarginata di Alpha, a scuola ostracizzata, e dell’altrettanto emarginato Amin, zio di Alpha. Non si creda di poter interpretare il film dopo una sola visione. Ma, alla seconda, si ricavano indizi.



Alpha, terrorizzata, ascolta la madre parlare con qualcuno che non vediamo e dirgli che non ce la fa più: prima con lui, ora con la figlia. La madre - medico - è stanca, dice, di lottare.
Così viene convocato Amin, eroinomane invalidato dai tremori di una indotta astinenza per ripulirsi il sangue.
Alpha è sovrabbondante di linee narrative. Questo l’unico difetto. Titane era una linea retta; Alpha è un film rizomatico. Barocco, forse. Sembra di sentire Ducournau e il suo desiderio (il film ha molto di autobiografico) di essere totalizzante, di voler creare una specie di romanzo-mondo à la Pynchon ma che si concentri sul conetto di trauma.
Amin, capiremo, non ha mai raggiunto Alpha. È morto: il virus che trasforma la pelle dei malati in marmo l’ha ucciso otto anni prima che Alpha tornasse a casa col tatuaggio. La morte di Amin, smagrito, emaciato, tremante, ironico e sordido, viene mostrata e risemantizza il testo prima delle ultime sequenze. Se Amin è morto, chi abbiamo visto nella linea narrativa presente, quella del tatuaggio?
Non è domanda che sia pertinente.
Ché il trauma ha una logica indipendente, ché il trauma vive nella circolarità, nella reiterazione. Non si deve pretendere, dice Ducournau, che il trauma combaci con le regole della mente sana; i film che sovrappongono - sciatti - il trauma alle regole del mondo sono disonesti. Pur di non disorientare, molti registi inscrivono il trauma nella sfera della comprensibilità. Non Ducournau, che attraverso la figura di Amin rende carne, incisione, ferita, ballo il trauma, il quale trauma non perviene all’intelletto bensì arriva dove dovrebbe arrivare in ogni suo racconto: allo stomaco. Ma il fatto che, nella scena con Beethoven (il pranzo di famiglia), nessuno a parte la madre paia notare Amin può, alla seconda visione, aggiungere qualcosa. Ma questo qualcosa non è necessario. Tutto il necessario colpisce alla prima visione. È accessoria l’intellettualizzazione di quanto vediamo nel film.


Julia Ducournau

Ducournau - come in Titane - tratta la musica come personaggio agente, parlante. The Mercy Seat di Nick Cave (splendida versione al piano) accompagna il ballo spasmodico (così Breton: “La bellezza sarà convulsa o non sarà”) di Amin e Alpha, tra i malati di marmo, tra le luci intermittenti di una discoteca di periferia. Scena gemella del ballo su She’s Not There in Titane. Lunga canzone, lunga sequenza. La macchina a mano che non si stacca dai volti, ma li segue e ce li sbatte davanti, perché siamo davanti alla delicatezza del macellaio, non a quella dell’architetto, siamo la carne, siamo il marcio che ci scorre nelle vene, siamo fluido corporeo. E scorriamo. Vediamo lo scorrere delle cose come in Fellini, l’impermanenza, vediamo Eraclito. Ma non è un fiume cristallino; qui c’è sangue (come la superba scena in piscina), qui c’è mucillagine, i pesci affogano.
Così, tra un tentativo (Alpha tredicenne) di capire se sia o meno malata, tra una scena e l’altra (Alpha a cinque anni) di Amin che muore di eroina e del virus il cui rimedio ha trovato proprio nell’overdose, il fluire della vita e di un film che oscilla, appunto, tra l’ineluttabile proseguire, incessante andare del tempo, e la fissità del trauma.
Il professore di Alpha recita una poesia: un sogno dentro un sogno, dice l’uomo in riva al mare, in pena per una “spietata onda” che ha mietuto (dice il professore) “almeno una vittima”.



La domanda è su chi sia la protagonista del film. Detta domanda si intreccia al discorso sul fluire. Non c’è fissità nemmeno nel punto di vista. Non c’è arresto nemmeno nella prospettiva. La vita scorre, ci scambiamo fluidi, le carni si fondono, e la vita non designa punti fermi. Sicché sì, seguiamo Alpha, ma risulta chiaro che il trauma è quello della madre.
Che, nel finale, porta Amin a casa. Alpha esce dall’auto, osserva i due. E Amin si dissolve in polvere mentre il vento rosso (una leggenda berbera: vento rosso scorre nelle vene di un malato che deve essere purificato con l’acqua) si abbatte contro il viso di Alpha in lacrime.
Il rapporto tra Alpha tredicenne e Amin è un sogno: la scena del soffitto che schiaccia Alpha soffocante; la corsa lungo il campo da calcio (montaggio parallelo con quella con sotto Nick Cave). Ma non è il sogno di Alpha. Sogno dentro il sogno - così la poesia - dopo una pitiless wave che ha ucciso almeno una persona (Amin).
Bat who is the dreamer?
Se per rispondere a questa domanda in relazione a Twin Peaks ci vorranno decenni, possiamo, per Alpha (film più classico di Titane, meno Cronenberg e più dramma familiare, malgrado la struttura più complessa, come detto rizomatica) dire che la sognatrice è la madre.
Come si supera un trauma? Si può superare un trauma? La cesura, forse, può risultare salvifica.
La madre - medico, ricordiamolo - non ha saputo salvare il fratello: né dall’eroina né dal virus. Colpa, infinita colpa, come se lo avesse ucciso. Al che, quando Alpha rischia di replicare l’orrendo già vissuto, la madre convoca il fratello e si mette a sognare. Ma non basta.
Due scene.
Al pranzo di famiglia, Alpha chiama spesso la madre perché la salvi dalla confusione (e dal martellante sottofondo beethoveniano). Così la madre: “Anch’io ho una vita, Alpha”. Frase forte, inadatta al contesto. Esagerata, no?
Indicativa senz’altro.



Seconda scena, appena prima del finale. Madre e figlia condividono il letto singolo di Alpha. E Alpha: “Mamma, hai fatto tutto bene”.
Titane era joyciano perché sul padre; Alpha è sulla madre. Che ha una vita propria, di cui non conosceremo mai tutti i dettagli. E che deve essere perdonata.
È la storia di molte famiglie distrutte, per esempio, dalle malattie mentali. Purtroppo parlando per esperienza, ipotizziamo un figlio con malattie psichiatriche e una madre che lo vuole salvare. Immaginiamo la simbiosi. Immaginiamo il privato della madre: quella volta che uno sconosciuto l’ha molestata e lei non è più riuscita a entrare in quel parco; immaginiamo la depressione in prossimità degli esami, la costrizione a letto e il Prozac; immaginiamo l’invidia per una sorella più brava e più magra. La cesura, che sarà la salvezza sia per la difficile adolescente Alpha sia per la madre, si ottiene quando il figlio lascia andare. Lasciar andare è riconoscere l’impossibile.
Abbiamo albergato nel ventre di nostra madre. Ma nostra madre è un Altro. Riconoscerla come Altro da sé è riconoscere l’impossibile, riconoscere i suoi traumi, e assolverla. Come fa Alpha, in questa splendida storia di formazione. Precoce crescita, ma necessaria.
Dapprima è la vita, la prima, il cordone; la vita vera è prescindere dalla mamma.

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