di Franco Toscani
Nel tempo della pandemia (che, come ha sancito
ufficialmente all'inizio di marzo l'Organizzazione mondiale della sanità, è
l'epidemia di coronavirus o Covid-19 estesasi a livello planetario) siamo tutti
riportati alla nudità della nostra
esistenza, dell'essenza umana e la sofferenza è universale. In questi frangenti
ci sono rivelate nel modo più brutale, spietato e collettivo la fragilità, la
finitezza e la mortalità costitutive degli esseri umani, l'assurdità della
dismisura, di ogni mito e culto dell'onnipotenza; si può fingere di meno a noi
stessi e agli altri sulla nostra condizione, i nodi vengono maggiormente al
pettine. Pensiamo, specialmente nelle fasi più gravi e drammatiche della pandemia,
alla presenza massiccia della morte attorno a noi e sempre più vicina a noi,
alla sua strapotenza, alla minaccia costante dell'annientamento che
rappresenta. Ricorrendo al linguaggio della teologia, Claudio Magris ha parlato
della prolixitas mortis (prolissità della morte), della sua
incombenza e incontinenza, della sua ininterrotta narrazione.
Nei giorni della pandemia ci
tocca sperimentare in modo particolarmente amaro e rivelatore la verità tragica
della filosofia dell'esistenza circa la prossimità estrema della morte, la
vicinanza del nulla, il forte senso della fragilità umana e del destino.
Avvertiamo con maggiore nettezza la nostra totale appartenenza alla natura, la
nostra dipendenza da essa, l'ineludibilità della nostra interdipendenza ecologica
e globale, il fatto che non possiamo esistere fuori della natura e cavarcela
senza un nuovo rapporto con l'ambiente naturale e sociale.
Tutti in qualche modo soffriamo,
però in modi e forme anche notevolmente diversi. La sofferenza e il peso
maggiori - non va mai dimenticato - riguardano i malati e gli emarginati, tutto
il personale sanitario costretto a turni di lavoro massacranti e a prodigarsi
in condizioni difficilissime, tutti quei lavoratori della produzione e dei
servizi che sono in prima linea per aiutare in vari modi la società. Un'immensa
gratitudine, non del tutto esprimibile a parole, va a tutti coloro che operano
continuamente per gli altri, per risanare, provvedere ai bisogni essenziali
della popolazione, alleviare le pene, limitare i danni, evitare il peggio. Va
soprattutto agli umili e agli ultimi che sgobbano senza posa, ai tanti
senza-nome e senza-storia che svolgono il loro prezioso lavoro quotidiano
lontani dalle luci della società sirenico-spettacolare e senza alcuna ribalta
mediatica.
Ci sono poi una sofferenza
psichica e interiore, un disagio e un malessere, una paura e un'angoscia che ci
concernono tutti indistintamente, in varia misura, coi quali dovremo imparare a
convivere e che già cerchiamo faticosamente di gestire e controllare, in nome
dell'amore per la vita e per la convivenza. Ci proviamo, almeno dobbiamo
assolutamente provarci, perché la mera disperazione non conduce da nessuna
parte, anzi ci paralizza e impedisce l'azione.
Anche la prospettiva che questa
situazione, soprattutto il rischio di contagio, possa durare non pochi mesi o
più di un anno, è davvero rattristante e inquietante. Per non parlare della
crisi economico-sociale in cui siamo già precipitati, di proporzioni
gigantesche, planetarie. I milioni di nuovi poveri e disoccupati reclamano
giustamente aiuto, ma nessuno può fare miracoli, neppure il miglior governo del
mondo, che del resto non esiste da nessuna parte. È impressionante
l'impasse in cui la politica si
dibatte oggi, oscillante fra demagogia, promesse impossibili da mantenere,
irresponsabilità, serietà dell'impegno e pesanti responsabilità di governo,
chiamata a dare risposte impossibili o per forza carenti in una situazione
senza precedenti, invitata da ogni parte a tamponare faticosamente le ferite
del corpo sociale e a dare risposte comunque inadeguate. Naturalmente, anche in
questa situazione, c'è chi si dedica senza alcun pudore allo sciacallaggio,
alla demagogia sfrenata e alla più vile strumentalizzazione politica,
promettendo miracoli e cose del tutto aleatorie. Molti abboccano, ma non se ne
può più della politica da bassa cucina elettorale, alla ricerca del consenso
immediato, di corto respiro, menzognera. Come ha detto in un'intervista
televisiva un medico intelligente, riferendosi a sé stesso e ai medici (ma il
discorso andrebbe esteso a tutti), oggi "nessuno può fare lo
Zarathustra" e atteggiarsi a facile profeta o a salvatore dalla bacchetta
magica. Un pizzico di umorismo e di sana autoironia ci farebbe bene anche in
questi frangenti, ma prevalgono di gran lunga in molti la rabbia, la violenza
verbale, il disprezzo, il mugugno ininterrotto e l'opposizione inconcludente,
il velleitarismo, la mancanza di lucidità e di alternative praticabili.
Fatti per la vita sociale, di
gruppo e di relazione, abituati ai riti e ai culti della civiltà di massa,
nelle presenti circostanze agli uomini è improvvisamente impedita la normalità
di questa vita, pensiamo soltanto all'obbligo del mantenimento delle distanze
tra le persone, all'impedimento degli abbracci, delle strette di mano, dei
gesti affettuosi, dei contatti ravvicinati, etc. . Ognuno è in qualche modo
paradossalmente invitato e per certi aspetti obbligato - proprio per amarci e
rispettarci più profondamente - a diffidare dell'altro, a non aprirsi
all'altro, a sospettare il contagio ovunque, a mantenere le distanze, appunto.
È amarissima - ancorché
indispensabile e necessaria, beninteso - questa riduzione drastica e pesante,
questa perdita secca dei livelli normali della qualità della vita, delle
relazioni e della socialità nelle nostre città spettrali e desertificate, in
cui le sirene delle ambulanze rompono sovente il silenzio delle vite sospese
con suoni terribili, opprimenti l'animo ancor più del solito, di sventura e di
morte.
Questa normalità degli affetti,
dei sentimenti, dei rapporti umani schietti, delle relazioni fruttuose ci è
assolutamente cara e indispensabile; non è così, invece, per la normalità
alienata, per la normalità del conformismo e del consumismo, dell'inquinamento
e del rumore, del traffico e della fretta, della società dell'individualismo e
della competizione, del capitalismo edonistico e della cultura dello spreco,
del totalitarismo del mercato, del mondo mercificato e del feticismo economico,
dell'impero del capitale, delle merci, della tecnica e del Dio-denaro, in cui
gli uomini sono ridotti essenzialmente a produttori/consumatori, valgono solo
come tali, non sono più considerati innanzitutto come abitanti del pianeta, come esseri umani nella loro complessità e
pienezza. Questa "normalità" va rimessa in discussione, perché sta
inaridendo la convivenza sociale, sta distruggendo e forse distruggerà la vita
sul pianeta.
Nei giorni della pandemia
colpiscono molti volti, sguardi, movimenti, atteggiamenti, gesti, spesso muti,
mesti, discreti e quasi impercettibili, ma anche pietosi, solidali, gentili,
cortesi, partecipi, più che mai coscienti e rispettosi. È la ricchezza della
nostra umanità colpita e ferita, che non può esprimersi pienamente, ma che
scopre e vive la condizione comune di sofferenza, disagio e impedimento. Ci sono pure meravigliosi
volontari che prestano aiuto come possono, veri e propri piccoli, grandi eroi
della nostra vita quotidiana tribolata, testimonianze luminose della nostra
umanità.
Molti, per fortuna, capiscono che
siamo tutti "sulla stessa barca", che nessuno - nemmeno Trump,
Johnson e Bolsonaro - può permettersi di fare troppo a lungo il gradasso o lo
sbruffone in questa situazione così tragica e dolorosa. Nessuno di quelli che,
giovani o vecchi, sono ancora sani o non contagiati dovrebbe dimenticare che ci
sono quelli che hanno bisogno, stanno male o, comunque, stanno peggio di loro.
Nell'isolamento, nell'apprensione
e nella desolazione universale, io, ad esempio, riesco ancora, almeno per il
momento, a lavorare e a scrivere queste note: ne sono pienamente cosciente e
quasi me ne vergogno, ma è pur vero che devo, voglio, posso farlo e che
ciascuno è chiamato anche al dovere sacrosanto di non cadere vittima di una
depressione paralizzante e pericolosa (specialmente in queste condizioni di
vita sociale), alle esigenze della convivenza, di proteggersi e di proteggere
gli altri, come e per quanto possibile,
almeno cercando di non ammalarsi e di non contagiare.
Non possiamo però dimenticare
che, nemmeno in queste circostanze così aspre per tutti, continua ad agire
l'umanità meschina, peggiore degli sciacalli e degli avvoltoi, degli
approfittatori e degli opportunisti, del "familismo amorale", di
coloro per cui vale il motto "tanto peggio per gli altri" e che
pensano soltanto a sé stessi, al proprio "particulare": mi riferisco,
ad esempio, a quegli sciagurati che cercano di truffare gli anziani
introducendosi nelle abitazioni e spacciandosi per personale sanitario, a
quelli che hanno consapevolmente contagiato altri andandosene tranquillamente
in giro o speculato sul prezzo delle mascherine, a coloro che corrono
all'accaparramento di beni alimentari nei supermercati o di prodotti sanitari
nelle farmacie, a coloro che chiedono aiuti economici senza averne davvero
bisogno. Occorre fare attenzione anche a questa umanità irresponsabile e
incosciente o comunque scarsamente responsabile in servizio permanente
effettivo.
Sperimentiamo infatti più che mai
l'ambivalenza dell'umano e quella che Robert Musil chiamò, nel suo capolavoro
incompiuto Der Mann ohne Eigenschaften
(L'uomo senza qualità, 1930-1942),
"la profonda duplicità del mondo" (die tiefe Zweideutigkeit der Welt), che ora ci abbassa e ora ci
innalza, una volta ci deprime e una volta ci esalta.
Da un lato, troviamo tra l'altro
l'opportunismo, l'arroganza e la presunzione, la malvagità, lo sciacallaggio
economico e politico, la stupidità, insomma tutto il male di cui gli uomini
sono capaci anche nelle situazioni che dovrebbero richiedere il massimo di
aiuto, solidarietà e collaborazione; dall'altro le meravigliose qualità,
caratteristiche ed energie di tutti coloro che danno il meglio di sé, impegnati
ad arginare il peggio e a salvaguardare l'umano. Assistiamo a veri e propri
prodigi quotidiani in termini di abnegazione, generosità, cura, attenzione, lavoro costante e scrupoloso, prodigalità e
rispetto, quasi sempre senza alcuna grancassa mediatica.
Sarebbe auspicabile che da questa
tragedia potesse spuntare un "nuovo inizio", una ri-nascita, affacciarsi un "cuore nuovo" o "di
carne" (grande tema della sapienza e profezia biblica. Cfr. Ez 11, 19-20; Ez 36, 26-27; Ger 31,
31-34; 1Re 3, 9-12) in alternativa al
"cuore di pietra", avviarsi una conversione
(non solo etica, ma pure una conversione
ecologica dell'economia), un processo di umanizzazione reale, in nome di
quella globalizzazione della fraternità e della cooperazione, della solidarietà
e della condivisione indicata pure, profeticamente, da papa Francesco. Un'altra forma della globalizzazione, più
ecologica e solidale, più giusta e fraterna, è drammaticamente urgente.
"Svegliati, o
Signore!", ha esclamato papa Francesco in un giorno di fine marzo, in una
piazza san Pietro vuota e scura, sotto la pioggia, durante l'Urbi et orbi, invocando Dio perché
intervenga e ci liberi dalla pandemia. "Abbiamo proseguito imperterriti,
pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato": queste e altre
parole del papa sono nel contempo pietose, lucide e profondamente umane, ma
rivelano pure una drammatica impotenza.
Su "Avvenire" il
sociologo cattolico Mauro Magatti ha
espresso apertamente nei giorni più duri di questa tragedia il proprio
smarrimento e la propria inquietudine di credente circa la difficoltà di cogliere i segni e le tracce del divino
nella situazione odierna. Comunque la si pensi, credenti o non credenti, non
c'è alcun "Dio tappabuchi" (Dietrich Bonhoeffer), Dio non risponde,
non può risponderci. Siamo affidati a noi stessi, alle nostre scelte e
responsabilità, alle nostre azioni e pratiche di vita.
Il silenzio e l'assenza di Dio -
nel tempo presente che sparge paura, sofferenza e morte a piene mani fra gli
uomini - ci lasciano particolarmente sgomenti e ci rivelano l'abisso della
condizione umana, ma ci richiamano pure all'esigenza pressante dell'azione e
della assunzione di responsabilità.
Le attuali tribolazioni e
angustie richiedono una radicale conversione dei cuori e delle coscienze, una
tensione alla giustizia, a contrastare le enormi diseguaglianze
economico-sociali, i vergognosi squilibri di ricchezza e di potere esistenti
nel mondo. Va riscoperta e praticata la compassione,
che non è un atteggiamento di compatimento che va dall'alto al basso, ma la
capacità di partecipare e di comprendere le sofferenze altrui, cercando di
contrastarle e alleviarle. Il filosofo Mauro Ceruti ha osservato lucidamente
che oggi la fraternità non è più
soltanto un'aspirazione etica, ma comincia a diventare una necessità inscritta
nella nuova condizione umana. Saremo capaci di riscoprire e praticare
compassione e fraternità?
Nel momento attuale è ancora
prevalente la ratio
strumentale-calcolante rivolta agli interessi particolari, minoritaria è invece
la ragione rivolta al bene comune, alla giustizia, alla verità.
Ci troviamo e ci troveremo sempre
più in una situazione in cui sono e saranno richieste molte risorse economiche,
in cui occorre e occorrerà applicare il
sano e semplice principio secondo cui chi ha di più deve dare di più. Una
maggiore giustizia sociale diventa un imperativo morale, se non vogliamo fare
delle vane chiacchiere e della retorica insulsa, insopportabile.
È in gioco pure il destino
dell'Europa, che è in crisi perché non è ancora la nostra vera casa comune, la nostra patria (Heimat). Soprattutto, essa non è ancora unita davvero,
politicamente e culturalmente. L'immenso patrimonio e i tesori della grande
cultura europea sono sotto i nostri occhi e nella nostra storia (per la verità,
insieme a tante altre cose vergognose, come il colonialismo, l'imperialismo, la
cultura della guerra, il razzismo, l'eurocentrismo, etc.), ma vanno riscoperti
e fatti vivere. Ora vediamo lucidamente che l'Europa è posta davanti ad un aut-aut: senza spirito di solidarietà e
fraternità, senza aiuto e collaborazione reali, senza vera unità - non solo
economica, ma politica e culturale -, essa soccomberà, fallirà e lascerà
rovinosamente il campo libero agli egoismi nazionali, alle rinnovate spinte
sovraniste e nazionaliste.
Una delle verità principali che
questa pandemia ci consente di riscoprire è quella che il buddhismo chiama la
"co-produzione condizionata" o "genesi interdipendente" di
tutti i fenomeni, ossia il fatto che l'interrelazione o interdipendenza
universale concerne tutti gli esseri e le cose; nessuno o nessuna cosa può
sognarsi uno "splendido isolamento", può fare l' "anima
bella". L'uomo non è un dio né una bestia, diceva già Aristotele, ma un
animale razionale, sociale e politico.
In questa stessa direzione della
"vita buona", anche il grande pensiero filosofico europeo e italiano
ha parlato sovente di intersoggettività, di relazionismo e di "ontologia
chiasmatica": penso qui soprattutto a Edmund Husserl, Enzo Paci e Maurice
Merleau-Ponty.
Più che mai attuale è pure il
messaggio della poesia La ginestra
(1836) di Giacomo Leopardi, che richiama gli uomini - a partire dalla
condizione umana e dalla sventura comune - a riscoprire le ragioni della
fratellanza e dell'amore reciproco, della solidarietà e della cooperazione.
Molti potranno riconsiderare e
rivalutare tutto ciò, ma non è scontato. Per il momento, siamo ancora nella
bufera, ci occorrono molta pazienza e molto coraggio (o forza del cuore, come dice ottimamente Vito Mancuso), molta
coscienza, responsabilità, azione solidale e concreta.
Questa pandemia che ha messo in
scacco il pianeta è un segno inquietante dei tempi, da interpretare, crediamo,
come un avviso estremo ai naviganti. Per chi suona la campana? Suona per te,
per ciascuno di noi, per l'umanità e la civiltà planetaria. Se non ascolteremo
questo suono - e tutto va purtroppo nella direzione del non-ascolto o di un
ascolto scarso, solo parziale, della ripresa della normalità alienata, della
continuazione della devastazione della Terra e dell'inaridimento dell'umano -,
nuove sciagure si profileranno inevitabilmente all'orizzonte.
[Piacenza, 14 marzo-30 aprile 2020]