LETTERATURA E FILOSOFIA
di
Gabriele Scaramuzza
Il
senso della letteratura, il bisogno di filosofia.
Il
titolo dell’incontro a distanza svoltosi a Lucca con Antonio Delogu, coordinato
da Roberta Guccinelli, il 17 nov. 2022, sintetizza il denso e articolato libro
di Delogu Questioni di senso. Tra fenomenologia e letteratura; un libro
ricco di interessi e di partecipazione, come è tipico della personalità del suo
autore. L’ampia rassegna di testi letterari (un ampio spettro che privilegia
Pessoa e Borges, ma non dimentica altri grandi scrittori) è percorsa
dall’interrogazione circa il loro senso. In ciò si rivela animata da un’esigenza
di filosofia che quegli stessi testi sollecitano dal loro interno.
Nella
visione delle cose che accomuna Guccinelli, Delogu e me, la lettura di un testo
letterario non basta a sé: “dà da pensare”, suscita domande, sollecita
riflessioni circa il proprio senso; e per converso la filosofia (e la scienza,
nella fattispecie la psichiatria, come vedremo) esprime a proprio completamento
un bisogno di esteticità e di arte. Certo, intenzionalità diverse agiscono
nella letteratura e nella filosofia (la prima volta al significante, l’altra al
significato, tanto per semplificare), tuttavia non mancano analogie e
collaborazioni tra di esse.
A questo proposito, traggo in primo luogo ispirazione da Hegel.
Lo Hegel da manuale che ci si è imposto è lo Hegel della “gerarchia” delle
arti, in cui la musica è preceduta dalle arti visive ed è seguita dalle arti
della parola; dove poi, nell’ambito musicale, Hegel privilegia la musica
vocale, quasi alla musica strumentale mancasse quel compimento “spirituale” che
solo la parola può offrirle. Per questo l’arte tutta (e con lei la religione)
cederebbe alla fine il passo alla parola “pura” della filosofia, caratterizzata dall’autonomizzarsi
del significato rispetto a significante, dalla “morte” del significante nel
significato. Stando al luogo comune del
“logocentrismo” hegeliano, l’arte costituirebbe un grado inferiore di Vita
dello Spirito, da “superare” nelle forme in cui lo Spirito più compiutamente si
realizza.
Tutto questo non coglie nel segno, a mio avviso: la celeberrima Aufhebung
hegeliana “supera”, certo, ma al tempo stesso conserva, magari anzi “eleva” a
un diverso livello ciò che sembra negare. Una musicista a me nota (diplomata in
violoncello, ma anche laureata in filosofia) sembra da pensionata aver
abbandonato la musica per la riflessione filosofica, ma in lei mai la musica si
spegne, resta sempre presente (oltre che come attività privata) come tonalità
di fondo che colora la scrittura, e la vita. Aufgehoben è dunque qui la
musica; non estinta:
una complicità tra arte e filosofia si mantiene, malgrado tutto.
Di
tale complicità pur nella differenza troviamo una conferma nella celebre
lettera a Hofmannsthal di Husserl (il filosofo più citato da Delogu, accanto a
Merleau-Ponty, Heidegger; ma anche Sartre, Jankélévitch, Lévinas… Ma in questo
contesto non è da dimenticare Antonio Pigliaru, che tanto ha improntato di sé
la cultura sassarese): La visione fenomenologica
è strettamente affine alla visione estetica nell'arte "pura"; solo,
essa, certo, non è un vedere per godere esteticamente, ma piuttosto per
proseguire poi nella ricerca, per conoscere, per dar luogo a determinazioni scientifiche
di una nuova sfera (la sfera filosofica).
Una cosa ancora: l'artista, che "osserva" il
mondo per trarne ai suoi fini una "conoscenza" della natura e
dell'uomo, si comporta verso di esso in modo simile al fenomenologo. Dunque: non
come un osservatore naturalista e uno psicologo, non come un osservatore pratico degli uomini, quasi andasse in
cerca di cognizioni
naturalistiche o antropologiche. Per lui il mondo, mentre lo contempla, si fa
fenomeno, la sua esistenza gli è indifferente, esattamente come accade al
filosofo (nella critica della ragione). Solo che egli non ha di mira, come
quest'ultimo, di penetrare il "senso" del fenomeno del mondo e di
afferrarlo in concetti; bensì tende ad appropriarsene intuitivamente, per
raccogliere da ciò abbondanza di forme, materiali per creative formazioni
estetiche.
Senza
contare che il discorso filosofico non manca di una componente estetico-letteraria,
anche se per solito messa in subordine E la letteratura, prosa o poesia che
sia, offre molto materiale utile alle riflessioni filosofica e scientifica. In tanta
arte, contemporanea ma non solo, la stessa esperienza estetica ingloba la
riflessione su di sé, non mancano casi di arte sull’arte….
Tra le figure presenti in Questioni di senso di Antonio Delogu
assume un rilievo particolare quella di Eugenio Borgna. Di formazione medica,
psichiatra per vocazione e per professione - vuoi nella ricerca vuoi in una
lunga esperienza clinica: la psichiatria, scrive, è “la disciplina che è stata
la ragione della mia vita” - Borgna unisce alle sue competenze specifiche un
interesse raffinato per le arti, soprattutto la poesia, il cui mondo mostra di
padroneggiare. A
ciò fanno da pendant le sue nette inclinazioni fenomenologiche: “solo la
psichiatria fenomenologica – annota - ha saputo intravedere, e svelare, nei
suoi sottosuoli, e nei suoi abissi”, le “infinite articolazioni semantiche
della follia”.
I
suoi libri (esemplare in questo Il fiume della vita) nascono sotto il
segno di una psichiatria ingentilita dalle risonanze della grande letteratura.
Borgna attinge abbondantemente a quella forma di pensiero che è dell’arte: si
incontrano nelle sue pagine Eschilo, Sofocle, Giacomo Leopardi, Friedrich
Hölderlin, Fëdor Dostoevskij, Marina Cvetaeva, Rainer Maria Rilke, Marcel
Proust, André Gide, Franz Kafka, Robert Musil, Dietrich Bonhoeffer, Thomas
Mann, Giovanni Pascoli, Eugenio Montale, Vladimir Nabokov. Tra i musicisti
troviamo Robert Schuman, tra i pittori Edvard Munch. Tutto questo testimonia
della ricca cultura di Borgna, anche al di fuori del suo sapere
professionale.
Anche
nell’autobiografico Il fiume della vita letteratura e psichiatria si
fondono; è scritto nell’inconfondibile modo avvolgente, dettato dalla
musicalità che è dell’animo dell’autore. Le poesie, la letteratura cui rinvia
sono fonte di conoscenza, certo; ma insieme ispirano la poeticità che è nello
stile di Borgna. Egli sa, e lo dice, che la semplice acquisizione di un sapere
a sé stante non basta a costruire un medico, tanto meno uno psichiatra; la cui
formazione avviene nella pratica acquisita nel contatto con le persone, coi
malati in manicomio e in clinica per lui – non basta la pur imprescindibile
preparazione teorica. Ça va sans dire: “i libri letti e studiati non
bastano se non si accompagnano a gentilezza e a prudenza, a saggezza e a
sensibilità, a delicatezza e a dolcezza”.
Per
esercitare, e per “dire”, le esperienze psichiatriche è di grande aiuto la
letteratura, che sa scavare così a fondo nelle pieghe dei vissuti: il ricorso
ad essa è motivato da questo, non da specifiche “competenze letterarie”, che
Borgna confessa di non avere (e che, aggiungo, non sempre avvicinano alla grande
poesia). Tutto questo rende così eigentümlich la sua scrittura, e la sua
personalità. Spia del suo modo di vivere, di esercitare la professione, di
scrivere, sono termini ritornanti quali struggente, stremato, gentile,
indicibile, ferito, vertiginoso, fragile, stregato, febbrile… Non è esatto
sostenere che nei testi qui in causa “Borgna indossa i panni del critico
letterario” (come sostiene Mario Fortunato su “L’Espresso” del 22 luglio 2018).
La letteratura per Borgna non è oggetto di attenzione critico-letteraria, bensì
di una disamina che in essa ricerca una testimonianza, un riferimento, che
arricchisce un discorso che al fondo resta psichiatrico - restituendole con ciò
potenzialità che l’analisi storico-critica o filologica a torto lascia cadere.
Un
valore conoscitivo, e terapeutico, pur in senso peculiare, è assegnato alle
parole della letteratura, che in certo modo si affiancano alle cure
psichiatriche. A proposito del suo Sofocle, Antigone e la sua follia,
Borgna scrive: “Le mie emozioni, e quelle che vorrei riconoscere nelle
protagoniste e nei protagonisti della tragedia, saranno dunque le aree
tematiche delle mie riflessioni, e non quelle di matrice filologica, giuridica
e storica”.
Al mondo estetico-artistico Borgna dedica un’attenzione
tutt’altro che estetistica: “La Psichiatria ha come sua ricerca tematica gli
sconfinati orizzonti della interiorità, della soggettività, che sono anche
quelli della grande letteratura, e della grande poesia, che aiutano la
psichiatria in questa ricerca”. L’arte della parola non è solo un campo di
conferma o di verifica di certezze acquisite altrove, ma anche un ambito di scoperta
in proprio, e di espressione, di verità insondabili, che non è semplice mettere
in luce in altri modi; è chiamata a testimone di strati del vissuto cui su
altri piani non si saprebbe dar voce. La letteratura ha insurrogabile portata
veritativa, aiuta a capire meglio e a far emergere realtà che altrimenti
resterebbero misconosciute. In un passo tratto da La solitudine dell’anima,
che riprende anche Delogu, leggiamo: “non sarebbe possibile cogliere le radici
di esperienze emozionali come quella della solitudine e del silenzio senza le
grandi intuizioni poetiche”. Il mondo artistico, anche musicale e
cinematografico, per Borgna costituisce un ambito affine, e una fonte di
ispirazione e di conoscenza, cui attingere, per allargare le esperienze
cliniche.
Il modo di procedere di Borgna è squisitamente fenomenologico, e
ispirato alla psichiatria fenomenologica di Minkowski e di Binswanger. Se, come
ha scritto Moritz Geiger, “scorgere le differenze è la passione della
fenomenologia”, caratterizzano. È attento alle differenze, tuttavia è anche
sensibile al tessuto di relazioni che segnano lo sfumare dell’uno nell’altro
dei temi in gioco. Importante è cogliere la separazione, ma altrettanto lo è la
sensibilità per le zone d’ombra, in cui le cose sconfinano, sfumano l’una
nell’altra. Così malattia e dolore, silenzi e parole, emozioni e passioni,
normalità e follia, ansie e depressioni… sono da cogliere nelle loro
peculiarità, ma anche nei loro intrecci.
Affronta
il tema della nostalgia nelle sue radici etimologiche e storico-culturali (tra
letterarie e psichiatriche), mostrando una sensibilità squisitamente
fenomenologica per le sfumature, che insieme ne collegano e separano i diversi
aspetti; talché esso ci viene restituito in tutta la sua vivente complessità: differenza,
relazione, complessità sono termini chiave della nostra tradizione
fenomenologica, appunto.
Della
fine sensibilità di Eugenio Borgna testimoniano anche le scelte lessicali e il
delicato ritmo del suo discorso. Quasi che la nostalgia non ne fosse solo
l’oggetto, ma anche la sostanza che lo intride, l’atmosfera che si respira
leggendolo. La nostalgia della nostalgia (viva soprattutto nei tempi in cui la
vita si fa a poco a poco più evanescente) sembra anzi il vero tema delle pagine
di Borgna, le percorre da cima a fondo. Perché la nostalgia è una dimensione
essenziale dell’esistere, se cade (come purtroppo non di rado avviene) è il
senso stesso della vita a risentirne. “Non si può vivere senza attesa, e senza
speranza, ma anche senza nostalgia”. “Non dovremmo vivere senza una continua
riflessione sulla storia della nostra vita, sul passato che la costituisce, e
che la nostalgia fa rinascere, sulle cose che potevano esser fatte, e non lo
sono state, sulle occasioni perdute, sulle cose che potremmo ancora fare, e
infine sulle ragioni delle nostre nostalgie e dei nostri rimpianti”. Luogo
deputato di una simile riflessione sono, ed esemplarmente, le autobiografie.
“Vorrei
augurarmi che questo mio discorso sulla nostalgia riesca a testimoniare i vasti
orizzonti tematici, e le profonde risonanze emozionali ed esistenziali, che
essa ridesta in noi: negli abissi della nostra interiorità. Per solito
dimenticata, e banalizzata, la nostalgia ci aiuta a vivere”, a rimuovere “la
ruggine lasciata dal trascorrere febbrile e fatale degli anni”. Ha un valore
terapeutico, ripeto: “questo mio cammino ha risonanze che vorrei dire nutrite
di valori che si rispecchiano nei vasti territori della cura che, in
psichiatria, non può mai fare a meno di ascolto e di dialogo”.
Della scrittura di Eugenio Borgna, infine, colpiscono
innanzitutto i modi, il ritmo delicato, avvolgente, le scelte lessicali, le
tonalità affettive. Quasi fosse, lo scrivere, una continuazione con altri mezzi
della terapia cui l’autore, da psichiatra, ha dedicato tutta la vita. Qualcuno,
non toccato in prima persona dai mali dell’anima, ne trarrà un incitamento alla
partecipazione, alla comprensione verso gli altri, a una disponibilità che sta
diventando sempre più rara. L’animo di un lettore che sia stato anche solo
sfiorato dal disagio psichico e dal dolore ne uscirà confortato, troverà
conferme del proprio vissuto, e anche delle proprie attese. Chi dal disagio
psichico è stato colpito nella propria carne vedrà riconosciute, con sollievo,
le proprie inquietudini.
Su più persone di quanto si sospetti la scrittura di Borgna avrà
comunque un effetto terapeutico, quasi il lettore fosse lui stesso sottoposto,
leggendo, alla cura che Borgna ha sempre perseguito come proprio ideale.
“Dovremmo esser consapevoli della enorme responsabilità che le parole hanno in
vita”, Borgna lo sa bene. Se le parole possono avere un uso curativo, questo
vale anche per le parole dei saggi di Borgna, per noi che le leggiamo, con
intima adesione. “Al di là di ogni altra possibile motivazione, anche questo
libro ha come suo fine ultimo quello di dilatare gli spazi alla comprensione
della sofferenza umana, alle esigenze di solidarietà e di comunione verso le
persone che stanno male, e che hanno bisogno di essere riconosciute nella loro
fragilità e nella loro solitudine, nelle loro nostalgie e nelle loro speranze,
nel loro desiderio di ascolto e di vicinanza umana”. E questo non riguarda solo
persone malate; non meno riguarda persone considerate “normali”. Lo stesso vale per la
follia, cui Borgna ha dedicato il suo ultimo libro: La follia che è anche in noi.
I temi della morte e del suicidio, della malinconia e
dell’angoscia sono esemplificati da Antonia Pozzi, cui Borgna ha dedicato non
pochi toccanti saggi. Scrive: “nella adolescenza Antonia Pozzi è ferita da
paure e da angosce, da esperienze interiori, che direi sconvolgenti, e che ne
dicono la sensibilità e la fragilità, il male di vivere e la radente
disposizione a guardare dentro di sé”. “La fragilità e la smarrita stanchezza
di vivere, la sofferenza e la nostalgia della morte, la malinconia come forma
di vita, sono state le premesse” ai suoi versi. Le sue poesie sono “scandite da
una malinconia intrecciata ad una smarrita e temeraria nostalgia della morte”,
e per questo associate all’angoscia.
Le
amicizie femminili hanno un posto significativo in Sull’amicizia, e
Antonia Pozzi è considerata da questo punto di vista. Sono riprese due sue poesie
emblematiche: Sorelle, a voi non dispiace (1930), e La porta che si
chiude (1931); in entrambe, ma soprattutto nell’ultima, si affaccia il
presentimento di morte che accompagna la breve vita della poetessa: “In due
poesie di Antonia Pozzi si scorgono le ardenti emblematiche tracce di una
amicizia adolescenziale, con le sue luci e le sue penombre, anche se
accompagnate da un febbrile desiderio di morire, che l’ha portata al suicidio,
a soli ventisei anni”.