MEMORIA
di Annalina Molteni
Annalina Molteni
Destini
di donne.
Ho
cominciato a leggere Destini di donne nella Germania nazionalsocialista dalla Seconda Parte, che raccoglie le
vicende personali di sette donne (casuale la scelta del numero?) bollate come asoziale Fraulein. Tranne una polacca, le
altre sono tedesche e, secondo il credo nazista, sarebbero dalla parte giusta
della storia, se non fosse per il comportamento etichettato come deviante, che
le confina fuori della Volksgemeinschaft,
la Comunità di popolo che riconosce come primato assoluto l’essere
tedeschi, tautologicamente diversi in
quanto superiori agli altri. Herrenmenschen i tedeschi, uomini padroni, e
Untermenschen gli altri, sottospecie umana, in particolar modo gli ebrei e i
popoli dell’Europa orientale, precisa l’autore.
Un
granello di sabbia che inceppa il perfetto ingranaggio che in pochi anni ha precipitato
in una condizione subalterna, di totale asservimento all’uomo, la donna tedesca
che pure, dopo il contributo fornito durante la Prima Guerra Mondiale quando
aveva sostituito gli uomini al fronte nelle fabbriche e negli uffici, oltre che
farsi carico interamente del sostentamento e della cura della famiglia, nel ’19
aveva ottenuto il diritto di voto. Die
Welt der Frau ist der Mann, il mondo della donna è l’uomo ripeteva
ossessivamente Hitler che nel 1934, al congresso delle donne nazionalsocialiste
affermava: “Il termine emancipazione
delle donne è una pura invenzione dell’intelletto ebraico e il senso è
impregnato dello stesso spirito (…)
la donna tedesca non ha bisogno in
questi tempi veramente buoni di emanciparsi (…) non troviamo giusto se
la donna s’immischia in settori che spettano agli uomini, bensì troviamo
naturale che i mondi degli uomini e delle donne rimangano separati”.
Non
sono eroine, quelle raccontate da De Lucia. Sono povere ragazze nate in
famiglie indigenti e disgregate, spesso inesistenti, bambine nella miseria
della Repubblica di Weimar, adolescenti e poi giovani donne nel Terzo Reich,
spesso totalmente prive della consapevolezza di quanto le circonda, che
acquisiscono soltanto a posteriori, chiuse in un bordello per le SS o internate
in un campo di lavoro con un triangolo nero cucito sulla divisa. Escluse come una minaccia per i valori delle sane
famiglie tedesche, come un bubbone infetto da escidere, per alcune di
queste donne la condanna continuerà anche dopo la caduta del Reich. Scrive
infatti De Lucia: “Alla fine della guerra
i prigionieri politici divennero eroi nella DDR e gli ebrei in Israele. In Germania
occidentale si assisteva ad un’amnesia generale, un pavido tentativo di
rimozione dei crimini perpetrati durante il regime nazionalsocialista. I
procedimenti di risarcimento non riguardavano le asoziale Frauen, che per la
legislazione postbellica rimanevano tali”.
Accusate
di tradimento, vittime di delazioni che a volte hanno origine all’interno delle
loro stesse famiglie, ree di aver fraternizzato, spesso in un incontro di
solitudini disperate, con il lavoratore coatto, il polacco nella vicenda di
Elisabeth [1] o il francese in quella
di Maria Etzer [2], appartenenti alla
categoria degli Untermenschen, che pagano
con la vita il peccato di aver alzato lo sguardo su una donna tedesca.
C’è
nel libro una fotografia che mostra l’esecuzione di uno di questi lavoratori
coatti: un corpo pende dalla forca improvvisata su una betulla davanti a un gruppo
di civili, tre donne sono in prima fila. Una tiene una mano all’altezza della
guancia destra e forse si sta coprendo gli occhi, un’altra, di trequarti,
abbraccia un ragazzino, si suppone il figlio, quella al centro guarda invece
verso l’impiccato. Uno scialle nero le avvolge la testa incorniciandone il viso
immobile, che non esprime nulla se non la calma indifferente della Moira che assiste
al compiersi di un destino ineluttabile.
È
banale che di fronte a questa immagine vengano in mente non solo le tre virtù della
donna tedesca della tradizione: Kinder,
Küche, Kirche, quest’ultima in parte sostituita dal paganesimo necrofilo
di Himmler, ma anche una strofa dell’inno nazionale che De Lucia riporta nella
Prima Parte, dedicata alla condizione generale della donna nel Reich: “Donne tedesche, fedeltà tedesca, vino
tedesco e canto tedesco devono mantenere nel mondo la loro vecchia buona fama”.
Come
le asoziale Frauen, anche loro
vittime di uno stato che le relega al ruolo, esaltato da una propaganda
invasiva e fuorviante, di custodi di una razza pura. Femmine procreatrici, come
giumente condotte alla monta dopo che a tavolino qualcuno ha scelto per loro
l’incrocio genotipicamente e fenotipicamente migliore, la cui fertilità è
premiata con una medaglia al valore, tale quale un eroe di guerra: Mutterkreuz, di bronzo per quattro
figli, d’argento per sei o sette, d’oro se la prole è superiore a otto. E il
pubblico s’insinua nel privato fino a dettare i tempi non solo
dell’accoppiamento organizzando squallidi alberghi nei pressi dei centri di
smistamento per il fronte, in cui i soldati possano incontrare le mogli con lo
scopo principale di fecondarle, ma addirittura costruendo un decalogo dei
rapporti madre-figlio. Nel manuale La
donna tedesca e il suo primo figlio, la pediatra Johanna Haares asserisce
che “una relazione d’affetti tra madre e figlio
non era auspicabile (…) perché avrebbe potenziato il dolore, qualora il ragazzo fosse caduto sul
fronte di guerra”.
Mostruosità,
impossibili da comprendere, pur andando a cercarne tutte le motivazioni
rintracciabili negli avvenimenti storici che precedettero l’ascesa al potere di
Hitler, si fronteggiano, e affiancano, nelle pagine di De Lucia fino alla
storia di Zofia Posmysz [3], che chiude la narrazione
e che meriterebbe un discorso a parte, perché qui la prospettiva si allarga su
altre vicende ed altri protagonisti: la violinista Alma Rosé, nipote di Mahler,
che diresse l’orchestra femminile ad Auschwitz, la Kapo Anneliese Franz, l’ufficiale polacco Tadeusz Paulone-Lisowski,
che organizzò una rete di resistenza nel campo e la stessa Zofia che diventerà
una scrittrice e dal cui romanzo, Pasazerka,
il compositore Mieczyslaw Weinberg trarrà un’opera rappresentata per la prima
volta al Festival di Bregenz nel 2010 e il regista Andrej Munk un film (1963).
Riferendosi
a quest’ultima delle sette storie, nella sua colta prefazione Rosalba Maletta
scrive che “con sorvegliato lirismo De
Lucia fa risuonare la natura, sa risvegliare le consonanze di un animo giovane,
desideroso di libertà ed affetti all’interno del campo di sterminio più
atrocemente noto al mondo”. Un barlume di luce, forse l’unico, in un libro che ho chiuso riportandomi alla
mente Shemà di Primo Levi, parole dedicate
ad altre vittime, molte delle quali anche loro tedesche: “Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome/ senza
più forza di ricordare/vuoti gli occhi e freddo il grembo/come una rana
d’inverno”. Due soli aggettivi permessi nella
rarefazione di parole che una tragedia impone: vuoti e freddo.
La copertina del libro
Vincenzo
De Lucia
Destini di donne
nella Germania Nazionalzocialista
Prefazione
di Rosalba Maletta
Spring
Edizioni 2020
Pagg
.272, € 16,00
Note
1. I compagni di scuola mi
gridavano sporca polacca, pag.155
2. Pensieri malevoli e sentimenti di vendetta
scatenano la delazione:
il
calvario di Maria Etzer, pag. 173
3. Un sottile pensiero che sa di te: il Cristo di
Auschwitz, pag.233