SCRITTORI E CITTÀ
di Alida Airaghi
Zurigo sotto la neve
Zurigo sotto la neve |
Zurigo città che ho amato più di ogni altra.
Seduta
al tavolo del salotto – legno scuro, disegno a scacchiera appena accennato
sulla superficie – osservo la dracena dal tronco scorticato che è di nuovo
arrivata, dopo l’ultima, recente potatura, a toccare il soffitto con le foglie.
Altre piante, le mie piante, verdi e folte, traspirano ossigeno domestico
nell’angolo della stanza, una loggetta fatta a veranda (“Erker”, la chiamano
qui), luminosissima.
Scrivo
da una casa che sto per lasciare.
Zypressenstrasse
era stata scelta perché sfocia, da un lato, nei pressi della scuola italiana
frequentata dalla nostra bambina più grande; dall’altra parte finisce, come fa
supporre il suo nome, di fronte al cimitero di cui, dalle nostre finestre, si
intravedono muri e cancelli: Friedhof Sihlfeld. Dire prato della pace è cosa
diversa che dire camposanto. Dà l’impressione di approdo riposante, di meritata
ricompensa dopo tanto faticoso arrancare. Tutto quel verde da parco privato di
residenza reale, lo stagno con le anatre, i vialetti ghiaiosi, gli scoiattoli,
ci avevano convinto dell’innocenza pacifica del luogo, del suo benefico
offrirsi a tranquille passeggiate domenicali. Ci capitò più volte di camminare
tra le cappelle di famiglia, in compagnia di qualche raro amico venuto
dall’Italia; avevamo scoperto da poco, con commozione ma anche con impaurito
imbarazzo, l’esistenza di una piccola figura femminile in roccia grigia,
recante sul piedistallo una profetica parola in italiano: vengo… In tanti hanno
scelto di riposare in questa città. Joyce, Jung, Mann i più famosi, quasi da
organizzare un giro turistico per andare a trovarli.
Zypressenstrasse
Zypressenstrasse.
Non avevamo sentito il nome della nostra strada come un’oscura minaccia. Semmai
ci infastidiva che iniziasse con l’ultima lettera dell’alfabeto, la Z, così
lontana dall’ariosità lucente dei nostri nomi in A. Ma per Z iniziava anche il
nome della città in cui ci era capitato di vivere: Zurigo. Nome omen.
Zypressen-Zurigo-Z; la fine di qualcosa, anche se per noi era stato l’inizio di
tutto.
È
inverno, sta per chiudersi un anno difficile. La neve ha coperto le strade quel
tanto che basta a confondere le tracce, a rendere insicuri i passi, offrendo
atmosfera natalizia a buon mercato. Il parco sotto casa assume contorni
fiabeschi, galleggia inconsistente e irreale. Silenzioso come sempre, privo
anche dei pochi bambini che durante la bella stagione lo tempestano di urla
roche: ma oggi è la neve che mette la sordina a qualsiasi rumore, anche al
fiato che può succedere esca dalle labbra con la consistenza di un sospiro. I
passi sono come assorbiti, i gesti bloccati. Bullingerhof, si chiama questo
parco. Corte severa come il signor Bullinger cui è dedicata, pastore e teologo
riformista, successore di Zwingli. È molto esteso, con un prato centrale
vastissimo e gli alberi centenari tutt’intorno, e montagnette artificiali, e
fontane secche, e altalene immobili.
Di
mattina presto (da tanto non riesco a dormire oltre le quattro), il dolore si
fa sentire meno, anche il rancore sparisce. Non c’è più né bene né male, non
esiste passione, di mattina presto. Mi sembra possa esserci spazio solo per lo
stupore: che il tempo continui a scorrere, indifferente a noi, che abbia il
coraggio di riproporsi uguale a chi non c’è più, a chi tra poco non ci sarà.
Bullingerhof park
Ecco
una nuova giornata, un nuovo Natale, un nuovo Capodanno. Due anni fa, ricordo,
avevamo aspettato la mezzanotte del 31 mangiando pandoro (la piccola era
davvero piccola, voleva ballare una danza brasiliana allora di moda),
accendendo e giostrando innocui bengala. Nell’infantile desiderio di comunicare
e sfogare la propria felicità, la bambina più grande aveva spalancato le
finestre della sala, e si era messa a urlare: «Viele Wünsche an Alles! Schönes
neues Jahr!», nel suo tedesco da italiana, a battere le mani verso le altre
finestre buie, vocetta squillante nel silenzio più assoluto di una festa
ignorata. Ci aveva preso, a noi genitori, un’eccitazione puerile e quasi
spaventata, all’audacia di lei, e ci eravamo messi a ballare, spumeggianti,
irrecuperabili al sonno altrui. Due anni fa, un secolo: ero felice senza
saperlo, come accade quasi a tutti.
L’anno
che verrà sarà l’anno dell’addio. Sto per lasciare Zurigo, città che ho amato
più di ogni altra. Si amano i posti che ci assomigliano. E Zurigo è una città
che si sorveglia, come me, ha paura di abbandonarsi: che qualcuno le dica che
le vuole bene, magari che è bella. È capace solo di una malinconia accorata,
senza ribellione. Sembra rassegnata a convivere col suo lago grigio, calmo e
profondo, sepolcro di chissà quali segreti. Ha due fiumi, strade in salita,
campanili in coppia e tram bianchi e azzurri, rumorosi, sferraglianti. Numerati
dal 2 al 15: manca il numero 1, quasi ad evitare la responsabilità di un avvio.
Abbandonare
una città significa abituare i propri pensieri a orientarsi con una nuova
bussola, cambiare punti di riferimento. Ci vediamo alla stazione… Ti
raccomando, puntuale di fronte alla Posta! Quale stazione, ora, quale posta?
Vuole dire muoversi circondati da un’aria diversa, cercare altri sfondi,
scenari sconosciuti per i propri gesti. Che forse rimarranno uguali, ma
cambieranno proprio perché situati altrove. Zypressenstrasse certo non patirà
la mia assenza, non mi ricorderà. Ma quali altri occhi la vedranno esattamente
come l’ho vista io, chi le rivolgerà i miei omaggi di pensiero? Forse le
mancherò senza che lei lo sappia. Da questa stanza, un’altra donna, un altro
uomo, guarderanno appena fatto giorno i primi tram fermarsi sotto le finestre,
raccogliere i pochi passeggeri, ripartire indifferenti. Ma non saranno me.
La tomba di Joyce
Sto
per lasciare questo appartamento. Regalerò le mie piante, la mia dracena. Darò
via quasi tutti i mobili, la camera da letto dove abbiamo concepito Silvia, il
divanetto rosso complice di chilometriche telefonate, le librerie che ho
montato da sola. Porterò via questo tavolo, il pianoforte, tre quadri. Come
quando se ne va una persona a cui si è voluto molto bene, allora bisogna
decidersi a buttare le sue cose, a eliminare i suoi vestiti. Aprire il comò
delle scarpe, infilare in un sacco per la Croce Rossa gli zoccoli, i mocassini,
gli stivaletti comodi per l’inverno. Poi è il turno del cassetto della
biancheria, e quindi via tutto nel bidone dell’immondizia, calzini celesti e
bordò, camicie a righe, canottiere vecchiotte. Poi le giacche, i maglioni, meno
due o tre che si piegano e conservano in una valigia, insieme con l’ultimo
pigiama indossato, con le cravatte più amate.
Le
assenze cambiano le case, cambiano la vita. È giusto decidere di andarsene,
anche se così si allontanano persino le ombre, che qui continuavano a muoversi,
a girare, a esistere. Quanto silenzio, dopo. Quanto far finta di niente,
telefono che non squilla più, amici spariti. E cattiveria improvvisa, chissà da
quanto covata, che scoppia come un bubbone: sorrisi pronti a ferire, parole
pronte a marchiare.
Meglio la neve, il gelo, non esserci. Mi vesto veloce, guanti, sciarpa. Il confine tra notte e giorno rimane incerto, non è più buio fitto, ma il chiarore stenta ancora a imporsi. Scendo perché la strada sia mia, la neve conservi memoria del mio passaggio. Vorrei lasciare tracce, segnali di me che sparirò. Come sul foglio le rime: una qua, una là, a intrecciare ricami, echi incerti del già detto.
(1992)