Referendum prossimo venturo: Il niente tra
il sì e il no
di Paolo Maria Di
Stefano
Le Costituzioni,
tutte, sono o dovrebbero essere la cornice entro la quale si muove l’attività
del legislatore, e quindi non solo il disegno dello Stato ma anche la pratica
attuazione della sua vita quotidiana, a sua volta cesellata dalla attività del
Parlamento e dalla produzione di ogni singola legge. E sono o dovrebbero essere
anche l’espressione della cultura di un Paese e della sua capacità di
proiettarsi nel futuro. Dice: ma esistono Paesi che non hanno una Costituzione
scritta… Significa soltanto che la cultura di quei Paesi e dunque della maggioranza
della popolazione è tale da rendere inutile la formalizzazione del suo modo di
essere. Che è un segno inequivocabile di civiltà evoluta.
Se volete, si può sostenere che in quei casi la Costituzione
è iscritta nel DNA dei cittadini e quindi costituisce un naturale ed inevitabile
punto di riferimento. E magari anche che “metterla per scritto” potrebbe aprire
la strada al rischio delle interpretazioni e quindi dei conflitti e delle
incertezze. Da noi non è così: il nostro è un DNA anarchico quando non assolutamente
incolto, e dunque i limiti alla libertà individuale devono essere descritti
minuziosamente, non a difesa della libertà, ma ad evitare il disordine e
l’anarchia. Il che produce un insieme di leggi sovrappopolato e, sopra tutto,
di difficilissima interpretazione: il sistema stabilisce tutto e il contrario
di tutto, e per ciascuna legge esiste il suo esatto contrario, con grande gioia
di avvocati e legulei in genere. Non parliamo, poi, del combinato disposto…
Non a caso pare che noi si sia il Paese più ricco di norme.
Una cosa è certa: il tormentone circa le modifiche alla
Costituzione è in pieno crescendo, e non sembra trattarsi di quel finale ad
effetto di cui più di un compositore ha fatto uso per creare un clima propizio
all’applauso (quando non all’ovazione) e dunque a “comporre il successo” dell’opera.
Piuttosto, pare preludio -rumoroso anziché no- ad un poema sinfonico anche
piuttosto prolisso e stonato e inconcludente destinato a durare. Con in più
quel fascino delle “parole a piede libero” che seduce tutti noi, quale ne sia
la materia.
E il “perché sì” e il “perché no” la fanno da padroni.
La caratteristica generale del dibattito in corso è la
assoluta settorialità degli argomenti, mascherati da temi di base a
giustificazione del consenso o del dissenso, e fior di nomi della politica,
dell’economia, del giornalismo si sono spesi a favore dell’una e dell’altra
tesi. E proprio perché strettamente di settore, ciascuno sembra racchiudere una
sua verità non contestabile. Che è, forse, il primo problema di questo
dibattito: la conferma della abitudine della Politica italiana (e, ancora una
volta, non solo) a dedicarsi a mettere pezze più o meno colorate a questioni
contingenti, senza una sia pur minima pianificazione di un quadro generale al
quale ispirarsi, e senza una attenta verifica della sua portata.
Ma non è questo il solo problema.
Il prodotto “norma” è
in genere inadeguato a raggiungere l’obbiettivo per il quale è nato, e questo
per una serie di ragioni sempre più puntualizzate, a loro volta radici delle
eccezioni, dei distinguo, dei “sì, ma…”.
E l’inefficacia delle norme non è affatto il portato del
bicameralismo perfetto, come dalle parti di quelli del “sì” si sostiene, bensì
della incapacità del legislatore a livello individuale e dunque anche a livello
di “insieme”. Dunque, della inefficienza della “produzione”: il prodotto
“norma” va fabbricato da specialisti, e non da dilettanti più o meno evoluti,
ma pur sempre dilettanti e improvvisatori. E lo scambio che le vede oggetto va
a sua volta gestito da “comunicatori” e “distributori” professionalmente in
grado di farlo.
I padri costituenti nell’elaborare la Costituzione ancora
vigente avevano immaginato un sistema bicamerale per consentire almeno una
doppia lettura delle norme al fine di eliminare o ridurre il rischio di errori.
Ed è forse il caso di ricordare che si trattava di persone -i padri
costituenti- in genere dotati di un livello elevato di cultura: alla
elaborazione della Costituzione italiana hanno partecipato fior di giuristi, di
economisti, di professionisti profondi conoscitori del settore di competenza.
Forse proprio per questo, perché espressione di una cultura
elevata, non hanno previsto che a “produrre” le leggi fossero soltanto
specialisti, preferendo che l’esame e la discussione avessero luogo tra persone
diverse, dotate di culture a loro volta diverse e complementari.
Se questo è vero, allora la soluzione sta non nel lasciar
fare le leggi ad una sola delle Camere, ma nel predisporre tutto quanto serve
per avere a disposizione almeno “in produzione” personale altamente
specializzato.
Che potrebbe essere la diversa natura del Senato: una camera
di consulenti giuridici, di studiosi del diritto, di esperti di normazione in
grado di presentare all’altra Camera progetti di norme assolutamente credibili,
corredati delle indispensabili interpretazioni autentiche.
Obbiezione: non si può fare. Perché? Perché no.
Chi lo dice, è un Parlamento che dovrebbe ammettere di non
saper produrre leggi. Ed è questo, che non si può fare: quale Politico
ammetterebbe di non saper fare Politica?
Perché la Politica si esprime attraverso le leggi…
Ed è proprio il non saper lavorare che crea quei tempi
lunghi e i relativi costi ai quali si attribuiscono tutti i mali del sistema, e
a loro volta si assumono come il male supremo della economia e della stabilità
in Italia.
Prova ne è -a mio parere- anche questa proposta di nuova
Costituzione, improntata alle pezze a colori e priva di soluzioni realmente
strutturali, attenta soltanto ai risultati elettorali, tanto che dalla parte
dei sostenitori del “no” l’obbiettivo primo è di “mandare a casa il Governo”,
in genere senza prospettare alternative fondate e credibili.
Il resto, per quanto possa esser ritenuto importante, al
confronto è paccottiglia.
Basta questo -e quanto non detto- per respingere la proposta
del Governo?
Il sistema è certamente malato di inefficienza, oltre che di
disonestà, e il dare voto contrario al referendum senza dubbio significa
lasciare le cose come stanno. E che non stiano bene è sotto gli occhi di tutti.
Dal momento che noi italiani sembriamo mancare nel DNA del cromosoma della
pianificazione e di quello del disegno del futuro; dal momento che questo
significa cercar di provvedere giorno per giorno ai problemi che si presentano;
dal momento che i sostenitori del sì non offrono argomenti convincenti più che
tanto, la sola ragione per dare un voto
positivo al quesito referendario sembra rimasta quella che vale comunque la pena
di dare un segnale, rischioso ma concreto: siamo disponibili a cambiare. Ai
problemi che seguiranno daremo soluzione volta per volta. Forse è troppo poco,
ma è quanto la Politica -almeno quella degli ultimi trenta anni- ci ha
lasciato. Che tradotto significa: chi sceglie il no, forse si affida alla
capacità dei Politici di dare finalmente attuazione ad una Costituzione -la
nostra- mai compiutamente attuata; chi sceglie di votare sì, spera forse che a
forza di pezze a colori si giunga ad un vestito decente non ostante tutto. In
comune, il pensiero, il desiderio che i Politici siano dotati della
professionalità necessaria.