LIBRI
FILIPPO RAVIZZA. LA
COSCIENZA DEL TEMPO
di Sebastiano Aglieco
Filippo Ravizza e Gianmarco Gaspari nel cortile di Casa Manzoni a Milano |
Gianmarco Gaspari, nell’introduzione al libro, fa
spesso riferimento a una poesia di stampo civile. Il “civile” è senz’altro da
intendersi in riferimento a quella branca del romanticismo che si fece carico
della coscienza e della liberazione dei popoli, quindi di stampo manzoniano per
intenderci, prima di quella svolta che portava lo “Sturm und drang” verso il
declino esistenzialista, e poi, di corsa, alle estreme conseguenze del
novecento - simbolismo etc… -.
Queste
considerazioni valgono, in realtà, per tutta l’opera di Filippo Ravizza,
attraversata da un dettato febbrile, a voce alta, che ha il suono di un vento
di lago, come mi è capitato di dire in altre occasioni, e che portano questa
poesia verso il territorio di un dettato “altisonante”, da pronunciare a voce
spiegata, proprio come le vele di Ulisse verso le Colonne d’Ercole.
Ed ecco
l’altro risvolto della medaglia: abbiamo a che fare, appunto, con una parola
che, cosciente dell’assolutezza del concetto di Tempo e di Storia per le sorti
del genere umano - Fatti non foste a viver come bruti… - ce ne mostra, col
gesto di rivoltamento di una maschera, l’efferatezza e la tragicità comica, il
viaggio verso l’estremo baratro. Ogni cosa - vicenda, azione, pensiero - se da
una parte proclama l’abnormità genetica della specie umana, la grandezza,
dall’altra riporta tutto il senso della nostra Storia verso la voragine del non
senso, di un Nulla che abita le cose.
Un momento della presentazione del libro da sin. Aglieco, Gaspari, Ravizza, Fantato |
La poesia di
Filippo Ravizza, in modo più evidente in questo libro, si dispiega, dunque,
nella tensione feconda di due forze. E potremmo pensare a due raggruppamenti
estremi di pensiero e di poetica per ben intenderla; da una parte tutte quelle
opere che esprimono una idealità di intenti, di un miglior mondo possibile:
l’Utopia di Tommaso Moro, La città del sole di Tommaso Campanella, Il contratto
sociale, di Jean Jacques Rousseau, il Socialismo Utopista, Hegel… Dante
Alighieri, Ugo Foscolo. Dall’altra parte le opere della deriva, della perdita
di una idealità di pensiero, premonitrici di una “distopia”, piuttosto che di una
“utopia”: Holderlin, per esempio, e la sua poetica dell’erranza, Rimbaud,
Heidegger.
https://miolive.files.wordpress.com/2017/06/18921921_10156251271453206_4578469582259300057_n1.jpg?w=300&h=225Probabilmente,
però, le radici sono assai più profonde, e risalgono a un fatalismo di stampo
greco e al nichilismo del Qoelet biblico.
Mi è
necessario ricorrere a questi riferimenti alti per sottolineare il fatto che la
poesia di Ravizza sembra pendere da un sottile filo sospeso nel vuoto
caricandosi di due necessità: ribadire l’assenza che abita tutte le azioni
umane - persino la logica interna di tutti i sistemi biologici - proclamare la
necessità del “contratto sociale”, dell’essere un “noi tutti” piuttosto che un
io. Ricorrenza
importante da un libro all’altro, per chi conosca l’opera di Ravizza, è la
sparizione di un’idea di mitteleuropeismo; un vagare, esule, da una capitale
all’altra, alla ricerca di qualcosa che è andato perduto e disperso. Così,
l’osservazione dei cambiamenti e dei guasti, provoca in lui il desiderio di un
ritorno verso la Patria ideale di una lingua vergine: l’antica Toscana dove
nacque la nostra idealità linguistica e culturale. Filosofia
dello svelamento, dell’abbassamento della maschera, fino alla rivelazione della
vera essenza delle cose: un totale Nulla. Si tratta di una feconda contraddizione
tra l’Essere come Apparire - l’Essere inteso come destino collettivo - e
l’Apparire inteso come “Ipocrisia” delle forme dell’esistere.
Alla base di
tutto, insomma, c’è sempre Ananke, la Necessità, l’ineluttabilità, il
precipitare di tutte le cose:
tutto è uno
scatto
meccanico
uno stare avanti
slittare
avanti
[p. 63]
Ecco: se le
nostre considerazioni si fermassero qui, potremmo, e a buona ragione,
considerare l’opera di Ravizza come una splendente realizzazione da sistemare
nella casa di un nichilismo tutto novecentesco, restio a ogni desiderio di
salvezza. Così non è.
La copertina del libro |
Ciò che
rende questo libro palpitante e bellissimo, è la commozione, in senso
etimologico; la capacità, cioè, di condurre il lettore verso una riflessione
assai poco astratta sul senso della vita e del nostro destino. “Dunque ora tu
siedi, abbi pace, / calma la tempesta del dolore, / resta nell’alba e nella
quiete / mio lettore, mio fratello; come / paglia bruceremo in pochi istanti, /
nulla nel nulla”, p. 18.
Così
leggiamo di domande incessanti, a volte lasciate senza risposta, sospese in un balbettamento, in una reiterazione singhiozzante che va a capo, che imita la balbuzie
infantile del respiro - credo ci sia una forte potenzialità teatrale nell’opera
di Ravizza, un monologare a voce alta, come del Poeta al quale non viene più
riconosciuta alcuna funzione sociale, costretto a parlare alle stelle, dalla
cima di una montagna - . Il poeta
canta singhiozzando, rivangando le sorti di un’alta idealità che non si è
realizzata - una notevole suggestione, leggendo questo libro, mi è venuta
ascoltando l’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven, quell’Inno alla
gioia intriso del sentimento di una speranza tradita, musica che si fa gesto,
azione -.
La bellezza perduta per sempre
“Sì, certo, ora qualcuno mi
ascolta, legge,
ma nella lucidità degli occhi
infligge
dolore doverti dire quello che
sto
per dire amico mio gettato nel
vento
e dal destino già provato e
vinto,
amico mio, mia sorte, e ora
ingenuo
passato, futuro certo: ascolta,
ascoltami
allora tu: adesso qualcuno mi
legge sì,
ma la bellezza di essere un
giovane
poeta, quella è perduta, perduta
per sempre”.
Così dicevo a me di me così
cantavo la perdita di me
con me chino sulla carta,
in mano la matita come una
vita giocata con la spada e
la nera ombra della mina,
parola parola che cammina
e dà cuore e forza e alza
in volo il nulla..
[p. 71]
Ravizza è
capace di consegnarci di sé un’immagine umilissima e vera: “figuretta di
seconda fila io / seduto là nell’angolo più / lontano della stanza io / che ora
scrivo qui e chiedo / che senso abbia nascere e / crescere ed essere buoni / e
non fare mai il male e / invecchiare e morire così / soli sempre più soli che
mai / da soli nonostante l’amore / che pure c’è stato ma non / serve non
soccorre non / paga non consola”, p. 79.
Mi sembrano
tra i versi più belli pubblicati negli ultimi anni e che si trascinano dietro
un’altra immagine: quella della matita, alla quale affidiamo la nostra poesia
come se si trattasse di un atto definitivo, di una giustizia che forse ci
spetta; un riscatto, fuori dalle ingiustizie e dalle promiscuità della Storia.
La “Storia” scritta con la S maiuscola, Clio, musa e semidea, non del tutto
dipendente dalle nostre azioni e dalla nostra volontà. A sottolineare una
circolarità, una ripetizione impunita, e quindi, in qualche modo, un fato
annidato dentro la nostra gracile idea di libertà.
Filippo Ravizza
La
coscienza del tempo
La Vita Felice 2017
Pagg. 88 € 13,00