Un captif
amoureux di Jean Genet
di Mila Fiorentini
Jean Genet |
Abbiamo deciso di pubblicare questa nota di Mila Fiorentini in prima pagina e non in una delle rubriche dei libri, vista l'attualità dell'argomento. I nostri lettori stanno da tempo seguendo su questa stessa prima pagina, le corrispondenze di Patrizia Cecconi sulla causa palestinese e il suo tributo di sangue.
Jean Genet |
La rivoluzione
palestinese alla prova dell’intimo, attraverso un diario di viaggio, un’intervista
continua ascoltando le voci locali con un linguaggio di grande fluidità:
l’umiltà e la curiosità del giornalista rendono oltre 600 pagine decisamente
scorrevoli ancorché frammentarie, frutto di una riunione di scritti, postuma
operata da Gallimard subito dopo la morte del grande scrittore Jean Genet.
Tuttora non tradotto in italiano, questo testo è considerato dallo stesso Genet
un testo che altri potrebbero utilizzare per una pubblicazione, dato
l’argomento non facile ieri come oggi. Impressiona la profondità dell’analisi
del conflitto mediorientale e di quella “guerra” che Genet legge come una
rivoluzione, patria di tutte le rivolte arabe e l’attualità di argomenti che
dalla stampa comune non sono stati eviscerati. Genet, profetico e critico
profondo, malgrado l’assenza di una giusta distanza, vista la contemporaneità
del nucleo degli avvenimenti, sembra essere stato ignorato in questo suo lato
impegnato e politico. Al centro la Palestina, i rapporti con la Siria, la
Giordania, Israele, il mondo europeo e il ruolo degli Stati Uniti. Una lettura
in parallelo delle Black Panthers americane che hanno guidato la rivolta nera
contro i bianchi. In questa atmosfera così densa e impegnata di tanto in tanto
fa capolino l’amore, la passione per gli uomini di Genet, la presenza dell’eros
che aleggia e colora il mondo.
Da
sottolineare l’osservazione della lingua, la scrupolosità nello spiegare alcuni
termini arabi, la loro traduzione e il valore centrale dato alla lingua,
elemento di identità, rivalità e luogo del contendere profondo perché sottende
una visione del mondo, talvolta unificata dalla costituzione nazionale che ha
schiacciato le minoranze anche di natura linguistica.
Un
testo da leggere e meditare, magari scorrendo alcune parti velocemente, senza
lasciarsi spaventare dal numero di pagine.
Mi
sono incuriosita a Genet, al di là dell’opera teatrale, la più conosciuta e
tradotta - il testo Les bonnes sopra
gli altri - in seguito al lavoro di traduzione e curatela del libro Ritratto incompiuto del padre di Jean Sénac al quale il romanzo del poeta
algerino, francofono, di origini andaluse è dedicato. In un passaggio del testo
autobiografico Genet è ritenuto il più grande scrittore francese suo
contemporaneo.
Questo
libro è frutto di due lunghi soggiorni - che rispondono alle due parti del
libro, entrambe con il titolo di “Souvenirs” - nei campi palestinesi che hanno
consentito a Jean Genet di essere uno dei rari occidentali a poter testimoniare
la vita degli insorti nei campi cosiddetti dei rifugiati, almeno in un primo
periodo; poi forse dovremmo parlare di detenzione. Il testo è ad un tempo
saggio e biografia, senza diventare né accademico né confessionale, lontano dal
panegirico atteso dai difensori della causa palestinese, è di grande lucidità
ed equidistanza, a dispetto del personaggio di eccessi, qual è Genet. L’autore
infatti si smarca perché non intende essere il soldato, il difensore e forse
nemmeno il cantore della rivoluzione palestinese, né uno dei leader
intellettuali. Resta un osservatore autenticamente curioso che raccontando, o
meglio raccogliendo testimonianze e spiegazioni, ci offre la sua visione della
rivoluzione e dei movimenti rivoluzionari del secolo scorso, delle affinità e
delle contaminazioni anche singolari come quella con il marxismo. Il suo punto
di vista è intimo e procede tra la memoria e l’effetto specchio. Sicuramente
difensore della rivoluzione come scelta, è un personaggio profondo nell’analisi
critica che non si abbandona al ragionamento con la pancia, come il Sénac di
fronte alla guerra d’indipendenza algerina, e filtrando il racconto con
l’esperienza intima e impossibile per definizione di un uomo nonché artista del
popolo del quale si innamora perdutamente.
Quest’ultima
opera arriva dopo una vita avventurosa e da avventuriero, Genet parla di se
stesso come di un ladro, che ha il tradimento nella quotidianità. Dopo l’uscita
dal carcere di Marsiglia, dal quale entra ed esce per un periodo, ci sarà una
fase da viaggiatore senza sosta con il suo impegno civile, spaziando tra
l’Europa, gli Stati Uniti e il Medioriente e il Maghreb per il quale si impegna
sul fronte dei diritti degli immigrati in Francia. È in terra marocchina, dov’è
sepolto, che mette ordine alle pagine memoriali di Un captif amoureux. È il 1983. La storia del déraciné collettivo
rifluisce nel nuovo libro: i Noir
americani e i fedayin. Genet
si ammala nel 1979 di tumore alla gola e, dopo una lunga malattia, muore nel
1986, solo lasciando accanto a sé il manoscritto dell’ultima opera. Si tratta
di una sorta di testamento, dalla parte degli sradicati, scosso dall’orrore di
un viaggio accanto alla morte che in qualche modo sente sua - scopre i massacri
dei campi dei rifugiati palestinesi di Sabra et Chatila - assumendo su di sé le
ragioni della causa palestinese. D’altronde la morte, che sia condanna voluta
dalla giustizia, rischio assunto come nel Funambolo, l’artista sul filo tra
vita e morte, l’odore dell’amore strappato dal suicidio dell’amato o quella del
lutto assunto e non vissuto dei genitori, è sempre presente in Genet fin dalla sua
nascita. La conclusione è emblematica e dichiara che “l’ultima pagina del mio
libro è trasparente”. Il libro è diventato un film realizzato da Michèle Colléry, con il titolo Jean Genet, un captif
amoureux, parcours d’un poète combattant, nel 2016.
Jean
Genet
Un
captif amoureux
Editions Gallimard, 1986
Pag. 611 € 9,90