Le
radici, il pensiero, i percorsi di una leadership
Ricordo di Giovanni
Bianchi
di Renzo Salvi
Intervento al 50° Incontro Nazionale di Studio delle Acli
(Napoli, 15 settembre 2017)
Giovanni Bianchi con Prodi |
1.Statu
nascenti…
Radici.
Percorsi. Prospettive. Tre tempi narrativi sono stati immaginati per la
sequenza di parole pensate, e da proporre, riandando alla persona e alla storia
di Giovanni: una scansione secondo tre tempi narrativi che devono essere
necessariamente di interpretazione. E sia pure di prima interpretazione, per
ora. Perché, ad ogni modo, il solo giocar sui ricordi non basta, né il far
memoria, ché altrimenti tutto “si fissa” nel tempo della sua cronologia, con la
valutazione che, in quel tempo, l’accompagnava; ricordare secondo discernimenti
e intelligenza dei fatti è invece porre le basi per dirne in sede storica: di
questo argomento e di qualunque altro.
Saranno tre tempi e quasi tre atti,
dunque, a compartire il flusso di parole, che ora vengono scritte dopo essere
state dette, sommariamente. E per aprire ciascun atto ci si propone di
collocare un'immagine, pur di sola memoria, una scena, di vita vissuta, uno
scatto fotografico, reale, di un momento di svolta.
1.1 Il professore inatteso
La cronologia richiede una sorta di
flashback per iniziare.
Si pensi un liceo, scientifico, con
colonne sulla facciata e un timpano triangolare; con un pronao, poi, e un
ingresso, un grande salone circolare con le aule ad affacciarsi su due piani: a
terra e su una balconata, ad anello circolare, per il piano superiore. L'architettura
pubblica, quell’architettura da Novecento umbertino ancora diceva, quasi ad un
cinquantennio dalla sua edificazione, di un orizzonte sociologico: i figli di
un ceto non borghese, non benestante, noi: i “non”, si era una minoranza estrema
in quell'ambiente. Per venire al tema: l’anno scolastico era il 1968-69, in una
Como quieta, ancora quieta; per poco ancora, ché a muoverla, a breve, saremmo stati noi.
All’inizio di quell’ottobre
nell’aula della classe più “rognosa” del liceo, la V C, collocata nell’angolo
del primo piano, allo sbocco delle scale, entra un insegnante nuovo di
Filosofia e Storia. Sostituisce quello due anni precedenti: tosto, uno col
quale si sgobbava ma che aveva trovato, con noi (e noi con lui) un equilibrio
positivo.
Il nuovo insegnante si fa passare il
manuale di storia da chi stava al primo banco, non io: sempre ancorato al
centrocampo nei tempi di liceo, e comincia la lezione. “Spiega”, come si diceva
in gergo. Spiega e in aula si instaura il silenzio. La classe zittisce, in ascolto.
Perché questo insegnante spiega in
un modo diverso. Non per paragrafi o avvenimenti o spezzoni di evento poi
commentati o ampliati (o sintetizzati) al di là del testo. No. Questo trasvola,
amplia in narrazione interpretativa e “naturaliter”,
così sembra davvero, aggrega conoscenze di sociologia e filosofia, di
antropologia ed economia, pur muovendosi tutto dentro quegli eventi, ché appunto
si parla di storia, fatti scorrere lungo il tempo. Passa una frase, tra i
banchi: è dei nostri. Forse non sapendo bene chi siamo per indicarci con quel
“noi”; ma quelli sono momenti in cui una generazione, la nostra, sta ricevendo tutta
la formazione, per così dire “canonica” classica e scientifica dei licei e,
intanto però, in parallelo, contemporaneamente, dentro e fuori la scuola, ha
tra le mani e “consuma” testi in precedenza o troppo costosi, e difficili da
trovare anche nelle biblioteche pubbliche, oppure decisamente “sconsigliati”
sino ad allora. È il tempo dei primi tascabili, dei paperback di Rizzoli, della
collana economica di Feltrinelli che inizia con Pasternak, poi della Mondadori, poi di Einaudi... A poco
prezzo, un po’ a casaccio (con poche guide alla lettura) ci si era tuffati in
Russell, Galbraith, per la narrativa in Šolochov e in seguito Solgenitsin, ma
soprattutto in Marcuse. L'anno precedente, dalla Lef, era stata pubblicata Lettera a una professoressa. Lui, quel professore nuovo, conosce quegli autori e
quei titoli, li cita: tra molti altri... È dei nostri! È un professore che
scrive e pubblica. In quell’anno da Queriniana esce L’Italia del dissenso[1], il
primo dei libri a firma Giovanni Bianchi. Del “dissenso”! È dei nostri.
Indro Montanelli, vecchio
reazionario bastardo, diciamo noi allora, lo attacca sulle colonne del Corriere
della Sera. Se la prende con una metafora usata da Giovanni a proposito di
ruoli e funzioni del sindacato e dei rapporti tra capitale, proletariato e
Terzo mondo: il sindacato è come San Giorgio che difende la Vergine (i
lavoratori) contro il Drago del capitale, secondo l’immagine evocata. Ma, chiosa
il libro, è almeno da temere l’alleanza di sindacato e capitale, che così si
fanno Strega, con l’intento, pur a motivazione diversa, di sfruttare i
Paesi del Terzo Mondo: la nuova Vergine.
La metafora nel testo è espressa meglio. Ci si ragiona intorno perché quel libro
si va a comprarlo. E poi passa di mano. Questo è dei nostri.
Anche perché L'Italia del dissenso
interpreta in modo più profondo e originale di quanto si faccia in quel
momento, ma anche di quanto sia avvenuto poi, il Paese che si rimescola. Anche
perché, nuova scoperta di noi, allora
studenti, di quel rimescolio Giovanni è parte: col Centro culturale “Ricerca”
di Sesto San Giovanni, dove è uno degli organizzatori di eventi e fa il
presidente sin da giovane, quando arriva in quella classe ha “ben” 29 anni, e i
Centri culturali sono strumento dell’aggiornamento della cultura nella Chiesa
nel post-Concilio. Alle spalle del Centro culturale di Sesto c’è la scuola
formativa di don Teresio Ferraroni, poi vescovo a Como e prima assistente delle
Acli a Como, Lecco e (vice) al nazionale e c'è la presenza, lucida e
infaticabile, di don Franco Fusetti, successore di Ferraroni nella parrocchia
sestese, prete giornalista, commentatore radiofonico e televisivo, amico di David
Maria Turoldo, ironico costruttore di ondate giovanili conciliari. In nome di un
simile universo quel professore giovane sa guardare da prospettive inconsuete e
oltre gli schemi. Indro Montanelli, da gran conservatore intelligente, lo ha
capito: di qui viene l'attacco. Un
cristiano anomalo, un cattolico fuori dagli schemi preconfezionati da amici e
nemici è da temere. Soprattutto da parte di conservatori secolarizzati che
fanno della laicità la loro (impropria) bandiera. Giovanni conosce l'Africa per
studio già in quegli anni: dalla Tesi, in Storia e istituzioni dei Paesi
afroasiatici, che ha sviscerato la realtà singolare dei Fokonolona, le unità di
base territoriali, i villaggi comunità del Madagascar; che poi ne ha scritto su
L'Italia, quotidiano cattolico, su Relazioni sociali, su Il Mulino... Parla di
sottosviluppo, non di Paesi prossimi a svilupparsi. Accade così, senza star
tanto a chiedersi o dirsi un perché che questo insegnante diventi un
interlocutore. Perché ti porta anche libri in più da leggere e poi si scorda di
richiederteli ma viene a chiacchierare su quei temi nell’intervallo o mentre ci
si cambia per palestra per venire, unico “prof.” a giocarsi, play-maker,
ovviamente, la partitella di basket. Perché con qualcuno devi pur confrontarti
per scegliere una facoltà: “Lasci perdere, rigoroso il lei, architettura e più
ancora fisica nucleare; le sue scienze son quelle del comportamento. Ho letto anche
i suoi temi di italiano” (questo il discorso che mi riguardò; il motivo di
quelle letture dei miei temi si lascia
per un altro passaggio)… Diventa un interlocutore perché, passata la maturità,
mentre si rientra dall’aver fatto benzina svizzera sulla sua Cinquecento
azzurrina, ti capita di invitarlo al tuo paese, in parrocchia, a parlare di
dissenso ecclesiale e quella sera vai a Sesto a fargli da sherpa sulla strada
in ere di gran pezza anteriori ai navigatori digitali. È l’affaccio, personale,
a Sesto San Giovanni, in piazza Petazzi, l’incontro con Silvia, “Se usi il tu
con lui non vorrai dare il lei a me…”, e con Sara che, nata nel ’68, ci era
nota per la tendenza, da neonata, a scambiare talvolta il giorno per la notte
determinando qualche sbadiglio dell’insegnante durante le interrogazioni di
filosofia.
Giovanni Bianchi il primo a destra |
1.2 Verso lo scrivere “insieme”
Lo scrivere insieme e, dopo, lo
scrivere per le Acli sorgono nell’orizzonte di un’amicizia nascente e in quella
localizzazione col balconcino affacciato su una piazza, allora parcheggio
scombinato, di Sesto. In quel terzo piano dove, di domenica, ogni tanto, si
compariva in gruppetti di ex studenti a ragionare sulla storia e sul mondo,
sulla politica italiana e sulle pubblicazioni lette di recente: gruppetti e
compagnie casuali, appena passati all’università, tutti rigorosamente
maschiotti – ché lo Scientifico allora era ancora un po’ così – ma qua e là con
l’affiorare di qualche “morosa” (lombardismo per filarino, fidanzata… L’uso dei
termini dice solo il cronos lessicale
trascorso).
Una sera, era anzi notte, tornati
con Giovanni da Brescia dopo un incontro del MPL, dove eravamo finiti indipendentemente
l’uno dall’altro, arrivò la proposta di scrivere insieme, nei termini del “ho
pensato che potremmo…”: durante una cena allo stato brado, in buona sostanza, organizzata
aprendo il frigorifero, sottovoce – ché Silvia dormiva e anche Sara,
fortunatamente – il discorso andò anche sul perché i miei temi di quinta liceo
venissero letti dal docente di filosofia: chi insegnava materie letterarie li
passava per un consulto dicendo: “Di quello che scrive questo qui io non ci
capisco…”.
Cominciammo a guardare i testi di
sociologia del comportamento giovanile, insoddisfatti di quello che si trovava da
leggere e studiare a fronte della complessità del movimento generazionale di
quegli anni. Ormai era il 1971. Cominciammo ad incrociare le letture
disciplinari, a guardare i trend dell’economia, a cercare radici di fondamento
nelle culture filosofiche che andavano intrecciandosi.
I titoli di quei tempi sono
caratterizzati dai “tra” e dagli accostamenti: “Giovani tra classe e
generazione”, “Tra cultura alternativa e cultura parallela”, “Giovani, fede,
impegno politico”… E poi i temi della partecipazione, della scuola e del
mercato del lavoro, dei gruppi giovanili, dell’animazione sociale. Il tutto firmando
insieme testi che, davvero!, qualcuno era interessato a pubblicare. Si andava
di gran lena per manoscritti su fogli di riciclo: a dattiloscrivere Silvia e
poi soprattutto Pina, sua sorella. E intanto erano arrivate altre penne, da
altri fili di frequentazione di Giovanni: sestesi alcune, di formazione
“fusettiana” altre (ché don Franco era intanto passato a Legnano), o tratte da
altre generazioni scolastiche. Di fatto quel che si venne a costituire,
nell’arco di tre/cinque anni, fu una redazione trasversale rispetto alle
testate di destinazione degli scritti: Animazione sociale, Rocca,
Testimonianze, Il Tetto, Note di Pastorale giovanile, Terzo Mondo, La Piccola
Città, Rivista di teologia morale, Rinascita, Mondo Operaio… E altre ancora.
E il gruppo (che non ebbe mai un
nome), il tandem d’esordio, Giovanni muovevano insieme in ricerca: attraverso
le discipline e dentro i fatti; spesso cumulando i dati prima di iniziare le
indagini sui perché. Questo era l’approccio e la metodica, questo il tentativo
di arrivare all’intelligenza degli eventi. Anni dopo approdammo al termine di
“discernimento” di configurazione martiniana. Quel che si delineava on era
comunque un pensiero soltanto di frontiera. Era un pensare, Giovanni in testa, sulle
frontiere: disciplinari, culturali o politiche che fossero.
Così narrando …
1.3 Una leadership, detta in breve
Se si fosse scelta una chiave
espositiva diversa per l’occasione di questo intervento e per queste righe, una
chiave che non fosse non narrativa e per contenuti, non di ricognizione a
comportamenti e valori intrecciati, ma, ad esempio, più di concettualizzazione
astratta, si sarebbe approdati a
trattare di lontananze tra le generazioni per far rilevare, invece, rapporti
intergenerazionali e capacità di coinvolgimento: si sarebbe certamente parlato
di ascolto, da parte di un docente inatteso e al tempo stesso di sue non
consuete capacità comunicative; non arrivando ad attribuire a quell’insegnante,
nel lessico dell’epoca, la forma dell’hombre
nuevo probabilmente, ma certamente, per riprendere don Milani che cita
parole di un bambino cubano, dicendo che si trattava di un professore buen autoritario, capace di essere su
più culture o forme espressive e di trasmetterle, credibile, con una “naturale”
autorevolezza che non era l’autoritarismo tanto e giustamente vilipeso: allora.
Il carattere e i caratteri personali, le competenze e le qualità
dell’intelligenza, in quel quasi trentenne, sono segni tutti e già da tempo
dispiegati. Quest’ultima annotazione è di apparente ovvietà. Serve però per
rimarcare che, certamente, “uno vale uno” nell’ambito dei principi etici e dei
diritti di base, fondamentali, di radice vetero e neo-testamentaria e in quelli
successivamente secolarizzati nella Dichiarazione relativa al citoyen, ma che le differenze poi
esistono. Le qualità sono appunto personali e si fondano, nella loro
particolarità, su quelle medesime radici
scritturali, talché ciascuno è unico e
irripetibile, e di portato culturale e ideologico. Vale, insomma, il
riferimento manzoniano, pur scritto con altra destinazione: in qualcuno, da
parte di Qualcun altro, s’è pur voluto “più vasta orma stampar”. La leadership
appartiene a quest’ambito. È nel primo romanzo di Giovanni, L’apprendistato,
la battuta “Tutti vogliono ordini. Ma io non sono un Cadorna. Dico: “Va bene”.
Sono un amico. So che tutti sanno quello che devono fare. Ormai siamo cresciuti…”[2]. La
narratività, chiave invece di queste righe, cerca di dar conto dell’insieme
senza gravare lo scrivere (e prima il dire) di eccessivi pesi teorici (o
presunti tali). Semmai qui si tenta di innestare nello correre della memoria le
annotazioni che mostrano il carisma, l’intelligenza, la capacità di “scoprire
per interpretazione”: i segni, appunto, che sono propri delle persone, per noi
Giovanni, di cui si sta dicendo. In questa chiave, il discorso può riprendere
narrativamente, per il secondo tempo cronologico e tematico. Ancora iniziando, come
da copione, da una scena tra il fotografico e il teatrale.
2. Un pensiero che si fa linea e organizzazione
Le Acli arrivano in un primo tempo come
una frequentazione importante, ma tra molte altre, e poi come realtà associata
che trova orientamenti in quello sviluppo di pensiero. Detto a mo’ di
testimonianza diretta e come parte in causa, per chi scrive le Acli compaiono
nel 1972 con la proposta di mettere in forma di saggio l’intervento, annotato
sui consueti foglietti da un quarto di A4 riciclati, svolto da Giovanni al
Congresso Nazionale di Cagliari, prima della debacle elettorale del MPL
(eravamo stati tra i contrari all’idea di presentarci subito alle elezioni: 119.779
voti contati alla fine della giornata di scrutinio, infatti …) che avrebbe
fatto da preludio a rivolgimenti interni
al Movimento. “Qui lavori per il re di Prussia”, mi disse, perché
quell’intervento avrebbe dovuto avere solo la sua firma: ma quello non era e
non sarebbe stato mai un problema. Il testo è negli Atti e pubblicato anche in
“Animazione sociale”.
“Dai che diamo la linea a tutte le
Acli” fu il commiato di quel giorno, all’ascensore, con gli appunti e le
annotazioni in mazzi di foglietti tenuti con l’elastico già nelle borse di
plastica da supermercato, insieme al consueto peso di libri e riviste in
andirivieni, previsto da quel modo di lavorare in scrittura.
Nell’estate del medesimo anno in
Valformazza con le Acli milanesi per un corso di formazione, ma in realtà per
lavorare alle dispense di storia del movimento operario destinate alle Acli
stesse e al Centro Operaio della Fim milanese, Giovanni era direttore
responsabile dei Quaderni, avrei osservato una resa dei conti tra militanti
aclisti e presidenza di quella provincia, rea di essersi prestata al
riallineamento democristiano del Movimento. In autunno Giovanni fu eletto
Presidente regionale delle Acli lombarde da un Comitato che era rimasto in stallo
per parecchi mesi (dalla primavera). Collaborai anche per la prima relazione di
quella presidenza …
Da qui, e si esce allora dalla mera
testimonialità, si osserva il dipanarsi di un pensiero che si fa anche
organizzazione.
Per ora, dal momento che
ricognizione dei testi è appena agli inizi, non è semplice distinguere tra la
fase della presidenza regionale nelle Acli lombarde e il tempo della
Vice-presidenza a della Presidenza soprattutto in ambito nazionale: peso
oggettivo e spinta propulsiva, qualitativa del mondo aclista lombardo fecero da
massa critica in quegli anni. Neppure facile, per ora e probabilmente anche nei
tempi a venire, è il distinguere tra un pensare finalizzato alle Acli e un
pensiero destinato alla presenza complessiva, cristiano/sociale e
cattolico/democratica attiva nel Paese.
Le righe che seguono immediatamente
sono più un sommario di ricerche da svolgere che una tesi compiuta: una traccia
provvisoria e uno “strumento di lavoro”, come si legge con frequenza nei testi
di quegli anni e soprattutto nei titoli che tanto piacevano ad Aldo Ellena,
sacerdote salesiano, sociologo, educatore e fondatore di Animazione sociale a
Milano, che fu amico, spalla, costruttore di occasioni, suscitatore di
iniziative e di eventi. La prima parte più dettagliata, la seconda
assolutamente scarna.
2.1. Corsi, percorsi, una rivista e (tre) convegni
Mentre si compongono alcuni grandi
filoni interdisciplinari e prendono corpo, si può pur dire, blocchi di pensiero teorico, Giovanni, Giovanni
soprattutto, annota ad anticipa intuizioni e squarci di nuove letture con la
rubrica “Diario sociologico”, in Animazione sociale, e nel fraseggio poetico.
In termini editoriali la prima pubblicazione di poesia ha come titolo È
così stupido vivere di carta, ma neppure mancò, nel novero delle
testate frequentate in gruppo, la rivista Pianura (con Accattino, Vassallo …). Di
poesia, per altro, un po’ si scriveva ma moltissimo si leggeva: Turoldo, Luzi,
Baudelaire, Rebora, Pasolini… E dalla chiave non giornalistica (ma poetica,
appunto) di Ettore Masina si trovò persino modo di citare un verso in un saggio
destinato a Testimonianze: “Nessuna mi turba / accusa di ismo. / Quel che mi
tormenta nella notte / è il Sant’Uffizio
/ del mio moralismo”. Da Pellegrinaggio laico. Stupì persino
Ernesto Balducci: lessico e modo dello scrivere si andavano reinventando.
Da questo punto cronologico le
tematiche d’un pensiero si innestarono, mutandolo, nel flusso del divenire
aclista. Il tema roncalliano dei laici
christifideles e della laicità come questione da riprendere, attraverso
Lazzati ma intuendo vie oltre lo stesso Lazzati, aprì un filone di riflessione
con titoli, saggi e poi articoli, che si alternavano tra testate acliste e
testate di riviste di area conciliare. Per le Acli questo significa uscire
dalla trappola del secolarismo e, meglio, della secolarizzazione confusi con la
laicità, quasi il problema fosse di iscriversi a corsi accelerati, per ceti
sociali e vie di pensiero in ritardo, in modo da raggiungere chi già si era
liberato di lacci e laccioli confessionali.
In realtà si cominciò a
puntualizzare che cosi come non mancavano, giusto il Mao Tse Tung pensiero, “le
contraddizioni in seno al popolo”, anche con la visione (mitizzata) della
classe operaia era necessario misurarsi con un atteggiamento un po’
disincantato: anche il soggetto sociale collettivo e la sua storia erano
percorsi da ambivalenze; il presente operaio e il tema della sua cultura, così
come la cultura popolare, era da guardare in profondità cogliendone caratteri e
differenze: Giovani e cultura popolare, Fatti nuovi e tradizione nella
protesta operaia, analisi sulle Esperienze di organizzazione operaia dal
basso, La nebulosa del movimento operaio, Il rapporto con la fabbrica come base di alternative per la scuola
italiana, La vita associativa dei giovani lavoratori nell’area milanese,
sono titoli[3] (alcuni soltanto) di un
percorso che mira a discernere nei processi (allora) in atto. Da questa
angolazione viene sviluppato il tema del rapporto tra la presenza cristiana
nella storia e il movimento operaio con le sue ideologie e le sue
organizzazioni sociali, sindacali e politiche: il maggiore tra tutti i soggetti
collettivi del Novecento.
Inedito e forse perso è invece il
testo con un puntiglioso riandare ai temi e alle tempistiche delle reazioni “in
armi” al dirompere delle manifestazioni di massa: il titolo previsto era La
tensione tra tattica e strategia. Ancora un “tra”.
I laici nel mondo, la laicità come
via della Chiesa e dell’essere Chiesa dei lavoratori cristiani coglie nel reale,
“mai dare torto i fatti”, una tendenza reale che marca il passaggio dal mondo
cattolico configurato nei modi del dopoguerra al suo frantumarsi, prima, e poi
ad un suo diverso dislocarsi in una più variegata area cattolica presente nel
sociale. L’ispirazione cristiana è qui il transito proposto, e fatto proprio
sino in fondo, dalle Acli della metà degli anni Settanta. Le Acli lombarde ed
il loro presidente iniziano ad osare anche in pubblico senza farsi ingabbiare
dalle diatribe post-vallombrosiane sulla scelta/ipotesi “socialista” e sulle
reprimende ecclesiali. In verità persino Aldo Moro aveva formulato un pensiero
su una “società socialista alla quale potremmo in prospettiva essere chiamati a
collaborare” e nessuno aveva obiettato: ma li aveva fatto premio il consueto
modo sfumatissimo.
Le Acli e quel filone che ora inizia
a orientarle non scelgono le sfumature e neppure il linguaggio della
moderazione curiale; sanno però evitare anche il tunnel degli ideologismi.
Tre convegni sono significativi, disposti
lungo un quinquennio, in questo percorso e portano in campo aperto davvero. Una
prima occasione, che ancora si ricorda come epica per lo sforzo organizzativo,
con scarse energie, risorse e tempi operativi, e per gli esiti di affluenza, ha
come titolo Cristiani e internazionalismo. Correvano i primi mesi del 1973.
Produce un insieme di eventi, il 16, 17 e 18 febbraio, e una pubblicazione[4], come
Quaderno n. 4 del Centro Operaio di Milano, per le edizioni Coines (che
significava, in acronimo coperto, comaschi in esilio: a Roma erano Emilio
Gabaglio, Geo Brenna… Di un altro comasco, altrettanto in incognito e aclista, ma
non romano, fu anche il reading finale di tutti testi per la pubblicazione). Indiscussa
“Star” di serata, per dire proprio del non moderatismo di impianto politico del
tutto, nel Palalido milanese stracolmo, fu Bernadette Devlin, deputata e
bandiera del movimento indipendentista irlandese.
La copertina del libro |
Una rilettura, di recupero, delle
scelte compiute dal Movimento aclista negli anni precedenti e di indicazione di
un nuovo sforzo di fondazione e radicamento della riflessione teorica e
teologica che guardi a tutta la nuova condizione dell’area cattolica è
contenuto, in due parti, nel numero speciale di “Relazioni sociali”[5],
rivista di punta dell’area cattolica progressista, che reca come titolo “Le
Acli tra interclassismo e scelta di classe”. Il terzo capitolo: L’autonomia
alla prova: 1972/1973 [6] si
sviluppa secondo logiche di cronologia e di interpretazione per accostamento di
dati: interni alle Acli, alcuni, e di processo sociale e politico del Paese
(con Giovanni sono altre due le firme, di consueta collaborazione) mentre il
testo che fa immediatamente seguito nell’impaginato viene configurato, con una
sola firma, come il primo dei contributi “di protagonisti”, sviluppa in
sequenza la parte storico-analitica e si trasforma man mano nell’indicazione di
una linea politico/organizzativa a venire. La stesura alle origini era unica e
soltanto una scelta di opportunità politica ed editoriale ne determinò la
suddivisione (poco più che formale, appunto, essendo posta come “colonna di
piombo” a scorrere). Rilevante, in termini culturali, è l’inizio e, in logica
di politica ad intra al Movimento, il
sottofinale. In apertura si afferma : “Il cammino percorso dalle Acli si
presenta come contestuale e parallelo al movimento di tutto un “insieme”
sociale, politico e organizzativo (o semi) che era interno, un tempo, al
“quadrilatero” cattolico (DC, Cisl, Acli, Coldiretti) ed ha acquistato
progressivamente, tra gli anni ’50 e i ’60,
una propria autonomia d’azione. Compongono questo “insieme” la Fim (…) alcune
riviste di ispirazione cristiana, le comunità cristiane di base; non vi sono
estranei alcuni “influssi individuali”: le personalità e i tentativi di Rodano,
Dorigo, La Valle; è il clima è dato dal “dialogo” – fortemente
intellettualizzato in quel momento – tra cristiani
e marxisti: le prime elaborazioni di
Giulio Girardi”[7].
Almeno da notare è come il ri-percorso
muova davvero a monte, e per gran tempo, rispetto alle scelte acliste degli
anni Sessanta, giungendo al recupero dei tentativi di pluralismo culturale e
politico dei cattolici italiani del dopoguerra più recente, rappresentato, con
qualche coraggio, dal movimento dei cattolici/comunisti di Franco Rodano, poi
divenuto ascoltato consigliere di Enrico Berlinguer. Nelle ultime colonne di
quel testo si legge invece, in chiave più interna: “… non un arretramento di
linea ma, considerate le forze disponibili, la scelta di alcuni obiettivi che
appaiono importanti nella strategia complessiva del movimento operaio e su cui
le Acli possono battersi, a conferma, tra l’altro, della capacità del movimento
operaio di colpire unito anche quando marcia diviso nelle sue diverse
organizzazioni”.
Dopo aver condotto il tema
dell’ispirazione cristiana sulle questioni internazionali e individuato un modo
per porre un pensiero ormai in progressione a servizio di un movimento e di
un’area, si affronta la questione della politica per i credenti con un respiro
più generale. Ispirazione cristiana, cultura cattolica, azione politica è il
titolo di un convegno, tenutosi a Bergamo nel Seminario intitolato a papa
Giovanni, nel 1975, con la presenza, tra i partecipanti, di alcune figure
capaci, buffo dirlo dall’oggi, di
rendere inquiete le gerarchie ecclesiali italiane: Pietro Ingrao, Raniero La
Valle, Gianni Baget Bozzo, il socialista Giorgio Lauzi … Come singolare
scoperta, molti anni dopo, incontrando per motivi professionali, di
programmazione Rai, padre Sorge, si seppe che gli ostacoli frapposti da
spezzoni di gerarchia ecclesiastica erano stati tolti di mezzo direttamente da
papa Paolo, raggiunto appena prima di coricarsi dal segretario particolare che
riferiva contrarietà e opposizioni gerarchiche per quelle commistioni di
cattolici e comunisti. Il “Ma si:
lasciateli fare”, sembra: de relato,
liberò la partecipazione dello stesso padre Sorge e del vescovo ausiliare di
Roma Clemente Riva, rosminiano, insieme a quelle (non in dubbio in realtà) di
Giorgio Traniello e Gilberto Bonalumi che si affiancarono a teologi di
Friburgo, preti operai belgi, a Bruno Manghi, Domenico Rosati… Il convegno
sarebbe iniziato la sera di venerdì 14 novembre; quella telefonata arrivò dopo
la mezzanotte di martedì 11 mentre l’altro telefono delle Acli lombarde era
occupato da una conversazione/consulenza richiesta nella notte a don Bruno
Maggioni, biblista, centrata sulla correttezza dell’uso di un passo
veterotestamentario in chiave di azione e non solo di testimonianza per una
riga della relazione introduttiva). Col titolo di Cultura cattolica e egemonia
operaia, e con la medesima redazione dietro le quinte, i testi furono
editi ancora da Coines[8].
Cristiani e libertà è del giugno di due anni dopo. Un
altro appuntamento di studio e di comunicazione, un convegno, organizzato dalle
Acli regionali lombarde a Milano nel teatrino del complesso salesiano di via
Copernico/via Gioia: la tesi che viene fissata in questa occasione era stata
tracciata nel corso degli anni e già era stata accennata e poi delineata nelle
relazioni di Cristiani e
internazionalismo e di Ispirazione cristiana, cultura cattolica, azione
politica: contro l’integrismo dirompente di quegli anni, soprattutto di Comunione
e Liberazione, e contro i tentativi anticonciliari di riedizioni difensive e
offensive del “partito cattolico” (o dei cattolici), le Acli e quel loro
presidente regionale in Lombardia
oppongono una visione in cui non c’è spazio per gli arroccamenti (anche
di potere), non per le riedizioni del mondo cattolico (in quel momento fatto
anche di molta arroganza) e neppure per una visione da pactum sceleris che baratti le libertà democratiche con la libertà
religiosa, sempre minacciata, nel parere “interessato” di integristi e
integralisti, da modernità, secolarismi, laicismi di maniera, consumismo e, ad
un tempo, da … visioni comuniste; e ciò anche in Italia.
È Marie Dominique Chenu, domenicano
francese, esponente della scuola di Le Saulchoir, a tuonare in quella sala, da
gran vecchio già perito teologico al Concilio e voce della teologia del lavoro
e della storia: “ Defunta la cristianità!” e a tracciare le rotte di un
necessaria capacità di scovare, scoprire, indagare “i segni dei tempi” negli
eventi della storia. E ad operare per rapporto a questi.
Si stabilisce, per altro, in quel
momento un rapporto diretto, caldo, cordiale, quasi filiale, tra Giovanni e
padre Chenu: fatto di incontri e di scambi di pensieri, di riconoscimenti,
quasi di investiture di successioni sulle tematiche della teologia del lavoro;
un rapporto proseguito sino agli ultimi giorni di vita di Chenu, nel 1990.
Singolarmente di questo convegno
risulta pubblicatissima la relazione di Chenu, Animazione sociale, Relazioni
sociali, Il Lavoratore lombardi (delle Acli regionali), ma non trovano sbocco editoriale
gli atti, pure preparati: la scomparsa di Coines dal panorama editoriale e il
ritirarsi di altre editrici confinano quei materiali in un faldone consegnato
all’attuale Istituto per la Storia dell’Era Contemporanea a Sesto San Giovanni.
Due contributi invece, in doppia firma, sono parte de I cattolici e la sinistra
con cui la Pro Civitate Christiana di Assisi fa il punto, con la sua Cittadella
Editrice, sul dibattito relativo al modo d’essere dei cattolici nella sinistra,
ché il pluralismo è conclamato ormai, ancorché non ancora accettato e tanto
meno apprezzato da molta parte della Chiesa italiana, e della Chiesa nei suoi
rapporti con la sinistra[9].
A Giovanni Bianchi come figura di
riferimento culturale della presenza sociale ed associativa cattolica viene affidata nello stesso anno, per la
pubblicazione del 1978, la cura di un volume su fede e politica in Italia: la
Queriniana, editrice di salda radice nella teologia conciliare propone un tema
e ragiona su un titolo. “Qualcosa come
God in Public… un po’ all’americana” è l’intuizione di Rosino Gibellini,
direttore di Queriniana e cultore di teologie e filosofie tedesche, cultore e
amico di Karl Rahner; in esatta traduzione Dio in pubblico sarà l’approdo
conclusivo, con Giovanni a raccordare sul tema le voi della (ormai) galassia di
culture e associazioni cristiane del Paese e di intellettuali di altra
ascendenza culturale[10].
La copertina del libro |
Ad affiancare la presidenza
regionale di Giovanni Bianchi, intanto riconfermata dal I Congresso Regionale
delle Acli svoltosi a Como, nel 1975, sono soprattutto alcune Acli territoriali
(provinciali) che scelgono di camminare insieme al Regionale, così rinnovato, del Movimento: Milano, Bergamo,
Pavia sono un supporto operativo, organizzativo e politico. Como, la sola
provincia che già allora aveva dato due Presidenti nazionali e un Vice-presidente
(ora due anche in quest’ultima carica), sceglie di affiancare e sostenere la
linea aclista lombarda anche con iniziative culturali autonome – alle quali
Giovanni è sempre presente e spesso contribuisce in termini di contenuto.
I Corsi teologici “inventati” a Como
in quegli anni sono proiezione diretta dell’elaborazione del gruppo di giovani
penne, in crescita per numero ed età, che lavorano con Giovanni. Già nel primo,
del 1977/78, si tratta di Fede e
religione, Comunità nella Tradizione ecclesiale, Autonomia della politica e unità della fede, “Statuto storico” della fede oggi, Teologia morale e mutamento dei costumi, Novità della riflessione cristiana sul lavoro, Conoscere le fonti della fede. Sono relatori, Armido Rizzi, Mario
Rena, Luigi Sartori, Gianni Baget Bozzo, Dalmazio Mongillo, Enrico Chiavacci,
Bruno Maggioni[11].
A concludere il ciclo, l’11 febbraio
1978, è il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo emerito di Torino con la
relazione Cristianesimo e culture nella storia:
si tratta del primo ritorno di una figura di questo prestigio e ruolo ad una
manifestazione aclista dopo il “ritiro del consenso” (e degli assistenti
ecclesiastici) alle Acli, con la “deplorazione” di Paolo VI il 19 giugno 1971.
La portata dell’evento è
rilevantissima nella storia generale del Movimento dei lavoratori cristiani.
Aprendo l’incontro il presidente provinciale delle Acli comasche, Camillo
Monti, può affermare, non a caso citando il padre Chenu: “Egli suggerisce di
non chiedersi cosa la Chiesa deve fare per i mondo del lavoro, ma cosa la
Chiesa deve leggere in ciò che avviene in questa realtà. Riconoscendo nel
movimento operaio il luogo più significativo della liberazione e anche un
“luogo teologico”…”.
G. Bianchi a sinistra nella foto |
2.2 Corrispondenze e rimandi a specchio: oltre gli anni Settanta
“Nostalgia / nostalgia canaglia”.
Non si può negarlo: sin qui non ci si è sottratti – in parole per voce e “file”
digitati – neppure a quest’onda. Dar conto invece dell’intero perimetro
dell’influenza sviluppatasi dall’elaborazione di Giovanni Bianchi, e del gruppo
che con lui ha elaborato e scritto in quegli anni, nei mondi aclisti e nelle
aree del cristianesimo sociale e del cattolicesimo democratico è compito che
supera le possibilità di questa occasione e l’esito di queste righe.
Serviranno, per altro, studi di lungo periodo.
Possibile però, in traccia
essenziale e tutta da sottoporre a verifica, è uno scorrimento di temi sviluppati
e proposte socio/politiche delle Acli che evidenziano parallelismi e intrecci.
Detto del laicato e delle sue
argomentate declinazioni ed evocata la figura di padre Chenu, la teologia del
lavoro si definisce come uno dei settori di riflessione che intrecciano ed
orientano la linea delle Acli e si configurano come una costante delle presidenze,
regionali e nazionali, di Giovanni Bianchi. Testi e contributi sono sovente in
riviste, compaiono sistematicamente da questo periodo le testate acliste
nazionali: da Azione sociale ai Quaderni di Azione sociale ai Sussidi per la
Formazione nazionale, che così affiancano Il Lavoratore Lombardo, e i suoi
Quaderni, o Realtà sociale – ma la nuova linea di teologia del lavoro si
presenta in testi collettivi (a caso si cita Per una teologia del lavoro,
edita dalle Dehoniane, in cui Giovanni firma Le teologie “laiche” del lavoro nel movimento operaio italiano) e
soprattutto Dalla parte di Marta. Per una teologia del lavoro, edito da
Morcelliana nel 1986, in cui il pensiero di Giovanni Bianchi e alcune penne
affiancate si misurano con il passato della riflessione teorica di area
cristiana, con la visione del marxismo ed i suoi mutamenti, con le riflessioni
(anomale, dal punto di vista dei filoni culturali) di Simone Weil, con la Laborem exercens di Giovanni Paolo II,
con la necessità (dichiarata) di visioni interpretative nuove e “forti”[12].
Le indicazioni di comportamento
relative al mondo di “essere in pubblico”, di configurazione politico/sociale
si vanno a definire in una sorta di volume successivo, in qualche modo
“gemello” anche come fonte editrice. Da Morcelliana viene proposto, nel 1987 Le
ali della politica, scandito in tre grandi partizioni, ciascuna di due
capitoli, I processi e le metafore, I problemi e le fondazioni, Le
trasformazioni e i valori, e mirato a rispondere (pre)operativamente al tema
dell’interpretazione forte e dell’agire.
Tale è l’intreccio con lo sviluppo
del divenire aclista che non pochi passi della conclusione, inserita “facendo
riaprire il piombo” di tipografia, sono presenti nella replica del Presidente
che chiude il Congresso nazionale delle Acli di Milano del !988.
Lo studio e la riproposizione di
Simone Weil, secondo una logica concettuale di tematiche d’origine riprese e
collocate in reinterpretazione negli eventi dell’oggi, corre nella seconda metà
degli anni Ottanta: Simone Weil e la condizione operaia è presentato da Editori
Riuniti con le firme di Aris Accornero, Giovanni Bianchi, Adriano Marchetti; ma,
appunto dicendo a stralcio per ora, in attesa di studi che collochino con
dettaglio questo riferimento nel pensiero di Giovanni Bianchi, la figura della
Weil affiora tra altre in Maestri possibili del 1997, per
Ancora Editrice, e ancora in Testimoni e maestri nel 2005 per le
edizioni di Scriptorium.
L’arco teso del “ragionare” muove dal
confronto con Mario Tronti sull’operaismo (anche cattolico) sino
all’argomentare del laburismo cristiano. Ed il pensiero aclista, ché ormai di
questo si parla, aggrega una fucina romana e quella sestese: Bepi Tomai, a
cavallo delle Acli e dell’Enaip lombardo e di quello nazionale, Pino Trotta,
padre Pio Parisi, Camillo Monti, su fronti più organizzativi, sono figure e
firme attive sui filoni del rinascente e ripensato popolarismo, e sul transito
ulteriore di visione che conduce anche le Acli dall’ispirazione alla vita cristiana.
Vita cristiana e temi della
quotidianità fanno da duplice binario a forme di impegno del Movimento aclista
aperto verso l’affermazione di una nuova politica fatta nascere dalla società
civile: senza mitizzarne i caratteri, ché questo filone di pensiero non si
allinea alla presunzione di contrapporre un civile privo di rughe ad una
politica segnata da ogni macchia: i tempi sono quelli i Tangentopoli spazzata
(parve) dall’onda di Mani Pulite, e invece trovando, nel giorno per giorno, vie
per far rinascere comportamenti politici segnati da valori. E di qui un appassionamento
per la politica.
Lo schierarsi delle Acli di Giovanni
Bianchi nelle iniziative referendarie proposte da Mario Segni in vista di una
riforma della politica per via di innovazione istituzionale, e poi la proposta
autonoma della raccolta di firme per una Legge di iniziativa popolare mirata
all’elezione diretta dei sindaci, al premierato, ad una nuova etica della
(comune9 responsabilità tra società civile e istituzioni.
Bianchi al centro della foto |
2.3 L’agire “in pubblico”: fondamenti e indicazioni
Se la vita cristiana definisce il
nome nuovo, di antichissima ascendenza, di una spiritualità aclista che innerva
il divenire dell’azione pubblica, in questi stessi tempi e su questi testi si radica, dunque, una
visione che dà alle Acli il fondamento e l’indicazione politica della società
civile come campo dell’agire non pre-politico ma politico a tutto tondo; per le
Acli si passa così attraverso il tempo delle “Convenzioni” come chiave
teorico/pratica di posizionamento dei diritti in una società che cambia, perché
la persona ed il sociale, si afferma, sono il fondamento dei diritti: anche di
quelli civili ed istituzionali. Per pura testimonialità e petizione
professionale chi scrive ricorda qui la Convenzione per il diritto a comunicare
che ricolloca la libertà di espressione negli orizzonti contemporanei del
flusso massmediologico e personal-media. Ma sono numerosi e nuovi, anche per il
campo dell’associazionismo, gli strumenti “immaginari” e proposti con i nomi di
convenzione,
appunto, ma anche di alleanza, di diplomazia popolare, di lobby democratica.
Misurando sull’antico, e secondo
altre discipline, siamo con questo al giusnaturalismo proiettato nella politica
in chiave di diritto positivo e misurato sui segni dei tempi: dentro il
manifestarsi degli événements. Le
riprese del pensiero e delle figure di Giorgio La Pira e di Giuseppe Dossetti
sono il supporto a scritture e indicazioni. Per quest’ultimo possono far testo,
per ora, una prima traccia di attenzione nel 1997, Giuseppe Dossetti, un volumetto
a più voci presso Cens, e l’ultimo Il Dossetti rimosso, del 2016, con
firma di Giovanni e, postuma, di Pino Trotta, presso Jaca Book.
Dal punto di vista dell’elaborazione
teoretica e teologica, di radice e fondamento sono questi i tempi, rispetto i
quali chi qui annota ha avuto meno partecipazione e perciò ha ora meno capacità
di sguardo dall’interno, di elaborazioni, iniziative delle Acli nazionali,
uscite editoriali legate a riviste come Container e soprattutto Baillamme,
libri con editori di antica ma anche nuova frequentazione; volendo citare con
titoli cronologicamente estremi di periodo: Al Dio feriale. Teologia minima e
Nell’attesa.
Saggi sulla quotidianità, rispettivamente presso Morcelliana (1990) e
con Marietti 1820, la cifra è nel nome dell’editore, nel 2000.
Come piano di studio e di
comunicazione è questo il filone nel quale si radicano i “Circoli Dossetti” fondati
nel 1998 da Giovanni e, come puntualizza l’autopresentazione in rete, “da un nucleo di operatori sociali,
culturali e politici provenienti da esperienze associative dell’area del
cattolicesimo democratico e sociale milanese che ha incominciato a coltivare […]
la pratica sistematica
dell’incontro e del confronto intorno alle questioni dell’attualità politica,
economica e sociale”: corsi, incontri, pubblicazioni, presenza in rete, e.book
sono i canali che mescolano vecchie e nuove forme del comunicare e del fare
opinione. Sino all’oggi.
A mo’ di ulteriore flashback
narrativo invece, ma gli scorrimenti sono paralleli e gli sviluppi
contemporanei ed intrecciati, il nodo del popolarismo in quanto tale, come
studio e scrittura, rimonta agli inizi del 1983, con un anno di eventi a Como
per il centenario della nascita di Achille Grandi, con le ricerche di Roberto
Nic Albanese su La Monza di Achille Grandi, il volumetto antologico
Achille Grandi e l’antifascismo delle Leghe bianche (Quaderni di Realtà
Sociale), che avevano a monte La formazione del pensiero politico-sociale
di Achille Grandi di Giuseppe Gini (Quaderni del Lavoratore Lombardo) e
a valle, commissionato per quell’anno, Achille Grandi a Como. Cristianesimo sociale
e movimento sindacale nel primo Novecento[13].
Una nuova messa a fuoco di
attenzione sulle questioni del popolarismo come approccio al tema della
presenza “in politica” e “nelle istituzioni” dei credenti ha un preludio nel
1985, con il testo a più voci Luigi Sturzo e la tradizione cattolico-popolare
e una ripresa di studi, quasi un filone, dal 1989: Dopo Moro: Sturzo
(Morcelliana) e successivamente Popolarismo, L’ostinazione dei popolari,
La
maledizione del Centro, tutti presso Cens, che seguono i tempi in cui
la linea aclista e del suo Presidente convergono verso il tentativo di mutare i
modi e le chiavi di comportamento rispetto a quello che (secondo modi proprio e
opportuni tutti da vedere) era stato il partito dei cattolici, o cattolico che
si volesse leggere, nelle forme della Democrazia Cristiana.
I successivi Nel Paese degli atei devoti
e, prima, I mulini degli dei appartengono al tempo dell’Ulivo e, prima,
alla breve esperienza del nuovo Partito Popolare Italiano, con Mino
Martinazzoli. Né si può qui tacere la testimonianza di Romano Prodi che ha
recentemente affermato di essere stato “costretto” a fare L’Ulivo da tre
persone che, citate in ordine alfabetico di cognome, sono Nino Andreatta,
Giovanni Bianchi e Sergio Mattarella.
Ma rispetto al tutto anche L’Ulivo,
con la sua importanza e le dimensioni di speranza incarnate nella storia
italiana, e poi il Partito Democratico, non sono che frangenti della storia. E
le Acli seguitano ad essere in campo, una delle poche forme associative nate
nel dopoguerra socio-politico, perché rigenerate da un pensiero nuovo che
Giovanni ha costruito (con molti: era un suo leit motiv) e ha saputo far diventare organizzazione: lungo
decenni.
Si vuol ribadire il termine: un
pensiero. Che questo primissimo tentativo di traccia ha cercato di dire
espungendo la poesia e la scrittura per romanzi, altro impegno immane di
lettura che ci impegnerà e lasciando ad una mera citazione, ora, alcuni testi
remoti e più recenti. Sui temi di una rifondazione, della politica ci si limita
all’inenarrabile Lectio Mundi. Un
itinerario molteplice alla ricerca dei segni dei tempi in cui si fanno
centone e intreccio poesia, narrativa saggistica, dialogicità, teologia e
memoria, del 2005; poi la diade editoriale, presso le edizioni San Paolo, Martini
“politico” e la laicità dei cristiani e, successivo di due anni, Solo la sinistra va in paradiso, e
infine L’Europa che verrà, Non addomesticate Mammona, Politica
o antipolitica?, rispettivamente presso Monti editore (2009), Marietti
1820 (2011) e Cittadella Editrice (2013).
3. Dai tempi ultimi al tempo che verrà
È tempo di un terza immagine di cui
esiste, per altro, la documentazione fotografica. Il 23 aprile del 2017,
nell’ultimo pomeriggio di apertura di Tempo di libri, a Milano, la
presentazione di Resistenza senza fucile vede sul palco Antonio Pizzinato,
Giovanni e chi ora propone queste parole.
Nei temi generali che vengono
sviluppati, dalla dimensione quotidiana del comportamento resistenziale al
raccordo tra azioni di sabotaggio e fabbrica, dal ruolo delle donne ai raccordi
tra centri urbano/industriali e territori di periferia, emerge in modo nitido
ed puntuale la modalità di “interrogare” la storia a cui approda l’elaborazione
di Giovanni e la questione, posta in maniera sempre più esplicita, della
definizione di “un punto di vista”, capace di includere le interpretazioni che
gli studi remoti e recenti hanno
progressivamente aggregato sul movimento resistenziale e, al tempo stesso,
capace di ampliarne la portata oltre ed attraverso le ideologie e facendo
tesoro delle ideologie stesse: senza dichiararle né inadeguate, né superate ma
giungendo a definire una visione generale più ampia e superiore. Ciò che è
problema evidentemente arduo ma che si deve ormai porre come problema non
eludibile in una fase storica come quella dei primi vent’anni successivi al
Duemila in cui non si è più in presenza di soggetti sociali “forti”, di
soggetti collettivi che si pongano come obiettivo il farsi della storia.
Si tratta di un approccio che vale
per i due ultimo volumi editi poco prima dell’estate 2017, mentre Giovanni era
in vita: appunto Resistenza senza fucile e Il lieto annunzio del Bocco, firmato
da Giovanni insieme a Sara, la figlia amatissima che da quattro anni lo ha
preceduto nell’Oltre. Vale e varrà per il prossimo romanzo di cui sono le bozze
sono ormai prossime - … - vale per il testo (a quattro
mani) sul quale si stava lavorando, costruito con percorsi di analisi
all’interno del pensiero di Carlo Maria Martini e di Jorge Mario Bergoglio. Un
testo che mi troverò a concludere da solo e di cui già esiste, deciso, il
titolo: I due gesuiti. Un testo che inizia con le parole, che ci siamo
divertiti a pensare insieme : “Carlo Maria Martini è il papa che non ci siamo
meritati. Francesco è il papa che lo Spirito Santo ha deciso di darci comunque,
perché se avesse aspettato i nostri meriti …”. Ed il punto di vista, definito ed in
costruzione ad un tempo, di questi testi e di quelli rimasti in annotazione di
Giovanni, non è soltanto per un Movimento come le Acli ma, una volta ancora, per
una tendenza, per un modo di testimoniare la fede, per una presenza di vita
cristiana (cercata, almeno…): per un’area, come si dichiarava con minor
precisione in anni lontani, un “insieme” di realtà associate e quotidiane. Per
chi cammini, mai da solo, nei giorni della storia con lo spirito della Lettera
a Diogneto.
Si tratta, una volta ancora, di
spezzoni di pensiero volti a misurasi con la società nella sua concretezza
attuale, ché sempre vale il principio di non dar torto ai fatti, e perciò con
una situazione in cui pare essere diventato orizzonte comune il situazionismo,
profetato, da Guy Debord in un testo, preclaro, anteriore al Sessantotto
francese, ispiratore, in positivo, di tanta creatività movimentista dell’epoca,
mirato a descrivere l’alienazione come generata del comunicare e dl
comunicarsi. Ciò che oggi si può ben osservare in tanta parte
dell’autorappresentazione pubblica del nulla presente nei mondi “social” della
rete. Sono cambiati, insomma, anche gli idoli che affollano i deserti del
sociale su cui Giovanni ‘era soffermato anni addietro. E questo serve per dire
che il problema, adesso, è continuare; che si tratta – drammaticamente più
poveri, certamente più soli – di non interrompere uno stile di approccio e un
filo di pensiero. Continuare è il dovere dell’ora: continuare in una elaborazione,
anche, penso un po’ alle Acli, riprendendosi da momenti di pensiero incerto e
di linea culturale un po’ “dispersa”. Si tratta di darsi strumenti senza
costruire orpelli o macchine improprie: aspettiamoci e prepariamoci a combattere tentativi di appropriazione o di
riduzione di Giovanni a immagine di comodo.
Esistono i Circoli Dossetti: devono
essere il primo strumento. Un piccolo gruppo, degli “allora giovani” che hanno
scritto a lungo con Giovanni, si sta ricollegando in termini un po’
organizzati: sempre come “gruppo di lavoro”, sempre senza nome e intitolazioni:
solo su whatsapp ha come auto/identificazione ironica il nome de “i ragazzi di
piazza Petazzi”. In quella piazza, a Sesto, Giovanni ha sempre avuta casa e
famiglia; li ci vedeva, ospitava, nutriva. Li si scriveva, annotava, tornava. Nessuno
ce lo ha chiesto: lo stiamo vivendo come una chiamata.
Come conclusione: “Te racumandi…”
L’orizzonte, anche questo orizzonte
di un compito da proseguire ci viene, ancora, da Giovanni. E affido il senso di
questa conclusione ad un’immagine, un episodio, di molti anni fa, che rimanda
ancora più indietro nel tempo per riportarci all’oggi. Così si riprende anche
la narratività che è intenzione generale di questo contributo. Una domenica
siamo a pranzo a casa mia, a Cucciago, Giovanni, Silvia, Rachele, mia moglie, e
Greta, la mia (allora) piccola. Da poco Giovanni ha assunto la presidenza
nazionale del Movimento.
Quasi di passaggio ricorda, a un
certo punto, di come suo padre, morendo, giovane, dopo una vita agli altoforni,
in Falk, l’abbia chiamato per dirgli, in dialetto sestese: “Giovanni,
te racumandi i asuciaziun!” (Giovanni, ti raccomando le associazioni).
Rachele commenta: “Chissà come è
contento tuo papà in questo momento”.
E Giovanni, dopo un momento come di
incertezza, movendo appena il capo e quasi stringendosi nelle spalle, conclude:
“Beh... Credo di sì”.
Noi ne siamo sicuri. Mai un lascito
fu tanto rispettato. A noi non tocca di meno.
Note
1.Giovanni Bianchi, L’Italia del dissenso, Queriniana,
Brescia 1968
2.Giovanni Bianchi, L’apprendistato (romanzo), Coines, Roma
1975, p. 106
3. I testi citati sono tutti in
numeri successivi di “Animazione
sociale”
del periodo gennaio 1972-marzo 1973.
4. Jean Cardonnel, Angelo Gennari,
Bernadette Devlin, Nguien Le Träng,
Sandro Antoniazzi, Giovanni Bianchi, Cristiani e internazionalismo,
Quaderni del Centro Operaio, Coines, Roma 1974
5.AA. VV. Le Acli tra interclassismo e scelta di classe, in “Relazioni
Sociali”,
n. 5/6, settembre/dicembre 1973.
6.Giovanni Bianchi, Alberto
Cadioli, Renzo Salvi, L’autonomia alla
prova (1972-1973),
in AA.VV. Le Acli tra interclassismo e scelta di
classe, cit., pp. 58-68.
7.Giovanni Bianchi, Intervento per la sezione Le Acli oggi.
I problemi e le scelte politiche,
culturali e religiose nel dibattito culturale, pp. 69-71
8.G. Bianchi, C .Riva, P. Ingrao, B
.Sorge, R. La Valle, G. Baget Bozzo, D. Rosati,
G. Bonalumi, G. Lauzi, B. Manghi, F. Traniello, D. Mieth, M.
Menant,
Cultura cattolica e egemonia
operaia, Coines,
Roma 1976
9.Gozzini, Menapace, Orfei,
Santini, Drago, Lanfranceschina,
Brezzi, Della Valle, Boato. Fabris, Mongillo, Spallacci,
Gentiloni,
Bianchi, Salvi, Dall’Olio,
Manghi, I cattolici e la sinistra,
Cittadella, Pergola, Santoro, Iannaccone, Alimenti, La Assisi
1977.
10.Giovanni Bianchi (a cura di), Dio in pubblico, interventi di E.
Balducci,
C. Riva, B. Sorge. L. Lombardo Radice, G. Baget Bozzo,
R. Orfei, P. Bassetti, R. Buttiglione, G. Gherardi, G. Girardi, M.
Cuminetti,
P. Bruzzichelli, B. Manghi, R. La Valle, (saggio bibliografico di
R. Salvi),
Queriniana, Brescia 1978.
11.Armido Rizzi, Mario Rena, Luigi
Sartori, Gianni Baget Bozzo,
Dalmazio Mongillo, Enrico Chiavacci, Bruno Maggioni, Michele
Pellegrino,
La fede nella storia, nota introduttiva di Camillo
Monti,
a cura dell’Ufficio Studi, Acli Como 1977/78.
Per i cicli degli anni successivi: Antonio Riboldi, Ernesto
Balducci, Adriana Zarri,
Armido Rizzi, Gianni Baget Bozzo, I cristiani nel mondo. Nota introduttiva di Renzo Salvi,
a cura dell’Ufficio Studi, Acli Como 1979/80; e Arturo Paoli, Pia
Bruzzichelli,
Giovanni Bianchi, Renzo Salvi, Severino Dianich, Giannino Piana,
Chino Biscontin, Luigi Bettazzi, Parlare di Dio in tanta complessità,
a cura dell’Ufficio Studi, Acli Como 1980/1981
12.Giovanni Bianchi (collaborazione
Carlo Penati, Paolo Montesperelli, Pino Trotta),
Dalla parte di Marta. Per una
teologia del lavoro,
Morcellina, Brescia 1986
13.Giuseppe Gini, La formazione del pensiero politico-sociale
di Achille Grandi,
prefazione e cura di G. Cavalleri, “Il Lavoratore Lombardo”,
Quaderno 5, Como, s.i.d.;
Achille Grandi e l’Antifascismo
delle Leghe Bianche, a cura di
Giuseppe Longhi,
con introduzione di Giovanni Bianchi, Quaderni di Realtà Sociale,
Milano 1981;
Giuseppe Longhi, Achille Grandi a
Como. Cristianesimo sociale
e movimento sindacale nel primo Novecento,
a cura dell’Ufficio Studi delle Acli comasche, Como 1984.
Il percorso di recupero di testi e contesti relativi ad Achille
Grandi
si prolunga, ad oggi, sino alla ricognizione sistematica contenuta
in Giorgio Cavalleri,
Reno Salvi (cura di), Chiara Milani (collaborazione),
Parole nella storia, nel ricordo
di Achille Grandi.
Repertorio bibliografico, cine/televisivo e fotografico 196/2013,
Acli Como, Biblioteca Comunale Como, Cisl Como 2013.