INTORNO A FUGHE
di
Lelio La Porta
Lelio La Porta
Riflessioni
sul recente libro di Velio Abati
“(…)
aliquid quo non consuevimus uti, quod nos adventu possit temptare
recenti (…) qualcosa a cui non siamo avvezzi, che possa farci ammalare con
l’improvvisa venuta”(1): è la constatazione di un
fatto, della pandemia della quale mai avremmo voluto sentir parlare e che,
invece, piomba con la sua devastante espansività nel nostro quotidiano. Di
certo Velio ha iniziato, come fa presente nell’Invito, a scrivere le sue riflessioni molto tempo fa, quando il
morbo ancora non infuriava, anzi quando di esso neanche si poteva immaginare
l’essere. Oggi quella situazione di partenza è superata dai fatti e le Fughe si presentano come una
contrappuntistica meditazione su questo tempo e questo mondo. Pensavo al titolo
mentre leggevo i racconti: nulla spartisce la fuga di Velio con quella
suggerita quasi mezzo secolo fa da Henri Laborit. Nel francese quasi lo
spavento di fronte alle cose del mondo, qui, nei racconti di Velio, lo
sconcerto di fronte al mondo che non giunge alla ripulsa, al rifiuto, allo
spaesamento bensì si colloca nel solido terreno di un disincanto quasi
scellerato nell’ansia di ricercare, fra Voci
di donne e uomini, come nella prima parte, oppure fra lo sterminato vocabolario
del non canto della politica e di un’esperienza vissuta su più fronti, fra un
ricordo di Fortini e una terzina di Dante, la solidità di un dire che è anche
un fare, l’amara, seppur non definitiva, consapevolezza che “la merce … è
libertà” (p. 139). Eccola la parola-chiave, anche se affidata ad uno dei
racconti più brevi di tutto il volume (superato in brevità da Congedo nel quale l’amore per
l’insegnamento si traduce nel recupero di un verso famoso dell’Internazionale nel quale si fa riferimento
alla futura umanità); spesso è proprio la brevitas
a dare il segno più tangibile di ciò che si vuole dire. Dunque, la libertà.
La vecchia nutrice di Fedra nella
omonima tragedia senecana, in serrato dialogo con la sua padrona, a
quest’ultima ricorda che qualunque cosa la sorte le serberà come conseguenza
delle sue parole, nulla per lei avrà significato di gravità in quanto “fortem
facit vicina libertas senem”. La
sentenza della nutrice ha, di solito, due traduzioni: “Il coraggio dei vecchi è
libertà che si avvicina” e “O vecchiaia, la libertà vicina ti fa forte”. In
entrambi i casi il significato profondo della proposizione sembra abbastanza
chiaro: chi si avvicina alla vecchiaia, o è già nella vecchiaia (2), sente la libertà,
garantita da un tempo minimo ancora di vita, come un bene da poter coltivare
con assoluto disincanto. In quel tempo chi è vecchio tutto si concede nel
giudizio e nel ragionamento. D’altronde la certezza della fine che si
approssima assicura a chi è vecchio una libertà di parola e di movimento che i
più giovani non hanno, anche in virtù del calcolo delle occasioni che la vita
può ancora offrire loro e che giudizi, tanto coraggiosi quanto imprudenti,
potrebbero mettere in discussione. Quindi, nel ragionamento di un insegnante
ormai lontano dal servizio per raggiunti limiti di età (stato che chi scrive
condivide con Velio) non è la merce ad essere libertà, non il denaro e il suo
uso rende liberi, non il consumo e le sue aberranti applicazioni rendono
liberi, nell’ottica di “una società senza pensiero” (p. 131), ma la libertà è
tale in quanto libertà pensata e agita.
Gli anziani (cerco di capire quanto scrive Velio a
proposito del rapporto fra anziani, ossia insegnanti, nel caso specifico, e giovani,
cioè studentesse e studenti), i quali godono, stando alle parole della nutrice
di Fedra, di una condizione di compiuto disincanto, che sono stati i maestri, e
poi i giovani, che hanno appreso da quegli anziani, non infuturino il loro
apprendimento nelle forme del dominio bensì lo propongano come dirigenti al
fine di non rendere insuperabili le crisi facendone un elemento consolidato.
Non bisogna aspettare, come il Candido di Voltaire, che si manifestino
terremoti, epidemie (cosa che è avvenuta nei modi terribili che ci ha proposto
il Covid 19) e guerre per prendere atto che c’è in corso una crisi che va
risolta senza demandare al futuro la sua soluzione. Questo non è il migliore
dei mondi possibili; è quello che è. E il disincanto compiuto degli anziani,
dei vecchi, può contribuire al raggiungimento della consapevolezza che la prima
fase dell’acquisizione della libertà come cardine intorno al quale ruota intera
la nostra vita passa attraverso l’acquisizione del fatto che noi siamo natura;
il nostro essere natura nella natura non ci costringe né alle forme più
deteriori di determinismo o di necessitarismo, né alla convinzione che la
natura sia un semplice “altro da sé” superabile nella forma superiore dello
spirito assoluto o dell’idea. Come “essere” nella natura, l’uomo libero a nulla
aspira di più che alla “dilectio mundi” o, per dirla alla maniera di Spinoza: “Homo
liber de nulla re minus, quam de morte cogitat, et eius sapientia non mortis,
sed vitae meditatio est” (3).
Il vecchio coraggioso e totalmente libero, avendo meditato su come ha vissuto
la vita piuttosto che su come debba affrontare la morte, lascia alle
generazioni che verranno quest’ultima indicazione di metodo intorno a cosa sia
da intendersi per libertà. Scrive Velio: “…chi incontrerà la mia parola, lo
farà nelle intermittenze della chiacchiera imbonitoria, dello spettacolo
triviale, degli assilli incomponibili del giorno, nelle solitudini affollate,
nell’insensato travolgimento della vita” (pp. 122-3): questa è l’inautenticità
del non essere se stessi, è il contrario della libertà. Se non si è questo, si
è liberi e le parole, anche se pietre, giungono all’orecchio come ammonimenti
lievi e facilmente accettabili. E con il richiamo alla libertà fa il paio
l’insegnamento della speranza che “se è una necessità primaria, non vive senza
alimento” (p. 83). Quindi la speranza non è un apriori astratto, è una
necessità e, come tale, deve essere alimentata: quale l’alimento della speranza
se non la cultura, la letteratura, l’amicizia, la filosofia? E non è forse
speranza “l’eroismo del gracile gigante sardo, che dal buio del suo carcere
scrive le pagine più straordinarie e lucide sulla storia nazionale italiana e
sui compiti del proletariato” (p. 134) für ewig?
Mi
colpisce, quasi mi inchioda, nella sua anche grafica peculiarità rispetto al
tutto (ricorda il modo fortiniano di distinguere e mettere in evidenza alcuni
versi specifici dal contesto con l’uso degli spazi bianchi), l’ultima riga del
racconto Non ho tempo; suona nel modo
seguente: “Non abbiamo tempo” (p. 145). Ritmo della vita accelerato, affanno
della rincorsa alla soluzione di quotidiane ossessioni, il lento ma inesorabile
consumarsi del presente nell’orgia della ricerca del benessere ci fanno dire
che non abbiamo tempo. Il tempo, e lo spazio. Scriveva il “gracile gigante
sardo” alla
cognata Tatiana, il 1° luglio del 1929, mentre rifletteva su come un detenuto
possa trascorrere il tempo: “… il carcerato si sdraia supino nella branda e
passa il tempo a sputare contro il soffitto, sognando cose irrealizzabili …” (4).
Ma aggiungeva che questa per lui non sarebbe diventata consuetudine poiché era
tutto preso dal processo naturale in base al quale la sua rosa si stava
ravvivando (5) e ciò lo spingeva a prendere in considerazione “i fenomeni cosmici” al punto
che “il ciclo delle stagioni, legato ai solstizi e agli equinozi, lo sento come
carne della mia carne; la rosa è viva e fiorirà certamente … insomma il tempo
mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me” (6).
Nel chiuso della cella del carcere fascista lo spazio è evaporato ma il tempo è
sempre più consistente, e il sostitutivo dello spazio è l’eterno ritornare
delle stagioni, scandito dal ravvivarsi della rosa, che spinge all’esercizio
del tendere verso, proprio come il
passerotto posseduto in cella il quale, poiché “conquistava tutte le cime
esistenti nella cella e quindi si assideva per qualche minuto ad assaporarne la
sublime pace (…) credo che avesse uno spirito eminentemente goethiano, come ho
letto in una biografia a proposito dell’uomo biografato. Ueber allen Gipfeln!” (7).
E questo passerotto, descritto con “osservazioni minute e curiose” (p. 115) da
Gramsci, è nella mente di Velio.
La dimensione del tempo come uno
scorrere incessante e continuo conduce Gramsci alla consapevolezza che non
esistano datazioni in grado di porre un limite alle vicende umane; il passato è
legato al presente che, a sua volta, è proiettato für ewig: “Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa
del cielo, sento che per me è Capodanno. Perciò odio questi capodanni a
scadenza fissa (…) essi fanno perdere il senso della continuità della vita e
dello spirito. (…) Perciò odio il Capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me
un Capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni
giorno. (…) Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a
quelle trascorse” (8).
Riferendomi al “gracile gigante sardo” mi ritorna
improvvisamente in mente, e per concludere, Congedo
(p. 121). Qui Velio fa riferimento alla reciprocità dell’insegnamento, allo
scambio continuo fra docente e discente: “…il
rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e
pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro” (9).
E ciò è ancora più valido nell’attuale scienza dell’educazione che non può
arrendersi di fronte alla sfida del senso comune informatico e tecnologico, del
quale può acquisire soltanto gli strumenti. Il resto è dura fatica del concetto
(p. 83) (10) che si realizza in un lavoro duale (docente-discente) che deve proporre lo studio disinteressato e per sempre, cioè für ewig, come fine e come mezzo non dimenticando mai i due
obiettivi principali: “ 1) Bisogna creare gente sobria, paziente, che non
disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza (…) (11);
2) Occorre (…) violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole
trasformarlo (…)" (12).
Insomma
quanto di Gramsci c’è in questi racconti che, molto spesso, assumono il carattere
aforistico senza mai cedere al
tono della sentenza o della chiusura del discorso. Anzi in essi vivo il dubbio
riassumibile nelle tre domande: “In nome
di chi parlo? ... A chi parlo? ... A che serve ciò che dico?” (pp. 122-3).
Domande indiscrete? Forse lo sono più le risposte, anche se soltanto intuite da
chi legge poiché non dette, in quanto in esse c’è un fondo di amarezza
ma c’è anche la speranza. Insomma, anche qui, il “gracile gigante sardo” ci
viene incontro: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.
Note
1. Lucrezio, De rerum natura, VI, 1136-1137.
2. A tal proposito va
ricordata la sentenza di Publio Terenzio Afro nella commedia Phormio: “Senectus ipsa est morbus”.
3. B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata,
prop. LXVII.
4. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di F. Giasi,
Einaudi,
Torino, 2020, p. 385.
5. Tatiania Schucht, cognata
di Gramsci, ricorda che, nel corso di una visita al detenuto nella primavera
del 1929, “Antonio mi chiese con insistenza una rosa rampicante, obiettai che
non ritenevo opportuno che si facesse un pergolato in carcere, non volendo
dovere goderlo [sic], e Antonio rispose che sapeva invece di dovere stabilire
mentalmente la sua esistenza per lunghi anni a Turi quindi poteva bene
desiderare di avere un rosaio che avrebbe fatto salire lungo il muro, sino alle
celle” (T. Schucht, I colloqui che ho
avuto, in A. Gramsci-T. Schucht, Lettere
1926-1935, a cura di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino 1997, p.
1438).
6. A.Gramsci, ivi, p. 386.
7. A. Gramsci, ivi, p. 131.
8. A. Gramsci, Capodanno in Avanti!, 1° gennaio 1916, ora in Edizione nazionale degli scritti
di Antonio Gramsci, Scritti (1910-1926),
vol. I (1910-1916), a cura di G. Guida e Maria L. Righi, Treccani, Roma,
2019, p. 66.
9. A.
Gramsci, Quaderni del carcere, a cura
di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, 1331.
10. “Pensieri
veri e penetrazione scientifica si possono guadagnare solo nel lavoro del
concetto. Soltanto esso può produrre l’universalità del sapere” (Georg Wilhelm
Friedrich Hegel, Fenomenologia dello
spirito, cit., p. 59). Il termine
“lavoro” traduce il tedesco “die Anstrengung”, che significa propriamente
sforzo, fatica. Ma già Virgilio nelle Georgiche
(I, 145-146) si era espresso nel modo seguente: “Labor omnia vicit improbus…
(Il duro lavoro vince ogni difficoltà…)”.
11. A.
Gramsci, ivi, pp. 2331-2.
12. A. Gramsci, ivi, p.,
1131.