INCONTRI
Conversazione
con Niccolò Nisivoccia
Niccolò Nisivoccia
In
occasione dell’uscita del suo nuovo libro.
ODISSEA:
Variazioni
sul vuoto
alterna proposizioni più articolate e distese, ad altre talmente stringate e
secche nel loro dispiegarsi, da conchiudersi nello spazio di un solo rigo.
NISIVOCCIA: Sì, è vero, è così. Forse
però le proposizioni stringate e secche prevalgono su quelle più distese, e
forse non è un caso: è un po’ come se alle proposizioni articolate e distese
corrispondesse un desiderio o una funzione di pausa, di sospensione. Il verso
lapidario chiama alla verticalità, all’immersione; la frase più compiuta
consente di riemergere, di riprendere fiato, di riposare, prima di immersioni
ulteriori. Ed è come se lo consentisse non solo al lettore ma anche a me stesso:
come se anch’io avessi per primo il bisogno, di tanto in tanto, di fermarmi e di
tirare il fiato. Ecco: le proposizioni distese sono meno numerose di quelle
lapidarie proprio per questo, credo, perché tutto sommato non occorre
riprendere fiato in continuazione…
Niccolò Nisivoccia |
N. Nisivoccia
ODISSEA:
La
brevità ti è congeniale ed è una cifra che oramai ti appartiene. Mi pare
un’alchimia ben riuscita perché permette alle variazioni più
distese di farsi pensiero filosofico, speculazione intellettuale, poesia; e a
quelle brevissime e fulminanti di assumere il carattere dell’illuminazione e
dell’aforisma.
NISIVOCCIA:
Personalmente
mi piace chiamare “frammenti” questi miei testi, così come quelli della mia
raccolta precedente, “Sulla fragilità”. Non sono poesie vere e proprie, dal punto di vista estetico prima ancora
che formale, ma direi che non si tratta neppure di aforismi o comunque di prosa.
Si tratta però di testi, almeno nelle mie intenzioni, attraversati e sostenuti
da una loro musicalità: e la musicalità, il ritmo mi sembrano attributi tipici
della poesia più che della prosa. In alcuni casi è perfino presente la
rima, per quanto spesso magari involontaria, e comunque al verso mantengo sempre almeno un’allusione, se non un’aspirazione vera
e propria. Del resto il nostro modo di scrivere è inevitabilmente
influenzato dai testi con i quali ci siamo formati e che amiamo, e qui non
posso non confessare il mio amore nei confronti di quelli che per me
rappresentano da sempre o quasi sempre dei punti di riferimento universali:
Sandro Penna, Giorgio Caproni, René Char ed Edmond Jabès, tutti caratterizzati -
se ci penso - da una scrittura brevissima, essenziale, a volte addirittura
quasi solo nominale (per non dire oracolare, nel caso in particolare di Jabès).
ODISSEA:
La parola
vuoto permea l’intera parabola del tuo libro ed è presente in quasi
tutte le 129 variazioni che compongono le 52 pagine. In fisica il vuoto
è assenza di materia, ma qui si tratta di un vuoto così pieno che più pieno non
si potrebbe, riempito com’è di visioni, emozioni profonde, sentimenti, sguardi,
dettagli, memorie, lacerti di esistenze…
NISIVOCCIA:
Giovanna
Rosadini, che è non solo una grande poetessa ma anche una grande amica, mi ha fatto un’osservazione che secondo me coglie
il cuore della questione evocata proprio da questa domanda: a me pare che tu,
mi ha detto Giovanna, il vuoto lo intenda e lo scandagli secondo una visione
molto occidentale, diversa dal vuoto come compimento tipica invece delle
religioni e delle culture orientali. Come a dire che nel vuoto delle mie
“Variazioni” è comunque imprescindibile la presenza dell’io. Ed è vero:
premesso che non avevo né ho una tesi da dimostrare o anche solo un’ipotesi da
sperimentare e verificare (da questo punto di vista rivendico la piena
appartenenza alla poesia delle “Variazioni”, godendo la poesia di questo
privilegio di poter permettersi l’incoerenza), al centro dei miei frammenti è
sempre forte la presenza di un io, tanto in relazione a sé stesso da un lato quanto
in relazione al mondo che lo circonda da un altro lato. In effetti è l’opposto
del pensiero orientale, se solo pensiamo che in uno dei testi cardinali del
taoismo troviamo ad esempio un pensiero come questo: L’uomo è perfetto senza
io. Per quanto mi riguarda vale il contrario: l’uomo non può fare a meno del
proprio io, ed è proprio questo io a fondare la nostra visione del mondo. Un io
complesso, molteplice, variegato, abitato da molte stanze, ma pur sempre
individuale. A me piace pensare e dire che ognuno di noi è un cosmo, una
cosmologia; e che dentro ognuno di noi c’è un parlamento interiore, formato da
tutte le presenze significative della nostra vita, vive o morte che siano, con
le quali continuamente ci confrontiamo e facciamo i conti (qui rubo queste
espressioni - “cosmologia” e “parlamento interiore” - ad Adolfo Ceretti, che è
un celebre criminologo con il quale l’anno scorso ho scritto un libro a quattro
mani, “Il diavolo mi accarezza i capelli”, che si sofferma molto su questi
temi). Insomma: voglio dire che il nostro io è formato da tutte queste
presenze, dai tanti tu con i quali dialoghiamo continuamente; ma alla fine è
comunque il nostro io. E l’idea del parlamento interiore mi piace molto proprio
perché trovo che restituisca molto bene l’idea della singolarità ma insieme
anche della molteplicità di ciò che siamo.
Il poeta in una suggestiva immagine
ODISSEA:
C’è, in
questo tuo lessico scarno ed essenziale, come un tentativo di restituire alle
cose tutta la loro leggerezza; un’essenza vera spogliata da ogni orpello. Una
specie di folata di vento, un flatus vocis, fragile e vacillante come è in
fondo la vita di ogni essere umano.
NISIVOCCIA:
Forse è
proprio qui, in questa leggerezza, in questa essenza spogliata da orpelli, il
senso del vuoto a cui faccio riferimento: al vuoto, voglio dire, inteso come
condizione esistenziale. Certo: rimane ferma, per me, quella presenza imprescindibile dell’io di cui parlavo. Ma sono
altrettanto contrario all’idea secondo cui tutto debba sempre per forza
rientrare dentro un sentiero già tracciato o seguire una rotta predeterminata e
secondo cui, in ultima analisi, tutto debba sempre per forza avere un
significato e rispondere a un senso preciso e compiuto. Se vogliamo anche
questa è una concezione abbastanza occidentale delle cose: ma in questo caso mi
sento molto poco vicino a questa concezione, proprio perché mi sembra contenere
in sé delle preclusioni, o delle limitazioni. Una scrittrice meravigliosa come Clarice
Lispector ha scritto: Non voglio avere la limitazione terribile di chi vive
soltanto di quanto può avere senso. Ed è un pensiero che sottoscrivo in pieno.
La stessa Lispector aggiungeva che è solo nel momento in cui ci abbandoniamo e
ci affidiamo al Nulla insensato, che può accadere il miracolo: sentire in
bocca, come fosse un elemento, il sapore del tutto.
ODISSEA:
Mi ha
molto colpito anche l’andamento interrogante di Variazioni sul vuoto:
una interrogazione densa ed esistenzialmente preziosa. Introspezione e sguardo
all’oggettività mi sembrano in continuo dialogo.
NISIVOCCIA:
Credo c’entri quello che
dicevo ora sul vuoto come condizione esistenziale, alla quale riconoscere un
senso in sé stessa. Nel vuoto, per definizione, c’è spazio per tutto: per noi
stessi in tutte le nostre infinite possibilità di essere, anche in tutte le
nostre inevitabili mancanze e contraddizioni, in tutti i nostri inevitabili
inciampi, in tutte le nostre deviazioni, in tutti i nostri smarrimenti, i
nostri tormenti; e c’è spazio per tutto ciò che il mondo e la vita ci offrono,
in tutte le loro possibili svolte e declinazioni. C’è lo spazio per il nostro
bisogno di silenzio, in certi casi, come di parole che lo riempiano, in altri
casi; per il nostro bisogno di solitudine, a volte, come di compagnia e di
comunione, altre volte; c’è spazio per le assenze come per le presenze; per il
senso del sacro, inteso come distanza, che spetta a noi di colmare, fra noi e
ciò che forse sta sopra di noi, così come per il terreno o per il profano.
ODISSEA:
La poesia
si fa spesso saggezza, e può concentrarsi in un solo felicissimo rigo come in
questo: “Abitare la luce dei giorni, renderle quotidiano onore”.
NISIVOCCIA: Sei gentile Angelo, e
tutte le tue considerazioni sui miei frammenti, come questa, mi lusingano. Sono
il frutto di un’attenzione che di per sé manifesta una grande generosità. Io
credo che chi scrive poesia debba guardarsi bene dal voler elargire saggezza,
come se il solo fatto di scrivere autorizzasse a pensare di aver qualcosa da
insegnare. No: chi scrive può al massimo interrogare sé stesso. E mi sembra già
moltissimo. Dicevo del vuoto come spazio per accogliere tutto ciò che il mondo
ci offre. E cos’altro è la luce, la luce dei giorni, se non il primo degli
elementi incarnati del mondo ai quali abbiamo solo da aprirci? Come una stanza
di cui apriamo le finestre. Io credo che in una semplice giornata di sole sia
contenuta più verità che in qualunque pensiero astratto: ed ecco, se parliamo
di saggezza, questa è forse l’unica verità che riesco a darmi.
ODISSEA:
Ogni
pagina contiene rigidamente una triade di variazioni senza mai derogare; c’è,
credo, in questa scelta, una ratio ben precisa. Puoi spiegarla ai nostri
lettori? Vorrei inoltre chiederti una definizione personale di
questo libro, e di svelarci l’equilibrio che lo sorregge.
NISIVOCCIA:
Beh, direi
che le “Variazioni” sono qualcosa di molto simile a quello che era la mia raccolta
precedente: un aggirarsi, quasi un peregrinare intorno a questo centro - il
vuoto - cercando di intercettarne tutte le possibili declinazioni e
diramazioni, o almeno quante più possibile. Esattamente come la mia raccolta
precedente si aggirava intorno alla parola “fragilità”. E del resto è comune
alle due parole, “vuoto” e “fragilità”, questa loro capacità polisemica, questa
ampiezza semantica ed evocativa, questa capacità di assumere significati
diversi o sfumature nuove nelle infinite aree tematiche nelle quali la vita a
sua volta si declina e si realizza: la vita stessa nella sua dimensione interna
e relazionale, la psicoanalisi e la psichiatria, la politica, la letteratura,
l’arte, la storia, la religione, la filosofia. Ma soprattutto mi fa piacere
spiegare la suddivisione in triadi di ogni pagina, e mi fa piacere perché
quella suddivisione è il frutto di una scelta di Angelo Scandurra, l’editore da
cui le “Variazioni” sono state pubblicate (e che aveva pubblicato anche “Sulla
fragilità”). Angelo è morto nei primi giorni di gennaio, improvvisamente, e la
sua morte per me è stata una cosa molto grave e di una tristezza infinita,
perché la sua era una presenza molto importante nella mia vita. Angelo era non
solo un editore raffinatissimo ma anche un grande poeta. E soprattutto,
soprattutto, era un animo nobile e puro. Come poeta, a ricordarlo basterebbe
un’opera per tutte: quella “Quadreria dei poeti passanti”, pubblicata da
Bompiani nel 2009, nella quale - attraverso una serie di brevi poemi in prosa così
densi da sfiorare l’inafferrabilità e l’inesplicabilità - riesce a restituire
il senso di inafferrabilità della vita stessa e l’idea secondo cui la vita può essere vissuta solo
rispettando appunto questa imperscrutabilità, cercando di coglierne semmai
tutte le possibili dolcezze nascoste nei suoi angoli. E come editore basti dire
che nel suo catalogo sono presenti autori quali Roversi, Rigoni Stern, Sciascia, Consolo, Sgalambro.
Ora la mia speranza è che tutto questo possa comunque proseguire: tutta
l’attività editoriale svolta da Angelo negli ultimi anni doveva già moltissimo
alla bravura, alla sensibilità e alla disponibilità di Vasco, uno dei suoi due
amatissimi figli, e la speranza è che proprio Vasco possa e voglia raccogliere
quell’eredità.
La copertina del libro
Niccolò
Nisivoccia
Variazioni
sul vuoto
Le
Farfalle Ed. 2020
Pagg.
52 € 10,00
[Intervista
a cura di Angelo Gaccione]
La copertina del libro |