SVILUPPO NON SOSTENIBILE
di
Paolo Vincenti
Chernobyl
Dove
ci conduce la scienza? In questi ultimi giorni, subito dopo l’anniversario del
disastro di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile, si ritorna a parlare della
centrale nucleare poiché alcune reazioni di fissione sono state registrate nel
reattore 4. Tutti i media hanno dato risalto a quanto denunciato dalla rivista
Science, secondo la quale un nuovo disastro nucleare potrebbe vedere coinvolta
la centrale ucraina. Chernobyl ci
riporta alla memoria delle immagini forti, dense di significato, pregne di
storia. Sono quelle immagini che noi ragazzi degli anni Ottanta abbiamo
assorbito senza accorgerci, che sono entrate in maniera indelebile nel nostro
bagaglio iconografico. La grande ciminiera che fuma, le esalazioni, poi i
bambini deformi fatti vedere dalla trasmissione di Raitre “Fuori orario”,
trasmessa a tarda notte. Tutto questo era Chernobyl, emblema del fallimento
dell’economicismo che ha dominato le scelte politiche del XX secolo, come
scrive Umberto Cerroni (in Taccuino
politico-filosofico 2000, Manni Editore, 2001), in entrambe le direzioni
del liberismo e del suo opposto, il socialismo. L’incendio si diffuse in
maniera 400 volte maggiore della boma atomica di Hiroshima. Oggi quei tempi
sembrano lontani, ma non così il pericolo di una nuova immane tragedia. Ne
abbiamo visti di disastri, in questi ultimi anni. Ciò perché l’uomo non riesce
a prendersi cura di questo vecchio pianeta.
Ormai
da decenni si è posto il problema dello sviluppo sostenibile. Come si può leggere in Sviluppo sostenibile. Riflessioni attorno ad una teoria controversa,
a cura di Marino Ruzzenenti, in “www.fondazionemicheletti.it”, a partire da
Georgescu-Roegen, che lo teorizzò nel 1971 nel suo saggio Entropy Law and the Economic Process, molti studiosi hanno
affrontato il problema dell’emergenza ambientale che è strettamente legata con
l’economia e con le scelte governative.
Chernobyl |
Fukushima
Il saggio fa capire come centrale sia l’importanza dell’economia ecologica e come, per far fronte al grande problema ambientale, non sia di aiuto neppure “la critica all’economia classica e neo-classica che ha segnato l’intero Novecento e che si è proposta come alternativa di sistema al capitalismo: il marxismo e l’economia socialista”, perché anche questa fallimentare. Emblematico in questo senso, proprio il disastro di Cernobyl che, come detto sopra, ha dimostrato, nell’allora Unione Sovietica, che non aveva futuro il modello teorico marxista; infatti, sebbene l’industria fosse di proprietà statale, ciò non ha impedito il disastro e i danni derivanti da un cattivo sfruttamento delle risorse. Si è imposto allora un nuovo modello, chiamato “ecomarxismo”, teorizzato da James O’Connor, che ha avuto un certo seguito in Europa. “Dunque anche per questa via si ritorna comunque alla politica come luogo privilegiato in cui forse è possibile superare i limiti di tutte le teorie economiche rispetto alle tematiche ecologiche, limiti che appaiono ancor più invalicabili quando l’economia si suppone scienza autosufficiente e si rinchiude in un orizzonte crematistico (studio della ricchezza). Da questo punto di vista si avverte allora quanto mai stonato il coro pressoché unanime che negli ultimi tempi si leva da tutte le parti (da Ovest a Est, dal Sud al Nord) ad esaltare il Mercato e le sue mirabili leggi finalmente riconosciute anche dai più riottosi. Mentre, invece, appare su questo punto significativa la riflessione del filosofo Emanuele Severino che in diversi suoi saggi rileva come il capitalismo si starebbe avviando verso il tramonto proprio perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto che è la sua ragion d’essere. E ciò deriva dal fatto che si sta diffondendo nel mondo la consapevolezza che la produzione capitalistica della ricchezza potrebbe portare in breve tempo alla distruzione delle condizioni della vita umana sulla terra.” (Sviluppo sostenibile. Riflessioni attorno ad una teoria controversa, cit.)
I
disastri ambientali hanno posto all’attenzione dell’opinione pubblica e di
conseguenza dei governi mondiali un nuovo modo di intendere le politiche
industriali e hanno dimostrato la necessità di dare un corso più regolato allo
sviluppo scientifico altrimenti incontrollato. Cioè, facendo una più oculata
gestione dei rischi e coinvolgendo le popolazioni nelle scelte che hanno un più
grosso impatto ambientale, per evitare che il corso di progresso intrapreso da
tutte le democrazie occidentali possa portare verso ulteriori disastri, verso
derive in cui la technè non sia sposata alla humanitas. “Col
tempo potrete scoprire tutto quanto è dato scoprire e il vostro progresso sarà
solo un allontanamento dall’umanità”, scrive Bertolt Brecht nel Galileo.
Chernobyl
fu come un pugno nello stomaco per noi ragazzi di allora. Era l’era della
glasnost di Gorbaciov e poi del golpe di Eltsin. Dopo, ci fu la grande
trasformazione, o per meglio dire la polverizzazione, dell’Urss, in una miriade
di stati indipendenti. Oggi, con la lunga era di Putin, non ha più senso parlare
di economicismo, men che mai di socialismo. Le imprese sono in mano a privati,
quasi sempre amici dello zar stesso, e in Russia trionfa un capitalismo
familistico rampante e spregiudicato anche più di quello americano. Il
progresso tecnologico e scientifico però ha subìto un brusco rallentamento:
viene incoraggiato quello spaziale, che porta grande visibilità nel mondo alla
nazione russa, ma non quello interno che serve a migliorare le condizioni di
vita della popolazione, che infatti si è impoverita drammaticamente.
Oggi
ci siamo accorti che il modello di sviluppo che propone il mondo moderno è
storto, incompleto, non più sostenibile. Le emissioni di gas serra
nell’atmosfera e i cambiamenti climatici sono a dimostrarlo. Occorre bilanciare
delle politiche energetiche sull’uso di fonti rinnovabili, non possiamo restare
legati esclusivamente ai combustibili fossili che continuano a inquinare. In
tutti gli incontri al vertice fra gli Stati viene proclamata questa solenne
verità, i vari ministri dell’ambiente si impegnano a firmare accordi comuni, ma
poi i risultati concreti tardano ad arrivare. Sembra che questi convegni
mondiali offrano solo la possibilità agli esperti ambientali di mettere in
mostra la loro competenza, ratificata con la pubblicazione degli atti, ma
azioni concrete non ne vengono esperite. Le cosiddette “buone prassi” sono
buone solo sui titoli dei convegni e delle pubblicazioni scientifiche dedicate.
A partire dalla famosa Conferenza di Kyoto, c’è un’ambiguità di fondo, una
ambiguità non risolta, come scrive ancora Marino Ruzzenenti. In tutti i
convegni fatti sul clima, a partire da Kyoto, «forse l’occasione più
significativa per verificare l’efficacia del progetto ONU di sviluppo
sostenibile, il prevalere della solidarietà intergenerazionale dei paesi ricchi
a scapito di quella intragenerazionale tra ricchi e poveri è evidente laddove
il protocollo conclusivo ammette la possibilità di “commercializzare” le quote
di emissione oppure introduce il meccanismo della “joint implementation”, cioè il
trasferimento di tecnologie nei paesi non sviluppati per conseguire
abbattimenti di emissioni, come compensazione della mancata riduzione delle
emissioni da parte dei paesi sviluppati. Ciò significa, in sostanza, permettere
ai paesi ricchi di perpetuare il proprio ipersviluppo e di garantirlo anche
alle “proprie” generazioni future, scaricando gli oneri della sostenibilità sui
paesi poveri».
In questo caso, la formula sviluppo sostenibile rappresenterebbe
un ossimoro inconciliabile ed anche per questo negli ultimi tempi, «i critici
dello “sviluppo sostenibile”, rilanciano il discorso sull’“ecologia dei
bisogni”, in senso non mercantile, a partire dai bisogni di socialità e di
rapporti umani non mediati dal valore di scambio e dalle merci, il che significa
privilegiare “la dimensione contemplativa delle relazioni tra esseri umani e
con la natura” per una “buona vita”, in cui l’economico torni ad essere
strumentale (una sorta di “grande trasformazione” descritta da Polany, ma
rovesciata). Da qui la critica radicale allo sviluppo e la ricerca di un nuovo
orizzonte “oltre lo sviluppo” reale». E si parla allora di uno sviluppo
alternativo, che sappia andare oltre la fredda logica dei numeri, superare lo
strapotere del Pil, cioè del benessere inteso soltanto come aumento del
prodotto interno lordo e considerare lo sviluppo invece come connesso alla
salute della gente, all’allungamento della vita media e insomma a tanti fattori
che non sono prettamente economici. “Nell’arduo tentativo di colmare certe
lacune, si stanno cimentando da anni alcuni studiosi di diversi paesi che
lavorano ad un’ipotesi di radicale critica alla teoria economica dominante
negli ultimi due secoli, assumendo come paradigma il patrimonio Natura per
definire l’efficienza della stessa economia umana.”
Capirà
l’Occidente che occorre correre ai ripari? Già Einstein diceva che gli effetti
distruttivi della scienza dimostrano chiaramente quanto siamo lontani dallo
sfruttamento organizzato di queste scoperte per il benessere dell’umanità. Ma
noi dobbiamo coltivare la speranza, quella di cui Max Born dice “c’è ancora, ma
si realizzerà solo se non lasciamo nulla di intentato nella lotta contro le
malattie del nostro tempo”.