“E DEI REMI FACEMMO ALI AL FOLLE VOLO”
di Paolo Vincenti
Toccare il cielo con un dito. Il
sogno di volare è vecchio quanto l’uomo. Grattare il cielo, avvicinarsi a Dio,
solcare le immensità celesti: l’uomo vuole liberarsi dalle catene, librarsi in
volo, anche se la natura non gli ha concesso questa facoltà. Così costruisce
potenti mezzi per solcare il cielo. Dagli alianti ai jet supersonici, fino ai
razzi spaziali, il volo è il risultato della bramosia umana di spaziare al di
là dei confini, di superare le leggi di gravità, di vincere l’ordine fissato
dalla natura. È dall’invidia per gli uccelli, che è nato l’aeroplano. E lo
sapeva bene Leonardo Da Vinci, che scrisse proprio un trattato sul volo degli
uccelli. Quell’invidia che dovevano serbare i fratelli Montgolfier, e che li
portò alla straordinaria invenzione del pallone aerostatico, ma soprattutto che
dovevano serbare i fratelli Wright, che crearono il primo rudimentale aereo.
“Che più ti resta?” scriveva Vincenzo Monti nell’ode Al signor di Montgolfier, “infrangere anche alla Morte il telo, e
della vita il nettare libar con Giove in cielo”. L’uomo cerca di squarciare “quel telo” da che
mondo è mondo, come conferma l’episodio biblico della Torre di Babele.
Uli Emanuele era un ragazzo spericolato, amante del brivido e
dell’assurdo, un impasto di istinto e calcolo, muscoli e cervello,
esibizionismo e spregiudicatezza, preparazione atletica e follia pura. Uli
Emanuele, 29 anni, altoatesino, era un base jumper, cioè un praticante di
quello sport estremo che consiste nel lanciarsi in volo libero da pareti e costoni
rocciosi in cerca di quel brivido che non può capire chi, come me, scrive su un
pc al tavolo da lavoro con i piedi ben piantati per terra. Era fra i massimi
esponenti al mondo di questa pratica. Si lanciava con una tuta alare da
altissime montagne riprendendo tutto con la telecamera e postando sui social.
Ma il tempo del verbo usato purtroppo non dà adito a dubbi. Uli Emanuele “era”,
appunto, e non è più. Tantissimi ragazzi praticano questo sport estremo con una
telecamerina e il gps sempre montati sul casco, ma Emanuele era davvero un
fuoriclasse; in grado di centrare obbiettivi molto difficili. Qualche mese fa,
si era lanciato lungo uno strettissimo canalone nelle Dolomiti riuscendo alla
velocità di 150 km orari a passare incolume attraverso un pertugio nella
roccia. Il filmato che si trova in rete è davvero impressionante. Poi, il
famoso base jumper si è schiantato sulle montagne della Svizzera. Qualcosa è
andato storto nel suo ultimo volo. Stava seguendo un amico, che si era lanciato
insieme a lui, per riprendere l’impresa con la telecamera. La tuta alare non ha
funzionato bene ed Emanuele ha impattato sulla parete rocciosa. L’elisoccorso
ha recuperato il suo corpo maciullato dopo molte ore. I giornali e i tg hanno
dato ampio risalto alla morte del “ragazzo con le ali”. Uli affermava nelle
interviste di fare molta attenzione e di preparare i suoi salti per mesi e
mesi, di non lasciare nulla all’improvvisazione, insomma. Ma questo non è
bastato a fargli evitare l’Averno. Emanuele aveva ereditato la passione del
padre, paracadutista anche lui. Solo che il ragazzo ad un certo punto aveva
trovato maggiore soddisfazione nel fare a meno del paracadute. Il suo “folle
volo” ha messo fine ad una carriera e ad una vita fuori dall’ordinario. Chissà
se il padre, come il mitologico Dedalo, aveva sconsigliato ad Uli, novello
Icaro, di tentare quell’ultima impresa. Probabile che gli avesse chiesto di non
fare il volo dell’attraversamento della cruna della roccia o di qualche
altrettanto spericolata acrobazia e non quest’ultimo salto. Ma poco importa.
Uli ha fatto la fine del personaggio mitologico, reo di eccessiva baldanza, il
quale per aver voluto avvicinarsi troppo al sole ne riportò le ali sciolte e
così cadde rovinosamente nel mare sotto gli occhi attoniti del padre. Ed ha
fatto la fine di Simon Mago, il quale voleva umiliare gli Apostoli, sfidando
Pietro e Paolo sul piano dei miracoli, ma cadde dal Foro Romano, mentre tentava
di lievitare, e si sfracellò al suolo e venne anche lapidato dalla piazza.
Insomma, è sempre la stessa storia che mitologia e religione insegnano: la ubris umana e la tisis divina, l’orgoglio dell’uomo e la punizione della divinità,
la insostenibile tracotanza punita dal giusto castigo.
Luke Aikens, 42 anni, il primo uomo a lanciarsi senza paracadute
da un’altezza di 8000 metri centrando una rete di 30 metri per 30 che lo
attendeva a terra. Da 8000 metri, alla folle velocità di 200 km all’ora, con la
rete che da quell’altezza non era nemmeno un puntino lontano, questo
spericolato americano entra nel guinnes dei primati. Ma la morte in questi
sport estremi è sempre dietro l’angolo, è la variabile temuta, l’incidente
prevedibile ma imprevisto, il calcolo incalcolato, il conto che non torna,
l’ala nera del fato. Profanare i sacri spazi della montagna (ricordiamo che le
vette dei monti nell’antica Grecia erano considerate dimora degli dei e perciò
inaccessibili), spingersi dove fanno i nidi le aquile, pretendere di violare
con dei calcoli aritmetici le più pericolose cime alpine, di addomesticare la
natura selvaggia, di piegarne all’ambizione umana gli elementi, ha del
titanico, sa di protervia, di onnipotenza, e a volte questa aspirazione viene
sconfitta, mortificata, come accadde ai Giganti che sfidarono gli Dei
dell’Olimpo, in Esiodo. Chi sfida la morte, ne può finire battuto, annullato. E
tre alpinisti svizzeri, infatti, sono morti sul Monte Rosa. La cornice di neve
che stavano scalando ha ceduto e sono precipitati per circa 800 metri in basso.
Così a volte il volo, da ascesa al cielo, diventa discesa all’inferno.