È VERA SVOLTA?
di Alfonso Gianni
Elly
Schlein. Una svolta circondata da molti “ma”.
La
splendida manifestazione antifascista di Firenze, carica di significati
attualissimi, ci ha regalato, tra le molte immagini, quella di Schlein,
Landini, Conte che marciano uniti: una foto di gruppo diventata una icona. Tre
volti, tre figure che potrebbero rappresentare un possibile schieramento
d’opposizione che si rapporta a una dimensione sociale e, a sua volta, una
proposta di coalizione sociale, annunciata ma fin qui trascurata, che riprende fiato
e corpo in relazione con una dimensione politica senza confusione di ruoli.
Eppure ci sono molti ma che ci separano da un simile wishful thinking. E i ma
stanno soprattutto sul versante di Elly Schlein nella sua qualità di ultima
arrivata senza che ce ne accorgessimo, come lei stessa si è autodefinita. In effetti
l’esito dei gazebo è stato per i più, fra cui chi scrive, una sorpresa. Che
però, a guardar bene, deriva più da una nostra ottica sbagliata che non da una
straordinaria performance della nuova
segretaria. È come se avessimo introiettato il fatto che dopo che le precedenti
primarie avevano sempre confermato il dato uscente dal voto “interno”, così
sarebbe successo anche questa volta. In realtà avremmo dovuto stupirci del
contrario, cioè del fatto che non fosse accaduto già da prima. Non ci mancavano
gli elementi per essere più avvertiti. Infatti, - lo ha scritto Antonio
Floridia in un suo recentissimo libro - il modello originario con cui è nato il
Pd, oltre alla indeterminatezza ideale, politica e sociale, comprendeva anche
il carattere del tutto indefinito dei confini della nuova organizzazione. Lo statuto,
approvato il 16 febbraio del 2008 definiva il Pd come un partito “costituito da
elettori e da iscritti”. Lo stesso ordine con cui i due soggetti vengono
nominati non è essere casuale visto che è stata ripetuto senza modifiche nelle
successive versioni statutarie, compresa quella del 2021 che appare in Gazzetta
Ufficiale. Ovviamente chiunque può attribuirsi la qualifica di elettore,
essendo questa del tutto inverificabile, dal momento che per la nostra
Costituzione il voto è libero e segreto. E non c’è Albo che tenga. Se poi si
aggiunge la continua diminuzione degli iscritti negli anni - non corretta dal
passaggio da 80 mila a 150 mila durante quest’ultimo percorso congressuale -; l’assenza di prerogative decisionali dell’iscritto
rispetto al comune, vero o presunto, elettore, e soprattutto il fatto che tra
gli iscritti al Pd e il suo elettorato non esiste un rapporto quantitativo
misurabile, la sorpresa per l’esito delle cosiddette primarie si ridimensiona
non poco. Non c’è bisogno di immaginare disegni machiavellici dietro quel voto.
Può valere l’interpretazione più favorevole: esiste una sinistra diffusa non
inquadrata in organizzazioni partitiche, ma non ancora definitivamente
sfiduciata dalle cattive prove della politica e del Pd in particolare.
Piuttosto
serve chiedersi quale significato avesse quel voto. Siamo sicuri che si sia
votato solo per eleggere la segretaria di un partito “di elettori e di
iscritti” o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle
destre e al loro governo? Osservando la campagna della Schlein e le sue
successive dichiarazioni, emerge più questa seconda figura che non la prima.
Che poi possano sovrapporsi è ovvio, come succede di solito, ma qui è
importante cogliere il senso prevalente di quel voto.
Attraverso
questa lente andrebbe quindi in primo luogo misurata l’adeguatezza di Elly
Schlein. E qui i “ma” si moltiplicano. Finora i suoi atti pubblici appaiono
come delle risposte necessarie alle mosse del governo e delle destre. Cosa
indispensabile, ma non sufficiente. Costruire un’opposizione significa in primo
luogo, ce lo ripeteva Stefano Rodotà, definire un’agenda alternativa a quella
del governo e non semplicemente giocare di rimessa. Si potrebbe obiettare:
verrà col tempo. Ma c’è una cosa che deve esserci subito, perché è premessa di
tutto il resto.
Tra
le sue proposte annunciate figurano reddito di cittadinanza, salario minimo, il
no all’autonomia differenziata e pare anche una patrimoniale che colpisca le
ricchezze. Ma sul versante della pace, già relegato a uno tra i punti finali
del programma per le primarie, non vi è una parola convincente. Anche nella sua
recente intervista al New York Times la
Schlein dichiara che il suo partito è un “sostenitore totale” di Kiev,
rivendicando il merito di avere votato per l’invio di armi. L’iniziativa
diplomatica e di popolo per un cessate il fuoco e una conferenza di pace viene
poi evocata come una foglia di fico, per nascondere che l’escalation in corso e
il riarmo generale muovono da tempo in direzione opposta. Non si tratta di un
vuoto che si possa riempire strada facendo, ma di una mancanza di senso,
soprattutto perché il tempo che abbiamo per impedire la generalizzazione del
conflitto, che potrebbe comprendere anche l’uso del nucleare, è maledettamente breve.
Le tante manifestazioni di Europe for
peace tra il 24 e il 26 febbraio lo hanno gridato chiaramente. Guai non
ascoltarle. Esse hanno espresso la non condivisione, da parte della maggioranza
dei cittadini del nostro paese, sondaggi alla mano, nei confronti del continuo
invio delle armi e delle scelte fatte dal governo rispetto alla guerra russo
ucraina.