CALLAS
VERSO WAGNER?
di Gabriele
Scaramuzza
Callas
Iniziazione
a Wagner
Il primo brano wagneriano da cui
sono stato preso è indubbiamente L’incantesimo del Venerdì Santo, prima
ancora della Morte di Isolde. Ma di certo il primissimo incontro con
Wagner fu alla radio, ai Concerti Martini & Rossi, di cui sigla era La
Cavalcata delle Walkirie. Ma devo anche aggiungere che Wagner non fu
estraneo alla mia prima frequentazione della Scala, dato che tra le prime opere
cui assistetti, il lontano marzo del 1957, vi fu un indimenticabile Tristan
und Isolde (con Hans Beirer, Astrid Varnay, Josef Greindl, Ira Malaniuk;
diretto da Has Knappertsbusch). Il dicembre di quello stesso anno assistetti a
un Lohengrin da dimenticare (in italiano, con Mario Del Monaco, Marcella
Pobbe, Nicola Zaccaria, diretto da A. Votto). Ricordo infine Die Walküre, diretta il 2 aprile del 1958 da
Herbert von Karajan (con Ludwig Suthaus, Gottlob Frick, Hans Hotter. Leonie
Rysanek, Birgit Nilsson). Ma non è solo questo: Wagner non fu presente solo per
i drammi visti, ma in prospettiva: non si rivelò privo di risonanze wagneriane
l’incontro con Maria Callas. Perché non dar rilievo anche a questo nel centenario della sua
nascita? Pochi, o forse nessuno, lo fa.
Callas |
Callas
Le
interpretazioni per cui Maria Callas va famosa non sono certo quelle
wagneriane; il suo mondo si colloca tra Gluck, Spontini, Cherubini, fino a
Bellini, Donizetti e Verdi, Puccini. Sembrerà strano che io mi richiami a Maria
Callas in questo contesto. Essa fu interprete non trascurabile anche di drammi
wagneriani. Non ho mai visto dal vivo sue interpretazioni wagneriane, ma so che
ce ne sono state, e di notevole incisività; qualcuna l’ho ascoltata, sia pur
cantate in italiano, come ai suoi tempi purtroppo si usava. Voglio qui
segnalarla nel ruolo di Isolde (ricordo con emozione la sua interpretazione,
che neppure mi aspettavo, del Liebestod), di Brünnhilde in Die
Walküre, di Kundry (di Parsifal ho i cd dell’opera completa[1]).
Alla
Fenice nel dicembre del 1947 debutta con Tristano; che fece poi anche a
Genova nel 1948. Alla Fenice nel ’49 alterna La Walkiria e i I
Puritani; poi Parsifal nel febbraio del 1949, diretto da Tullio
Serafin. Traggo queste notizie ora dal puntuale e istruttivo, oltre che
affascinante, Maria Callas di Alberto Bentoglio[2].
Callas
via Bachmann
Ingeborg Bachnann
A riprova della straordinaria attualità di Maria Callas - malgrado ogni
suo evidente “passatismo” - mi è di conforto riprendere quanto ne ha scritto
una tra le più significative scrittrici del secolo scorso, Ingeborg Bachmann; e
di lì risalire a Wagner. Insieme a Hans Werner
Henze, assistette a più rappresentazioni (prove, non solo la generale[3])
di La Traviata nel 1956; la stessa che ho visto alla Scala nel febbraio
dello stesso anno. Ingeborg Bachmann si
è identificata con la Callas e nel suo Omaggio a Maria ha scritto: “Mi
sono sempre stupita che chi ha ascoltato Maria Callas non sia mai andato oltre
l’ascoltare in lei una voce straordinaria, esposta a ogni rischio. Non si è davvero mai trattato, oh per
niente, soltanto di una voce, in un’epoca in cui si potevano ascoltare tante
voci eccellenti. Maria Callas non è un ‘miracolo vocale’, ne è molto
lontana o ne è molto vicina, giacché è l’unica creatura che abbia mai calcato
il palcoscenico di un’opera”.
Non
so se Ingeborg Bachmann conoscesse quanto Richard Wagner afferma a proposito di
Wilhelmine Schröder-Devrient[4]; consapevolmente o meno
tuttavia concorda con lui. Non a caso Teodoro Celli (attento anche a Wagner:
sua è la prima guida all’ascolto del Ring che ho letto), proprio
parlando di Maria Callas, riprende Wagner: “A proposito di questa artista [W.
Schröder-Devrient, appunto] mi è stata spesso rivolta la domanda se la sua
voce, poiché la celebrammo come cantante, fosse veramente eccezionale;
intendendo con questa domanda che in fondo, la cosa essenziale sta appunto qui.
Veramente provai sempre fastidio a rispondere perché mi ripugnava di vedere la
grande artista tragica messa nello stesso ordine delle solite cantanti d’opera.
Se oggi ancora qualcuno me lo chiedesse, gli darei press’a poco questa
risposta: No, non aveva affatto ‘voce’. Ma sapeva trattare così bene il suo
respiro ed effondere con esso, in una musicalità meravigliosa, una pura anima
di donna, che non si pensava più né al canto né alla voce”[5]. In queste sue parole c’è
qualcosa di decisivo anche per Maria Callas: non è solo una “voce”; non è da
vedere solo come grande “cantante d’opera”, e con gli strumenti di cui dispone
un esperto di canto (musicalmente educato, tecnicamente preparato). Grande
cantante certo era; ma non era l’unica, né la sua voce in assoluto era
perfetta, come qualcuno ha rilevato. C’è qualcosa in lei che va oltre ogni
“bellezza” della voce. Pour cause Teodoro Celli, dopo aver citato il passo
wagneriano, aggiunge: “parole che espongono, in termini paradossali, una
esperienza che l’arte di Maria Callas ci ha fatto tante e tante volte compiere” [6].
Regie
“attualizzanti”?
Wagner
C’è
una non contemporaneità della Callas: il suo repertorio appartiene al passato,
al massimo giunge a Turandot; non
mostra particolare inclinazione verso la musica a lei coeva; non conosco alcuna
sua reazione al Wozzeck, che pur andò a vedere. La sua presa sui
contemporanei sta piuttosto nel riscattare il senso per l’oggi delle musiche
che interpreta. E non solo la loro artisticità, ma anche e soprattutto la loro
esteticità, senza cui ogni artisticità nell’opera diventerebbe noiosa. Provate
a immaginare, togliendone il lato estetico, il dialogo tra i due protagonisti
nel secondo atto del Tristano: suonerebbe come una disquisizione arida
sull’amore: verrebbero perse “la tenerezza e la sensualità dell’espressione
musicale” e il sapore de “la geniale strumentazione”[7],
che Verdi avverte nel secondo atto. Nella sottovalutazione dell’esteticità (che
è ben lontana dall’esser estetismo) sembrano risuonare parole del 1934, con cui
“il predicatore Martin di Magdeburgo” nelle sue Impressioni bayreuthiane
annota: “Forse mai come adesso nel Terzo Reich l’Anello di Wagner è
stato sentito così poco come godimento e tanto come compito e servizio”[8].
A morte il Genuβ dunque, abbasso l’esteticità; evviva il servizio
e il compito.
Non
è comprensibile dal mio punto di vista opporre come inconciliabili profondità
di pensiero, slancio ideale e mondo estetico. Nessuna vertigine metafisica
toglie l’esteticità, può esprimersi anzi al massimo grado in essa.
Le
rappresentazioni callasiane (come più d’uno ha rilevato) non sono mai mere
ricostruzioni storico-filologiche di un passato estinto. Ci restituiscono
piuttosto il perdurare di un “senso per noi” di quel passato, quanto ne resta
nel nostro oggi: un oggi pur per tanti versi estraneo agli anni in cui quelle
opere sono state create. E questo senza far ricorso a regie e ad ambientazioni
“attualizzanti” a volte fuori luogo, imbarazzanti, dato che tolgono sapore e
organicità alle opere. Ad ogni opera concorrono in modo equilibrato la musica,
le parole, anche quelle delle didascalie¸ e le scene, i gesti, i costumi… Gesamtkunstwerk
non sono solo i drammi wagneriani... La musica e le parole dei testi restano
anche in attualizzazioni; non le didascalie, le disposizioni sceniche purtroppo
- che variano in modo stravagante e a volte incomprensibile. Se un’opera
conserva un senso, quel senso per cui vale ancora la pena rappresentarla, e
ascoltarla, l’ha tutta intera. Se sopravvive la musica resiste anche l’intero
in cui è immersa.
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