CINEMA
di Marco Sbrana
Titane di Julia Ducournau. Corpo e identità
Rumore di
ferro quando ancora lo schermo è nero. Poi, immagini di motori oleati, con la
macchina da presa che soffoca lo spettatore: e sono tubi, e sono cavi. Stacco,
ed è un’automobile. Al suo interno, la piccola Alexia e il padre. Fa un rumore
strano, Alexia. Gutturale. Un suono che imita il rombare dei motori. Nulla
serve che il padre, viso da pitbull marchiato dall’infelicità - lo capiamo
senza la didascalia dei dialoghi - di avere come figlia una figlia come Alexia.
Che seguita nel suo mugugno. Finché il padre non si volta, fa un incidente e,
per salvare Alexia, i medici le applicano una placca di titanio in testa.
Titolo, e poi il film ha una nuova protagonista, l’Alexia adulta, giovane
adulta, che balla su automobili da corsa in un night e che, al tentativo
aggressivo di essere baciata da uno sconosciuto, risponde con la forcina, che
infila dentro la gola dell’uomo. È bava, è morte, omicidio.
Chi è Alexia? La placca di titanio, si
intuisce, ha alimentato il di lei amore per i motori. A tal punto che Alexia ha
un rapporto sessuale con una macchina. A nulla serve il tentativo di scavarsi
nell’utero; aborto impossibile, è rimasta incinta. Le perdite: olio di motore.
Quando, dopo un altro atto sessuale (stavolta
una ragazza), uccide tutti gli invitati alla festa, Alexia è ricercata e deve
sfigurarsi il volto rompendosi il naso (batte il volto contro il lavandino) per
non più somigliarsi. Ma viene riconosciuta dall’immenso Vincent Lindon come suo
figlio Adrien, da anni scomparso. Follia. Lindon è disposto a tutto pur di
ritrovare il figlio, anche a fingere di averlo ritrovato.
Lindon è il comandante di una caserma di
pompieri dove Alexia/Adrien viene accolta. Ma tace, non parla e si fascia seni
e pancia gravida. È un maschio, non può tradirsi, sebbene la moglie (o ex
moglie) di Lindon non si lasci fregare, non sia come Lindon contagiata dal
dolore a tal punto da annegare nella follia.
Alexia trova ospitalità presso i pompieri. Ma
il parto si avvicina. Lindon, depresso e malato (si inietta droghe per vivere
nella natica ricoperta di ematomi), la assiste, dopo che, scene prima, le ha
detto: “Sei mio figlio, chiunque tu sia, e lo sarai per sempre”. Almeno finché
Alexia non muore per il parto, che ha dato alla luce un bambino con le ossa di
titanio, che Lindon abbraccia sussurrando, volto alla macchina da presa: “Sono
qui”, ripetendo: “Sono qui”.
Panoramica degli accadimenti svolta, partiamo
dal genere, dal concetto di cinema di genere. È stato forse Stanley Kubrick con
2001 e poi Ridley Scott con Blade Runner (e quindi, in
letteratura, P. K. Dick, ma anche S. Lem per Solaris, da cui il
capolavoro di Tarkovskij) a insegnarci che i problemi sociali necessitano di un
filtro di fiction. Detto filtro appone una distanza tra il fruitore e il
problema sociale, ma anche tra il problema sociale e chi, trasfigurandolo,
immettendolo in una cornice di genere (che sia sci-fi come Scott o body horror
come Cronenberg, maestro della Docourneau), lo disegna. Questa distanza è
necessaria. È la stessa di cui parlano gli insegnanti agli autori alle prime
armi che vogliono scrivere memoir. Solo la distanza, che in Titane è il
body horror, permette lucidità di visione di ciò che, oltre la superficie, si
narra. Ducournau lo sa.
Il corpo modificato (echi del maestro Cronenberg, Videodrome in particolare, con la pistola fusa al braccio nella celebre scena) del post-umanesimo, la genetica manipolata sono pretesti per parlare dell’identità. Identità che è, fin dall’inizio del film, sessuale. L’androginia dell’attrice protagonista, corpo attoriale meraviglioso, un volto bellissimo nella sua imperfezione, che sarebbe piaciuto, forse, al fanatico delle facce Federico Fellini, ecco, l’androginia è sfruttata per creare contrasto e parallelismo coi corpi femminili canonici e i canonici corpi maschili che si presentano nel testo vincitore della Palma d’Oro. L’oscillare, poi, tra Adrien e Alexia (la prima metà, Alexia; la seconda, Adrien). Insomma, la fluidità. Non bisessualità, nessuna etichetta, al di là di ogni possibile inscatolamento sociale (auto)ghettizzante. C’è solo la liberazione dei sensi, che viene tradotta dall’autrice nell’attrazione di Alexia/Adrien per le automobili, con cui ha due rapporti sessuali.

Julia Ducournau
L’innesto della placca è come un secondo
venire al mondo, un secondo parto. Al punto che, nella prima scena, uscita
dall’ospedale Alexia abbraccia l’automobile come una cara amica, forse sapendo
che le automobili saranno più che amiche per lei, che saranno fonte di eccitazione
insopprimibile, selvaggia.
Tra i tanti temi del film, si può ravvisare
quello tanto caro a Hirokazu Kore’eda: il binomio famiglia biologica/famiglia
vera, perché è solo chi si prende cura di noi che abbiamo il dovere di dire
famiglia. Anche nel morboso di Lindon c’è heideggeriana cura dell’essere
straordinario che è Alexia/Adrien. Benché il meraviglioso Lindon - in
un’interpretazione del tutto fisica, materica, corporale, coerente con
l’etica-estetica del film - forse sia pazzo o forse finga, risulta essere il
Bloom dell’opera, in un parallelismo col capolavoro joyciano, laddove Alexia è
decisamente l’afflitto Dedalus che cerca un papà. E si trovano, Alexia
(Adrien), fasciandosi con dolore il seno e il pancione, viene accolta in
caserma, e la sua androginia turba la canonica mascolinità degli altri
pompieri.
È il conflitto tra corpi il nucleo di
conflitto, la radice estetica del film, tanto quanto l’impossibilità di ridursi
al sesso biologico.
