QUANTI MOSÈ
Nel rito
officiato alla Casa Bianca, nel quale Donald Trump ha annunciato la Buona
Novella della pace perpetua non solo a Gaza ma in tutto il Medio Oriente, si è
potuto vedere in modo impressionante come realtà e apparenza, verità e
menzogna, fatti e simboli siano strettamente legati nell’attuale politica
americana, sicché il discernimento di ciò che veramente è e di ciò che
veramente accade diventa il primo compito da assolvere per potersi assumere la
responsabilità dell’agire.
La prima realtà
che salta agli occhi, gravida di molte implicazioni, è che sta in America il
vero governo dello Stato di Israele. Si pensava finora che si trattasse solo
dell’influenza autorevole ma non determinante di un potente alleato: per
esempio le raccomandazioni di Biden furono disattese da Netanyahu dopo gli
eventi del 7 ottobre. Ora invece si tratta di una vera e propria sostituzione.
Lo si era visto quando gli Stati Uniti mettendosi al posto di Israele
bombardarono con i B-2 Spirit i siti nucleari iraniani, e lo si vede ora quando
Trump decide di subentrare nel “lavoro” che Netanyahu non riesce a finire a
Gaza, pretendendo l’immediata resa di Hamas (72 ore) senza nemmeno il disturbo
di chiederglielo, per assumersi poi direttamente il governo di Gaza o in
alternativa per portare rapidamente a termine il genocidio e pervenire
alla soluzione finale della questione palestinese nel senso voluto da
Israele.
A questo
subentro presiede una identificazione ancora più mistificante con l’attuale
potere dello Stato sionista, quando Trump, dichiarandosi autore di una pace
eterna per “sistemare cose che durano da migliaia di anni in Medio Oriente”, si
mette nei panni di Mosè come già fece Netanyahu il 27 settembre dell’anno
scorso all’Assemblea dell’ONU, quando si attribuì lo stesso compito di Mosè al
suo affacciarsi alla Terra promessa, quello di lasciare alle generazioni future
la benedizione o la maledizione: cosa che il Primo ministro israeliano fece
presentando alla sbigottita assemblea delle Nazioni Unite due mappe, una con i
Paesi benedetti e l’altra con i popoli maledetti, musulmani od arabi, dall’Iran
alla Siria all’Iraq, addossando così a Dio stesso un improbabile mandato di sterminio. Ed ora è il presidente americano che si rifà ai biblici eventi
del Sinai, presentandosi come il messianico artefice di “uno dei più grandi
giorni di sempre nella civiltà”, benedizione per gli uni, maledizione per gli
altri, cioè per il popolo palestinese nemmeno nominato tra i soggetti destinati
a vivere nella “pace perpetua” del Medio Oriente, che si tratti di Gaza o di
Gerusalemme e della Cisgiordania già fatta a pezzi dal “muro di ferro” dei
coloni.
In tutto ciò la
vera sostituzione che ne risulta è quella nella gestione e nel compimento del
genocidio. La lunga tragedia di Gaza ha mostrato una caratteristica poco
considerata finora del genocidio: mentre una esecuzione capitale, un omicidio,
una strage, sono cose istantanee, che si consumano in un solo momento, un
genocidio è un evento che si protrae nel tempo, è un processo di lunga durata.
Bisogna essere dotati per perseverare, bisogna avere forze e mezzi adeguati,
non essere distolti dal lavoro, per portare a termine un genocidio, prima che
si rovesci a proprio danno. Quello della popolazione di Gaza dura ormai da due
anni e, se non fosse per Trump, ancora non se ne vedrebbe la fine; quello del
popolo palestinese come tale, come popolo negato, come ingombro da rimuovere,
come indesiderati da isolare, separare, nascondere alla vista dei dominatori,
come avviene in Israele e in Cisgiordania, dura da settant’anni. Troppi, per
Israele, ha alla fine deciso Netanyahu, il primo capo del governo israeliano
che ha la sincerità di dire che non ci sarà mai uno Stato palestinese, cioè uno
Stato riconosciuto da altri 159 Stati di tutto il mondo.

Tony Blair
