Per Dritëro Agolli, Tullio De Mauro, Predrag
Matvejević
di Serena Luciani
Predrag Matvejević |
Cosa hanno in comune questi tre uomini di cultura
europea e specificatamente mediterranea? Sono scomparsi in questo gennaio 2017,
più o meno alla stessa età e a pochi giorni uno dall'altro ma è soprattutto il
modo con cui hanno saputo vivere e lavorare che li lega nella mia mente, con
affetto, stima e nostalgia. Cerchiamo di capire insieme cosa li distinguesse e
cosa condividevano.
Linguista di fama internazionale Tullio De Mauro, professore
alla Sapienza e per un anno Ministro della Pubblica Istruzione, nato a Torre
Annunziata e vissuto sempre in Italia.
Di madre croata e padre russo Predrag, costretto a lasciare
la Jugoslavia e come professore di slavistica insegnare prima a Parigi e poi a
Roma, anche lui alla Sapienza.
Laureato in filologia all'Università di Leningrado Dritëro (il luminoso), nato
nella campagna nei dintorni della città di Korca in Albania, vissuto a Tirana,
scrittore e poeta, Presidente dal 1974 della Lega degli Scrittori. Di Tullio De
Mauro ho seguito per un anno le lezioni di linguistica, su De Saussure. Gli
altri due mi erano diventati negli anni amici cari.
Il primo ha vissuto in un paese democratico, il secondo ha
coniato per la sua amata Jugoslavia il termine di “democratura” (un misto di
dittatura e democrazia), il terzo ha vissuto sempre nel regime comunista
albanese, molto rigido.
Pur da condizioni così diverse sono emersi tre uomini con
tratti comuni profondi e piuttosto rari tra gli intellettuali di qualsivoglia
Paese. Per primo l'assenza di quel narcisismo esasperato che rende sordi
all'interlocutore. Li accomunava anzi una naturale capacità di comunicazione,
brillante come le loro opere, estremamente vivificante per chi li ascoltava.
Maestri di linguaggio e di vita.
Oltre ad essere il più noto studioso di De Saussure, di cui
aveva tradotto in italiano le Lezioni, (con un
ricchissimo apparato di note molto esplicativo), De Mauro ha pubblicato
importanti studi sulla lingua italiana, ma è stato altrettanto attento ai
dialetti e alla loro ricchezza.
Dritëro
ha conservato nei romanzi il linguaggio popolare della sua terra, sfidando un
certo disprezzo degli albanesi nei confronti del mondo contadino (considerato
furbo e ricco anche nei tempi di miseria in città). Ma se a Leningrado aveva
studiato con maestri del calibro di Vladimir Propp, le sue radici erano in
campagna, e mai furono da lui rinnegate, anzi lo ispiravano; ma l'apicale
dell'albero prendeva il sole nel vento della più moderna cultura europea (il formalismo
russo, lo strutturalismo). Nella sua opera più famosa e amata in tutta Europa “Breviario Mediterraneo” Predrag ha
attinto parole da mestieri semplici, umili e dalle loro attrezzature. Così come
ha dedicato la sua ultima opera al cibo più popolare, il Pane.
Tullio De Mauro |
La conservazione
della cultura popolare, questo il primo tratto comune.
Come ho potuto superare lo scoglio delle 8 del mattino? ora
nella quale il Professor De Mauro saltava come un grillo fra i banchi,
risvegliando anche quelli di noi che non sono allodole ma gufi: con aneddoti, calambour, giochi di parole, illuminava
i difficili pensieri di De Saussure, con quella chiarezza che è propria dei
grandi Maestri, nati non solo per fare ricerca, ma per insegnare, avere
discepoli. Sia nei libri che nelle lezioni Predrag rompeva i muri eretti dai
nazionalisti, così in letteratura come più rischiosamente in politica. Ma il
regno degli incontri era, secondo una antica tradizione ormai perduta, al caffè
di Piazza Mazzini, dove “riceveva”.
Dopo aver promesso di seguire la stesura del mio romanzo “Terremoto a Tirana” mi diede
appuntamento proprio in quel caffè e naturalmente volle offrire lui una ricca
colazione. Aveva detto che mai e poi mai avrei dovuto chiedergli di scrivermi
una prefazione, perché era stanco delle troppe richieste in tal senso. Ma quel
giorno mi disse, tranquillo: “Ho letto i primi venti capitoli e ti dico che
sarò onorato di farti la prefazione, questo non è un romanzo storico, è un
romanzo della storia”. Uscendo mi sembrava di volare: quell'elogio inatteso mi
aiutò molto a portare a compimento il lavoro. Non aveva alcun motivo di
interesse ad aiutarmi, ma non era un calcolatore.
D. Agolli |
Nessuno di loro tre
lo era. La generosità era il tratto che rendeva godibile il rapporto con loro.
Ciò che li rendeva affascinanti era tuttavia la capacità
affabulatoria, il modo con il quale oralmente sapevano prendere il linguaggio,
dal basso, dall'alto, senza sciocche convenzioni e piegarlo alle necessità del
contenuto, allo scopo di illuminare i significati, di farli brillare,
luccicare, perché anche se non conoscevano ancora i neuroni a specchio e la
loro funzione nell'apprendimento avevano capito che non basta la ragione per
comprendere e imparare, occorre l'emozione, occorre lo stupore, la curiosità.
Nessuno dei tre si risparmiava a questo gioco nel quale si
divertivano quanto gli interlocutori.
Come scrive Rigels Halili nel testo collettaneo “Il confine liquido”, nel suo romanzo “L'uomo con il cannone” Agolli scrisse in “una maniera piuttosto rustica e umoristica”.
Rustico di maniere egli non fu mai, ma tale viene giudicato
il suo stile in Albania per l'uso di parole popolari. Era singolare
contraddizione in un Paese cosiddetto comunista, nel quale gli emergenti nella
società, i cittadini della capitale, snobbavano (e snobbano tuttora) i contadini, i “katundar” (abitanti dei
villaggi).
Di umorismo ne aveva in sommo grado. Quando lo intervistai
per “il Manifesto” dipinse con effetti gogoliani due fra i tanti episodi che mi
narrò (e con i quali avrei potuto costruire non una ma dieci interviste: di
nuovo la generosità). Nel primo, che possiamo chiamare Gli stivali, (come una
delle sue poesie) rammentò il disagio che ebbe a casa di Propp. Era con lui uno
studente conterraneo ma ignorantissimo, che non sapeva quasi parlare in russo.
Avevano lasciato all'ingresso i propri stivali gocciolanti di pioggia. Ma dopo
la figuraccia che lo studente fece all'esame casalingo che Propp aveva
acconsentito a somministrargli per favorirlo, scapparono immemori degli
stivali. Per strada, al freddo, se ne ricordarono e il disgraziato che l'aveva
fatto vergognare propose di tornare indietro a prenderli, ma Dritëro si oppose fieramente
“e per sempre da allora avranno penzolato tristemente nell'ingresso di Propp!”.
Quando, ripristinando le relazioni interrotte nel 1961,
Krusciov si recò in Albania, fu portato a pranzo a Durazzo. Dopo molte
libagioni, oramai ubriaco, il capo dell'Urss si gettò in mare vestito,
dribblando KGB e Sigurimi. Che si slanciarono all'inseguimento infilandosi in
acqua con vestiti e cappelli...”e quei cappelli, cerca di vederli, dondolarono
in cima alle onde come nere barchette, in fila”. Nulla mi disse quella volta di
quanto avesse sofferto, come altri, quando a causa della rottura dovette dire
addio alla prima moglie, russa, e al figlio avuto da lei. Li rivide solo dopo
il 1990. Tanto detestava le lagne (come nella poesia “I lamenti”) che ci
vollero anni per conoscere quel drammatico episodio della sua vita.
Credo che Agolli sia l'unico, che ad aver fatto pubblicamente
ammenda delle cose non dette, dopo la fine del comunismo, prendendosi una
responsabilità che altri, politicamente assai più coinvolti, non si accollarono
mai. Tra i molti che lo hanno onorato al momento della morte e del funerale,
qualcuno ha avuto da ridire, non gli ha fatto sconti: eppure tutti o quasi
(tranne quelli finiti in prigione o in esilio spesso senza neppure aver fatto
critiche, ma per una musica o un quadro troppo moderni), stettero zitti, fino
alla fine, anche dopo morto Enver Hoxha, con il più aperto Ramiz Alia. Per
opportunismo, per paura, per quieto vivere, per convinzione. (uno solo, il
direttore del Teatro dell'Opera, dopo la caduta ebbe il coraggio di mantenere
in ufficio la foto di Enver, perché, disse “non sputo nel piatto in cui ho
mangiato”. Stesse parole usate da Agolli nella poesia “Sul coraggio e la paura”).
Non mi sembra che molti abbiano titolo per scagliare la prima pietra. Si poteva
morire, per una piccola critica o una idea divergente. Comunque chi ha lavorato
con lui alla Lega degli scrittori lo descrive come io l'ho conosciuto: corretto, mai fazioso.
In “Epistolario
dell'altra Europa”, composto di lettere aperte ai potenti, Matvejević volge l'ironia al
paradosso, invitando Tito a dimettersi per il Bene della Jugoslavia, e due alti
dirigenti a suicidarsi per impedire la guerra. Sorta di samizdat: la sua accusa
di Alto tradimento degli ideali comunisti. Per questo fu espulso dalla Lega dei
comunisti, ebbe minacce di morte, dovette lasciare il Paese amato.
Diventato Ministro De Mauro riuscì finalmente a rendere
ufficiale e pubblico l'insegnamento delle lingue minoritarie, tra le quali
l'albanese, sapendo bene come dal 1500 in Italia fossero nati e cresciuti
migliaia di arbereshe. Pochi anni fa ebbe il coraggio di dare un dottorato ad
un giovane e valente studioso, Christian Eccher (su suggerimento di Matvejević), che aveva per tema la
letteratura italiana d'Istria. Un tema rimosso, specialmente a sinistra, e
ingessato a destra senza alcuna autocritica (invocando la memoria delle foibe
ma mai quella delle violenze perpetrate dai fascisti).
Ciascuno a suo modo, ebbero coraggio. E ironia: chi lieve,
chi grottesca, chi graffiante.
Nella vita di Tullio De Mauro la violenza, il sopruso, il
dramma sono entrati attraverso
il corpo mai ritrovato del fratello Mauro, giornalista
ucciso dalla mafia. Perché in Italia i poteri sono molti e diversi, anche se
ben intrecciati più o meno sotterraneamente. Anche lui non amava parlarne.
Perché i dolori veri e profondi, che non trovano mai il sollievo della
giustizia, sono indicibili. L'ironia in tutti e tre fu scelta di stile, narrativo,
ma anche di vita. L'arma degli spiriti fini e ribelli: al potere ma anche al
luogo comune, al linguaggio corrivo che non illumina i significati ma spegne la
conoscenza.