di Petronilla Pacetti
Il territorio dei Sibillini, i "monti azzurri" [1] di Leopardi, è
sempre stato un mondo di suggestioni, leggende, misteri, di luoghi incantati
dove a mezzanotte le fate scappano via lasciando sul terreno il segno dei loro
zoccoli, come a Pretare, Montemonaco, Castelluccio; o dove vivono le Sibille il
cui fascino magico e misterioso attira cavalieri che arrivano da terre lontane
solo per poterle incontrare, correndo qualsiasi rischio pur di vivere avventure
che possono anche ispirare scrittori e musicisti, autori di opere immortali. 2]
Qui i paesi appaiono, con le loro case fatte di sassi, come
appesi alle falde dei monti coperti di boschi che in inverno vengono sepolti da
una coltre di abbagliante neve immacolata e
in primavera e poi in estate sembrano macchiati di chiazze di tanti
colori vivi su un fondo di verdi diversi mentre in autunno le sfumature color
ruggine si intersecano e si mescolano le une alle altre con riflessi bronzei e
dorati su grandi antichi alberi come querce, olmi, pioppi, faggi. E più in basso "Castagni, lecci, cerri,
faggi, sfumano dal verde all’argento e, col trascorrere dei mesi, s’infiammano
nei riflessi del rame e del bronzo. In pieno inverno la montagna è un foglio
bianco e le selve dolenti graffiti, allora la legna da ardere diventa (..) un
bene prezioso. Un elemento tanto vitale per la comunità che, fin dal XIII secolo, lo
sfruttamento dei boschi è stato sistematico, ma attento alla salvaguardia
ambientale. (...) Quando la neve impediva ogni attività, si combatteva la noia
intagliando ceppi di noce e si fabbricavano utensili modellando rami di faggio
sulla fiamma del focolare. I più abili, già nel medioevo, iniziarono a
guadagnarsi da vivere come falegnami. Nelle Marche del Cinquecento fiorirono
prestigiose botteghe di ebanisti, a San Severino, ad Ascoli Piceno, ad
Urbino" e ad Amandola. [3] Sette dei paesi di
Montegallo sono addossati e quindi accolti e custoditi dal monte Vettore, che
nonostante il profilo morbido e nitido insieme è come un massiccio diaframma
che divide noi dai paesi del Lazio sulla Salaria e da quelli dell'Umbria, in
particolare attraverso Forca di Presta, dalla piana di Castelluccio. Questi
sette paesi costituiscono da sempre un territorio a sé stante, per tradizioni,
cultura e modi di vita, detto Pantano. "Il caratteristico toponimo “in
Pantano” trae origine dalla presenza di una rigogliosa fonte di acqua sorgiva,
la sua posizione individua uno dei valichi storici transappenninici del territorio
piceno e costituiva un riferimento e una meta privilegiata per viandanti,
pellegrini, pastori braccianti e mercanti". [4] In realtà sembra, invece, che il territorio venga "chiamato Pantano o
pantanese, italianizzazione di una parola greca corrispondente per significato
alla cosiddetta grangia, organizzazione agricola benedettina per la
raccolta e la conservazione dei prodotti. [5]
Montegallo è in
realtà un comune sparso, costituito dall'insieme di ventitré paesi, ognuno con una propria identità e storia molto forti, alle pendici dei
monti Sibillini e Casale Vecchio è tra questi ultimi sette paesi quello più a
ridosso della montagna, aggrappato come un'aquila ad un costone di roccia, tra
due strapiombi che digradano poi più dolcemente verso il basso, scendendo fino
a raggiungere la chiesa di Santa Croce e il cimitero con lo stesso nome, punti
di riferimento religioso e sociale di Pantano; una chiesa a cui sono legati i
ricordi della quotidianità della vita attraverso le messe domenicali e le cerimonie
di gran parte dell'anno, per tutti e sette i paesi, per la sua raggiungibilità
anche nei periodi più difficili dell' inverno. In particolare la notte di
Natale, quando, dopo una giornata d'attesa febbrile e gioiosa, di corse e di
strilli per le strade del paese, intorno alla fontana dall'acqua gelida, dietro
la chiesetta al limitare del paese, di sguardi ansiosi rivolti al cielo
invernale per controllare il passare del tempo e l'arrivo della sera, da ogni parte
tutti si affrettavano verso l'avvenimento religioso e sociale più importante
dell'anno facendo un tragitto in mezzo alla neve alta, dove fin dal mattino
erano stati aperti con la pala dagli uomini sentieri sui quali ogni anno si
ripeteva una tradizione troppo antica per essere trascurata. Ognuno con la sua
lampada con un lume, con una lampadina, scendeva dai sette paesi della
parrocchia verso l'antica chiesa come avevano fatto i loro padri e i loro
nonni. Lo spettacolo che
si aveva davanti era straordinario: da ognuno dei sette paesi una fila ondeggiante
di luci scendeva verso la chiesa dove già i primi fedeli cominciavano ad
arrivare, la notte ne era tutta illuminata come se uno specchio magico stesse
riflettendo le luci delle stelle sulla terra per dirigere ognuno verso il luogo
della fede e della speranza eterne; e dappertutto giungevano i canti natalizi
che si innalzavano dai fedeli in cammino. Santa Maria in Pantano,
invece, ha sempre rappresentato il centro spirituale del quel territorio posta
in alto, al limitare dei boschi; in passato anche sede di eremitaggio, semplice
e sobria nella sua struttura antica, poi scrigno di tesori come l'altare di
legno intagliato dell'arte umbro-marchigiana e i dipinti delle Sibille, figure
pagane infine inglobate nella tradizione cristiana. Un luogo che rappresenta la sede e il nucleo, antichissimo e fortemente
simbolico, della religiosità e senso di comunità del territorio, a cominciare
dalla storia della sua costruzione legata alla strada dei passatori, un
sentiero che scendeva da “La Madonna” (come l'abbiamo sempre chiamata) e
costeggiando la parte alta dei campi e dei prati si dirigeva proprio al fosso
di Casale.
Santa Maria in Pantano prima del restauro |
Potremmo definire questa chiesa come il luogo delle riunioni
speciali, dei riti fuori dall'ordinario, delle grandi feste della comunità, ma
solo nella bella stagione quando la folla usciva ordinatamente dalla chiesa,
dalla porta sulla facciata e da quella dentro il portico e si spargeva per i
prati intorno. Nelle giornate, spesso bellissime, senza una nuvola in cielo, di
primavera e d'estate, con l'aria tiepida nella quale le rondini svolazzavano
garrendo, anche se tutti sapevano che appena il sole fosse sceso dietro la
montagna ogni cosa si sarebbe coperta d'ombra e il freddo li avrebbe colti
d'improvviso, come accade sempre in montagna. Ma durante il giorno il sole era
alto e splendente e tutti aspettavano di festeggiare quel giorno santificato
nel modo più antico, secondo le vecchie tradizioni ed usanze.
Vicinissimo a Casale Vecchio, ma in basso, dentro un canalone scorre tumultuoso per gran parte
dell'anno il fosso di Casale che si poteva vedere anche da molte finestre del
paese ed è facile immaginare occhi curiosi e splendenti di bambini, che,
nell'autunno inoltrato, dentro il caldo delle loro case, osservano attenti
l'aria impregnata dell'umidità portata dalla nebbia che velocemente scendeva
dalla montagna e ricopriva ogni cosa addensandosi soprattutto sopra il fosso
che nella tumultuosa piena autunnale rumoreggiava al di là del muro di sassi,
giù nel baratro che costituiva il suo letto; nel pomeriggio nebbioso e
grigiastro che nell'aria aveva un odore, un sapore, un aroma di neve imminente;
e la montagna che già scompariva nel grigiore della giornata invernale, con i
picchi e i canaloni coperti di neve fino quasi alla prima briglia del fosso. Mentre
nell'aria si sentiva l'odore appetitoso della polenta che le donne in ogni casa
preparavano per la cena e dalle case del paese salivano pennacchi di fumo
grigio e, dalle legnaie, arrivava l'odore intenso e fragrante della legna che
durante l'inverno alimentava e profumava il fuoco nelle vecchie case.
Sembra di vederli quei bambini correre giù per le scale
ridendo e chiamandosi; e sorridere spettinati ed ansanti, con gli occhi
spalancati di fronte alla massa di neve che d'inverno copriva ogni cosa, a cominciare
dalla montagna, trasformando il paesaggio familiare in un luogo fiabesco,
completamente bianco, intatto e puro; e di sentire i loro gridolini entusiasti
e le risate che si intensificavano mentre calpestavano quella sostanza farinosa
eppure resistente sotto le suole robuste e si ghiacciavano le manine per fare
dure palle di neve che si lanciavano addosso con gioiosa voluttà. Bambini
pronti a svegliarsi presto per vedere la luce dell'alba che rivestiva di
contorni lividi ogni cosa, ma che di lì a poco il sole avrebbe illuminato riscaldando l'aria e accendendo le faccette
ridenti di una sfumatura rosea.
E possiamo immaginarli anche nelle sere d'estate in cui alzano
gli occhi al cielo limpido e stellato con la volta celeste che sembrava
incombere a pochi metri sulle loro testoline, mentre anche nel più piccolo
spazio brillava una luce, perché in montagna le stelle si affollano l'una
vicina all'altra per tutto l'orizzonte visibile. Ed allora potevano vedere,
sulla terra, anche le piccole luci, morbide ed intermittenti, delle lucciole-
come era successo a papà da piccolo- che svolazzavano nel buio che circondava
il paese che così sembrava volare anch'esso, aggrappato alla cresta di roccia
dove aveva il suo nido da tempo immemorabile, dove si annidava da secoli.
Monte Vettore in inverno |
Le origini di questo paese, infatti, si perdono nella notte
dei tempi, ma abbiamo comunque delle notizie storiche dalle famiglie che vi
abitavano ed anche alcune informazioni specifiche sul borgo. Scrive Rossi Brunori: "In
antico, pare, non sorgesse dov’è al presente e che fosse più popolato. Nella
chiesa anch’essa diruta del vecchio paese era eretta una cappellania di diritto
patronato attuale [della famiglia Sacconi]. Intitolata a S. Maria della Neve,
nel 1580 era stata costruita da poco tempo leggendosi negli atti di visita di
Mons. Aragona: ecclesia haec denuo contructa est etc.: la villa in
quest’anno contava 23 famiglie" [6]
Appare un po'
singolare che la denominazione sia la stessa di Santa Maria in Pantano, ma in
effetti all'epoca non era raro che le chiese venissero chiamate in questo modo
nelle zone di montagna dove chiaramente l'inverno era caratterizzato da
abbondanti nevicate. La chiesa poi
verrà intitolata a S. Francesco a cui era dedicata la statua lignea dell'altare. I Sacconi erano una famiglia, forse nobile,
proveniente dalla Toscana,
di cui sappiamo che "Comunque siano andate
realmente le cose è indubbio che la famiglia Sacconi vivesse a Casale Vecchio,
allora Villa Casalis, e vi fosse ben radicata alla fine del 1500; e sono proprio
queste notizie a dare l'idea di un paese già strutturato all'epoca e quindi
risalente a tempi più antichi. E il conte Agostino scrive che il suo antenato
Pier Saccone decide di partire dalla Toscana [1385]. (...) con diversi de' suoi
figli, ed altri compagni, e ritirarsi in luoghi incogniti, alpestri, e deserti
prendendo la strada degli Appennini, e camminando lungo le falde di essi,
capitato in M.te Gallo, luogo lontano dalla Toscana, deserto, e posto nel più
tetro sito degli stessi Appennini, ivi si fermasse con tutta la
compagnia". [7]
La descrizione certamente corrisponderebbe
alla condizione in cui poteva essere situato Casale all'epoca, luogo davvero
impervio, mentre non sembra attagliarsi
al primo nucleo di Montegallo; e
famiglie di Casale, in effetti, provenivano tutte dalla zona compresa tra
Toscana, Alto Lazio ed Umbria, anticamente territorio etrusco, [8] come dimostrano le ricerche araldiche e l' origine
dei nomi; probabilmente erano anch'esse, come i Sacconi, in fuga da nemici ed avversari
e trovarono rifugio in quel paese sperduto dove certo era impossibile
rintracciarli per gli inseguitori. Possiamo pensare che allora Casale Vecchio
territorialmente facesse parte, insieme agli altri paesi, come racconta il
prof. Emidi, di un mondo che comprendeva la "zona montana della catena dei
Sibillini dove i rapporti umani erano regolati da antiche consuetudini e i
ritmi di vita scanditi dal contatto quotidiano con le greggi e la natura. I
personaggi si muovono in una realtà percorsa dal banditismo che tende a
riemergere dopo la decisa azione di contrasto attuata da Sisto V, mentre le
popolazioni sono messe a dura prova da carestie ricorrenti, a seguito di
stagioni agrarie disastrose. Intanto la presenza di una Zecca ancora per poco
attiva nel vecchio incassato di Montalto induce a frodi in campo monetario,
severamente punite, in applicazione di quanto stabilito da rubriche dedicate
presenti nel Libro degli Statuti. Ne emerge un’economia di sopravvivenza
alimentata nella zona montana dalle risorse boschive e dallo sfruttamento dei
pascoli, mentre diffusamente l’ombra dell’usura tende ad avvelenare i rapporti
umani e non è infrequente il ricorso a pratiche di magia per interpretare
particolari momenti del vivere quotidiano", [9] che si sono perpetuate nel
tempo fino a tutta la mia giovinezza quando ancora si scansava l'invidia
con il flebile chiarore della luma ad illuminare il piatto con acqua ed olio
che rappresentava il grumo rappreso di quel sentimento così pericoloso. Una
tradizione praticata, non da terrificanti fattucchiere, ma da donne serissime e
brave madri di famiglia che rispettavano un'antica tradizione di magia buona,
protettiva delle persone e della comunità.
Casale Vecchio andò in parte distrutto nel febbraio del 1934
quanto cadde una valanga sul paese; l'anno precedente era morto Genovino
Pacetti, il mio
bisnonno, profetizzando: in questo paese nasceranno le ortiche e i sambuchi.
E così, in effetti, sarà. In quel momento, nell'ultima casa del paese,
la grande abitazione della famiglia di Egidio Dominici, mentre calava la
valanga si stava svolgendo una veglia di tutti i paesani per una bambina di tre
anni, Petronilla, che era appena morta e quindi gran parte delle persone si
salvarono mentre purtroppo altre otto rimasero uccise. La mamma della piccola
era una delle sorelle di mio nonno, Maria Pacetti; per questo motivo io ho
avuto questo nome, Petronilla, che era quello della mia bisnonna…
Casale Vecchio è
il luogo dove affondano le mie radici, perché qui è la storia del mio paese e
della mia famiglia, un racconto che si perde nella notte dei tempi ed è qui che
ho sempre sentito di appartenere anche se la casa dove sono nata è in un altro
posto.
La
valanga
Il cielo era grigio, coperto, opprimente, nell'aria si sentiva un odore
di neve, il freddo era tanto intenso da graffiare la pelle; bambini infagottati
chiacchieravano davanti alla bottega, imitando le accese discussioni dei
grandi, sul tempo, sul raccolto, sulle bestie.
Un boato terrificante scosse la
terra, tutto divenne buio, si sentirono urla d'avvertimento degli adulti: una
valanga, una valanga, presto dentro casa.
Tutti si precipitarono dentro la
casa più vicina, i bambini stretti agli adulti che tranquillizzano ricordando
le innumerevoli volte in cui, ogni volta, bisognava ripararsi da un pericolo
simile.
Poi il momento passò, l'allarme
finì, i bambini per primi uscirono sul piazzale della bottega, curiosi ed
agitati. Ansiosi di vedere le tracce della grande massa di neve lasciate nel
fosso sottostante; qualcosa da raccontare ad altri bambini più piccoli nelle
lunghe noiose giornate degli inverni successivi. Un avvenimento emozionante di
cui si era stati protagonisti coraggiosi ed arditi.
Di colpo, più agghiacciante di
qualsiasi rumore precedente, in quella specie di silenzio ovattato in cui tutto
era immerso, si sentì una voce strozzata, incredula: Casale è distrutto, la
valanga lo ha portato via.
Solo allora tutto il gruppetto di
bambini allegramente vocianti e di adulti fino ad un attimo prima attenti ma
non preoccupati volse contemporaneamente lo sguardo di fronte a sé di la del
baratro dove scorreva il fosso che divideva i due paesi. E vide, con orrore
fino a quel giorno sconosciuto, un'immensa massa di neve che copriva come una
bianca coltre funebre quello che un attimo prima era stato ancora un paese vivo
e pulsante, i cui raccolti germogliavano sotto la neve in attesa dell'estate
che non sarebbe più venuta per i suoi abitanti. E nel silenzio collettivo
improvviso e sgomento, di fronte alla catastrofe che l'occhio vedeva, ma il
cuore si rifiutava di credere vera, apparve una lontana, scura figura di donna
che, sopra le macerie sepolte della sua casa chiamava disperatamente il marito
e il figlio travolti da una furia della natura che a memoria d'uomo mai aveva
colpito con tanta ineluttabile ferocia.
Il paese fu ricostruito da un'altra parte con il nome di
Casale Nuovo e, nel 1936, dopo alcuni anni molto difficili, gli abitanti ebbero
le nuove case.
Casale Nuovo è il mio paese, il posto dove sono
nata, come molti di noi, escluse le nuove generazioni; è come incastonato in una piccola conca in salita protetta dalle
valanghe e dalle intemperie e ed ogni volta che torno e lo vedo, sbucando dalla
grande ultima curva, è come se facessi per l'ennesima volta, un perpetuo
viaggio alla ricerca delle mie radici. Quando abitavo lì, da piccola, la
mattina d'inverno mi svegliavo e sapevo senza vederla che, nell'aria gelida, la
casa era ricoperta e circondata dalla neve morbida e friabile, ancora
immacolata dopo la nevicata di quella notte; assaporavo il piacere di affondare
le mani, di lì a poco, in quella massa bianca e fredda, di costruire con gli
altri un pupazzo di neve, di tirarsi innumerevoli palle ghiacciate compresse
che si sarebbero schiacciate e sciolte addosso agli altri bambini o a me
stessa, generando così un divertimento e un piacere assoluti; risate squillanti
e alte grida gioiose sarebbero risuonate nel silenzioso paesaggio invernale
ricoperto dalla coltre bianca fin nei paesi vicini da cui sarebbero giunte le
stesse urla esultanti come in risposta ad un richiamo concordato e si sarebbero
infrante sulle lastre di ghiaccio dei fossi gelati e nei canaloni scoscesi
della grande montagna che li sovrastava e li proteggeva con il suo profilo
nitido e possente alleggerito dai picchi svettanti che mai sembravano belli
come nell'aria immota dell'inverno freddo e cupo, eppure luminoso come un
cristallo trasparente.
Questo pensavo mentre guardavo fuori dalla
finestra di cui aprivo sempre uno spiraglio da dove l'aria fredda entrava
tagliente come un coltello guardando i passerotti intirizziti sul filo della
luce a cui poi avrei portato le briciole di pane. E un brivido di piacere mi
percorreva, o forse era freddo, mentre ammiravo i piccoli ghiaccioli pendenti
dalla sommità della finestra, belli come un disegno dei pizzi bianchi che
vedevo lavorare alle donne del paese con le loro mani così agili ed esperte. E
pregustavo il piacere di scendere e di fare colazione, insieme a mio fratello,
con la tazza di caffellatte caldo che sempre ci preparavano con amore mamma e
nonna e poi la gioia di correre alla bottega di Agostino per aiutarlo girando
la ruota della fucina e per ricevere le parole e gli sguardi affettuosi di
Marianna e Giuditta.
In primavera invece il cielo
era limpido e senza nuvole, il sole brillava, l'aria era tiepida e le rondini
sfrecciavano velocissime davanti casa, facendo la spola tra i prati vicini e i
loro nidi appesi sotto le nostre grondaie per riempirli di tutto il necessario
per i loro piccoli; e vivendo quei giorni il mondo poteva davvero sembrare un
posto meraviglioso.
Note
*Il riferimento è al suggestivo ed emozionante inno
nazionale del Galles, paese che ha in comune con noi anche una parte del
proprio nome oltre forse ad un certo temperamento con alcuni abitanti di
Casale.
1- G. Leopardi "Le ricordanze" in Canti,
Einaudi, 1993.
2- Già nel 1400 Andrea
da Barberino nel suo libro Il Guerrin Meschino, narra di un
cavaliere errante che si recò dalla maga Sibilla per ritrovare i suoi genitori;
per un anno intero egli soggiornò nel regno della profetessa cercando di
resistere con tutte le sue forze alle tentazioni. Anche un’altra celebre
leggenda, quella tedesca del Tannhauser [opera composta da Richard Wagner], trae
ispirazione dalla Sibilla Appenninica e presenta numerose analogie con la
storia del Guerrin Meschino. A differenza di questi, però, il valoroso
Tannhauser cede alla tentazione e si abbandona al piacere dei sensi. Anche il francese
Antoine de la Sale racconta le sue avventure sul Monte della Sibilla in
occasione di una spedizione organizzata da Agnese di Borgogna per verificare
quanto c’era di vero sulle leggende riguardanti la grotta della Sibilla, che
egli descriverà nel dettaglio e illustrerà con disegni particolareggiati nel
suo diario di viaggio. http://quanticmagazine.com/archives/08/11/2012/mito-sibilla-alchimia/
5- Parco Nazionale dei Monti Sibillini, cartello
indicatore presso la frazione di Colle (parco giochi).
6-Rossi, Brunori,
Arcangelo, Memorie di Montegallo, dei villaggi delle chiese e di alcune
famiglie, Ascoli Piceno, premiata Tip, Economica, 1903, p. 5152. Anche in http://lnx.montaltomarche.it/montalto2/Biografi/Sacconi/porchia.php
7- Libro di famiglia, iniziato dal conte
Agostino Sacconi Rosati: "Memorie della Famiglia Saccone in
oggi Sacconi Rosati compilate da un Cittadino Montaltese" in
http://lnx.montaltomarche.it/montalto2/Biografi/Sacconi/sacconi3.php
8- Interessante
e certamente affascinante la connessione con la definizione che alcuni studiosi
hanno dato ai Piceni di "Etruschi dell' Adriatico", in relazione alla mostra che ha girato l' Europa,
"Eroi e Regine. Piceni popolo d'Europa,Palazzo Barberini, Roma,
2001.http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/04/11/eroi-regine-la-civilta-dei-piceni-signori.html
Una mostra che
ha raccontato al mondo gli antichi Piceni, “società aristocratica e guerriera, un popolo che venne
influenzato e influenza l'Europa tra il IX e il IV secolo avanti Cristo”- http://1995-2015.undo.net/it/mostra/4048, i cui reperti strordinari
sono stati presentati in un contesto affascinante
e coinvolgente per la modalità
utilizzata di far partecipe lo spettatore di un'atmosfera quasi magica in cui
viene resa pienamente la ricchezza e la eccezionale civiltà dei Piceni anche
espresse attraverso il ruolo
fondamentale riconosciuto alle donne in un
mondo tanto
antico.http://www.sibillini.net/comunicazione/voci%20dal%20parco/_08_a3.html
[Le foto sono di Gabriele Porri, le immagini
pittoriche sono scorci di Montegallo di Maria Pacetti]