LA CRISI SPAGNOLA:
OVVERO DELL’INDIPENDENZA
DELLA CATALOGNA
di Franco Astengo
Sono molteplici i fattori che
stanno alla base della gravissima crisi che sta attraversando l’unità nazionale
spagnola (ovvero dell’indipendenza della Catalogna): elementi di natura
storica, politica, istituzionale, economica. La crisi spagnola (ovvero dell’indipendenza
della Catalogna), così come tante altre situazioni sparse principalmente sullo
“storico” territorio europeo (ma anche fuori, come nel caso del Kurdistan e di
diverse situazioni africane), rappresenta anche (e forse soprattutto) il nuovo
punto di espressione di quell’arretramento dell’entità politica denominata
“Stato – Nazione” che, in relazione al processo di globalizzazione economica,
molti pensavano potesse essere risolto all’intero di nuove dimensioni
denominante appunto “sovranazionali”.
In questo
momento alcuni pensano che questa crisi esplosa violentemente in uno dei
maggiori paesi dell’Unione Europea potrebbe essere vista proprio dal lato
dell’indipendenza catalana per costruire, più facilmente, un’Europa di “piccole
patrie” non vincolate alla rigidità dei grandi Stati (questa è l’opinione anche
del Ministro degli Esteri della Generalitat catalana, Raul Romeva).
Sorprende (ma non troppo) l’utilizzo “a sinistra” della
teoria delle due “tigri di carta”, utilizzata per esprimere una pilatesca
equidistanza. In realtà l’analisi sulla quale si potrebbe lavorare è quella che
ci troviamo di fronte ad una situazione creata per certi versi da un intreccio
di contraddizioni del tutto inedite mai affrontate nel tempo recente, almeno
dalla fase post – caduta del muro di Berlino.
Si sono
connessi, infatti, a questo punto sia l’arretramento del fenomeno che è stato
definito come “globalizzazione” e che ha provocato l’arresto o almeno il
rallentamento nel processo di disfacimento dello “Stato – Nazione” e, insieme,
quella che è stata definita “fine della società liquida”. Quella
“società liquida” che Bauman aveva teorizzato a suo tempo (“Modernità liquida”, Laterza 2000). A sostegno
della tesi sulla”fine della società liquida” il filosofo docente alla Normale
Roberto Esposito in un suo saggio utilizza molti autori: da Kenichi Omae (Il
mondo senza confini, il Sole 24 ore), Carlo Bordoni (Fine del mondo liquido, il
Saggiatore) a Daniele Giglioli (Stato di minorità, Laterza).
La tesi che
si sostiene nell’intervento di Esposito, è quella che la già definita “geniale
metafora” mostra il suo tempo, non solo perché troppo indeterminata, ma perché
incapace di dar conto di un ulteriore passaggio che sembra spingerci del tutto
fuori dalla modernità così come questa è stata concepita facendola coincidere
con il trionfo del “pensiero unico” e la “fine della storia”.
Due punti
questi ultimi sui quali sarà il caso di ritornare.
Secondo
Esposito infatti: “Gli stati sovrani dichiarati anzi tempo finiti rialzano la
testa, mentre la geopolitica ridisegna vecchie e nuove zone d’influenza. Nel
linguaggio dell’inclusione torna a lavorare la macchina dell’esclusione. I
confini che sembravano dissolti riprendono a suddividere quanto si era
immaginato di unire. Non solo ma fuori da ogni metafora liquida, si
solidificano muri di cemento, in barriere di filo spinato, in blocchi stradali.
Un mondo terribilmente solido, striato di frontiere materiali, subentra a
quello liscio, promesso dai teorici dell’età globale”..
Riemergerebbe,
in sostanza, un forte richiamo identitario che troverebbe la sua espressione
non tanto e soltanto in richieste di tipo economico, ma anche e proprio (come
accade nel caso ispano/catalano) da una molteplicità di elementi fra i quali
reciterebbe un ruolo fondamentale quello della “identità storica” (
riassumibile nel caso in questione della Spagna /Catalogna nelle “fratture”
ancora in atto dalle vicende della guerra civile edalla contrapposizione
Monarchia / Repubblica).
Nel caso
ispano / catalano si nota, infatti, l’elemento del confronto tra monarchia
accentratrice (come si è visto nell’uso della forza nel giorno del referendum)
versus repubblica popolare: ed è questo un elemento che sul piano politico ha
dimostrato comunque di mantenere un peso molto rilevante.
Il richiamo identitario si sviluppa proprio a
livello di grandi masse sul terreno storicamente e culturalmente più prossimo,
quella della propria immediata dimensione territoriale: quella della
riconoscibilità della “propria patria” in questo caso fieramente repubblicana.
Tanto è vero
che l’UE (costruita mille miglia lontano da questo tipo di tensioni) e le
cancellerie europee si sono palesate quanto mai perplesse nell’assumere
posizione al riguardo se non con
espressioni di mera circostanza.
Torniamo
però al tema più generale: quello della fine della “società liquida” e,
insieme, dell’inaspettato ritorno sulla scena dello “Stato – Nazione” ( fattore
alimentato anche dalla vicenda dei migranti) e della “geopolitica” (con
accenti, in questo caso, addirittura da “nuova guerra fredda”).
Nel corso di
questi ultimi anni abbiamo verificato l’evolversi di nuove dimensioni
dell’agire politico sviluppatesi in particolare in Occidente e poste in relazione a profondi mutamenti
avvenuti sul piano dell’innovazione tecnologica nel campo della comunicazione
di massa, della struttura della società e della modificazione nel rapporto
tra forme di gestione del potere da
parte delle classi dominanti e il concetto stesso di rappresentatività
politica. E’ stato analizzato il fenomeno di una globalizzazione economica
velocizzata al massimo dall’uso di nuove tecnologie e sono sorti movimenti
testi a contrastarne gli effetti più dirompenti al riguardo delle stridenti
diseguaglianze sociali che – a livello planetario – il fenomeno definito come “globalizzazione”
ha provocato.
Nel
frattempo hanno acquistato grande peso quelle contraddizioni definite post
–materialiste “in primis” quelle ambientale e di genere; si è sviluppato
fortemente il processo di finanziarizzazione nel ciclo di gestione capitalistica;
la “politica” è stata sempre più esercitata nel segno del “comando” e
dell’interventismo sulle sfere della vita quotidiana ( è questo l’elemento di
maggiore difficoltà della cosiddetta “democrazia liberale”, nella dimostrazione
di una sempre più crescente incompatibilità tra di essa e il capitalismo
iperfinanziarizzato che non lascia margini al pluralismo politico e al welfare
ma si intende come totalizzante nell’accentramento della gestione del potere).
Addirittura,
sulla spinta della fine dell’esperienza sovietica si parlò, da parte di
politologi conservatori come Fukuyama e Huntington di “fine della storia” e
addirittura di unico confronto possibile quello dello “scontro di civiltà” tra
l’Occidente e l’Islam. Del resto questo esito della “fine della storia” non
coincideva altro che con il trionfo dell’ideologia capitalista travestita da
non-ideologia era apparso possibile grazie all’egemonia assunta dal concetto
neo-liberista insito nella ventata conservatrice propiziata dall’offensiva di
Reagan negli USA e di Margaret Tachter in Gran Bretagna: USA e Gran Bretagna.
USA e Gran
Bretagna si dimostravano ancora una
volta dopo la fine della seconda guerra mondiale i paesi-guida nell’economia e
anche nella riflessione politica, campo nel quale il sociologismo di marca USA
pareva ormai sopravanzare l’idealismo del modello renano. Insomma: era il tema
del “pensiero unico” sul piano economico, politico e soprattutto filosofico. Una
sola strada sembrava tracciata e l’unico scontro possibile era dunque quello
“di civiltà” versus i “nuovi barbari” dell’islamismo terrorista (salvo,
ovviamente, gli affari con i sauditi, ecc.).
Ora la fine
della società liquida sta mandando in una difficoltà forse definitiva il
“pensiero” ed il “mercato” unico, con grande fastidio di coloro che detengono
il potere in quella “plutocrazia” ancora così definita da Noam Chomsky nel suo
fondamentale “Le dieci leggi del potere”
recentemente apparso anche in Italia.
Oggi, nel
relativamente “piccolo” della crisi spagnola (ovvero dell’indipendenza
catalana) è proprio questo punto del pensiero e del mercato unico che va in
discussione.
In questo
quadro di visione complessiva schematicamente riassunto , sul piano più
strettamente politico, emergono alcuni fenomeni molto importanti : quello della
già richiamata evidente crisi di quella già classicamente definita come
“democrazia liberale” e, di conseguenza, in Occidente della completa
dismissione di identità da parte dei partiti socialisti e socialdemocratici
(compreso il PDS, poi DS italiano, che proveniva da una storia affatto
diversa).
In questo quadro emergono evidenti:
1) Il passaggio degli ex-
socialisti e socialdemocratici nel campo liberista attraverso la scorciatoia
del blairismo e dell’ulivismo (certo con contraddizioni, ma nella sostanza
della schematicità di un intervento di questo tipo il giudizio di fondo non può
che essere quello appena pronunciato)
2) La marginalizzazione, non solo
elettorale ma soprattutto di radicamento sociale, delle forze rimaste
antagoniste, soprattutto di quelle di matrice comunista costrette a
nascondersi, in pratica, in Francia, in Spagna, in Italia, in Grecia all’interno
di generiche alleanze “di sinistra” e prive della capacità di affrontare, a
livello di masse, il nuovo quadro di contraddizioni che si sta presentando.
Due punti di
riassunto per concludere.
1) la globalizzazione, così com’era stata intesa negli ultimi 20
anni si è arrestata;
2) così come ha sicuramente
rallentato, rispetto alle previsioni, quel processo di cessione di sovranità
dello “Stato – Nazione” che pure era stata considerato alla base di ipotesi
politiche di grande portata come quella della costruzione dell’Unione Europea. Concetto di “Stato – Nazione”
attaccato dunque non in dimensione
sovranazionale ma all’opposto dall’emergere di specificità territoriali di tipo
economiche e culturale sbrigativamente definite nel linguaggio giornalistico
corrente come “regionaliste”.
Si è così
dimostrato che, in sintesi, il laissez-faire e la tecnocrazia internazionale
non forniscono una valida alternativa allo Stato-nazione eppure i popoli
premono per affermare una più diretta
vocazione alla piena espressione della
loro volontà. Forse ci sarebbe da riflettere su di una frase
dell'economista e premio Nobel Amartya Sen
che parla infatti di "identità multiple" (etnica, religiosa,
nazionale, locale, professionale e politica), molte delle quali oltrepassano i
confini nazionali o stanno dentro a quei confini forzatamente tracciati
nell’epoca dei nazionalismi e degli imperialismi, in quel secolo definito
“breve” da Eric Hobsbawm.
“Identità
multiple” che l’internazionalismo marxista risolveva declinando come l'avversario dell'internazionalismo fosse il
nazionalismo borghese e considerando la divisione del mondo in classi il vero
ostacolo allo sviluppo della società umana. Ci troviamo di fronte a
contraddizioni evidentemente stridenti non affrontate dal punto di vista del
pensiero politico. Un pensiero politico quello corrente mai apparso, come in
questa fase, legato esclusivamente nelle
sue espressioni maggioritarie a esigenze contingenti di sopravvivenza per ceti
privilegiati. Forse è proprio quest’ultimo il punto, quello della sopravvivenza
dei ceti privilegiati: come sempre il punto riguardante l’egoismo, la
conservazione, lo sfruttamento, la disuguaglianza. Una situazione che reclama
urgentemente una proposta di modello alternativo naturalmente rivolta non solo
alla Catalogna.