di Franco Astengo
Odio. Molti ne discutono
e denunciano. ma non pare che si stia cercando di realizzare una qualche
analisi che sul piano politico risulterebbe necessaria.
Si
tratta di questo:
L’Odio
è stato trasformato da sentimento che sospende la categoria dell’etica a
strumento politico usato per mistificare il passaggio verso l’autoritarismo
personale inteso come elemento decisivo per superare la crisi della democrazia
liberale. È questa la novità che
riemerge dal confuso panorama che si presenta guardando al sistema politico
italiano: un vero e proprio punto di svolta rivolto verso il compiuto
imbarbarimento nei rapporti sociali e politici verso il quale era già stata
comunque compiuta molta strada negli anni trascorsi.
Le
democrazie occidentali, e in particolare quella italiana, si trovano ad
affrontare alcuni punti di crisi molto acuti:
1) Crisi di legittimità,
dalla quale deriva una difficoltà di accettazione delle regole del gioco
costituzionale;
2) Crisi di partecipazione
per la difficoltà di “entrata nella politica” e d’integrazione nell’ordine
costituzionale da parte di strati sociali che sembrano preferire l’abbandonarsi
senza discernimento alle promesse elettorali e potrebbero presto scivolare nell’idea
dell’affidarsi al cosiddetto “uomo forte” e a un regime sostanzialmente
autoritario (già si teorizza di “democrazia autoritaria” sul modello delle
grandi potenze che sembrano proprio indicare questa strada comune a USA;
Russia, Cina, Turchia e forse già domani Brasile). Nel sistema politico
italiano tentativi in questa direzione se ne erano già verificati, da
Berlusconi a Renzi, ma adesso la questione sta facendosi sempre più acuta;
3) Crisi di distribuzione,
con la difficoltà a individuare strumenti coerenti di democrazia economica.
All’interno
di questo quadro si sta verificando una crisi del sistema che appare insieme
della struttura e della sovrastruttura: una situazione abbastanza inedita,
almeno nella storia repubblicana, anche rispetto alla fase di inizio anni ’90
quando si pensò di porre rimedio attaccando i partiti e imponendo, anche in
quel caso mistificando la realtà, la personalizzazione della politica. Oggi
siamo al punto che si è trovato chi ha pensato di riesumare l’antico dilemma di
Rousseau (precedente di due secoli la cosiddetta “democrazia del web”): far
decidere tutti o far decidere in pochi? Il tema cioè della cosiddetta
“democrazia diretta”. “Democrazia
diretta” che, appunto, seminando odio si sta cercando di trasformare in dominio
del virtuale, pensando sia sufficiente spingere un testo per decidere il
destino di sé e degli altri in nome delle tavole di una “nuova supremazia”.
Sul
dominio del virtuale s’intende poggiare una forma di autocrazia, con un salto all’indietro nella
storia rinnegando così il tratto positivista dello storicismo.
Il
grande bersaglio di questo “dominio virtuale” appare essere rappresentato dalle
forme date della mediazione politica: le forme assunte nel passaggio dal
notabilato alle espressioni della democrazia di massa. Non è un caso che da
qualche tempo si sono intensificate le discussioni intorno al tema del ruolo
del Parlamento e dei Partiti. Da alcune parti il Parlamento è stato indicato
come un’istituzione in via di estinzione e se ne propugna, nella fase di
transizione, una composizione per sorteggio (azzardando impropri paragoni con
la democrazia ateniese).
Un’argomentazione,
questa del Parlamento in via di estinzione, che sembra fare presa al punto che
per confutarla Nadia Urbinati, dalle colonne di “la Repubblica”, ha provveduto
a elaborare alcune distinzioni di merito ricordando, come tra l’altro, sia
necessario distinguere tra consessi destinati a redigere le leggi e consessi
destinati a giudicare e facendo notare che, nel secondo caso, il sistema del
sorteggio è stato mantenuto risultando ancora presente nel nostro ordinamento,
come nel caso dei giudici popolari in corte d’assise e in corte d’appello. Il
dibattito sul ruolo del Parlamento trascina con sé naturalmente quello sui
partiti e, più in generale, quello sulla democrazia: c’è, infatti, chi pensa a
una democrazia (e di conseguenza a una rappresentanza parlamentare) limitata al
solo ruolo di controllo della tecnica, con le Camere poste sostanzialmente in
una funzione da giustizia amministrativa (il ritorno all’antico Parlamento di
Parigi in tempo di monarchia assoluta?).
Esprimendo
la convinzione dell’insostituibilità del Parlamento quale sede ed espressione
della rappresentanza politica e di conseguenza del relativo ruolo dei partiti
pare il caso di entrare nel merito di una visione della crisi del sistema
politico.
Come
regola generale: un sistema politico “alimentato” da domande e richieste di
servizi che esso cerca di soddisfare in uscita, fornendo alla collettività i
servizi che riesce a realizzare. Ma di tanto in tanto il sistema politico è
scosso da crisi, vale a dire è chiamato a “processare” carichi nuovi che non
appartengono alla routine dei suoi normali processi digestivi. È il caso del
cosiddetto “eccesso di domanda” esploso con la società dei consumi e la
modifica dell’assetto sociale sulla base dell’individualismo consumistico e
corporativo.
Una
situazione che si è cercato di risolvere attraverso il “taglio dell’eccesso di
domanda” e la separatezza tra sistema politico e richiesta sociale, come si era
tentato di fare in Italia attraverso il sistema elettorale maggioritario, le
riforme costituzionali, l’adesione al trattato di Maastricht.
L’esito
di queste operazioni è stato però quello dell’accavallarsi della crisi e del congestionamento
del sistema. Il sistema politico si è quindi trovato, da qualche anno, in una
paralisi di sovraccarico e non è bastata la “semplificazione” del comando. Una situazione,
quella che stiamo vivendo, definibile di mancanza di “sequenza”.
Siamo,
infatti, di fronte ad una crisi dovuta all’incapacità della classe politica di
recepire le richieste della società civile e di porle in ordine di priorità,
esattamente “in sequenza”.
È
capitato nella gestione del governo da parte del PD tra il 2013 e il 2018, con
il tentativo, già segnalato, di risolvere il tutto spostando il baricentro del
sistema dal Parlamento al Governo attraverso le riforme costituzionali, poi
bocciate dall’elettorato.
Capita
adesso al governo Lega-M5S che, fatta la voce grossa su alcune apparenti
emergenze che ci si propone di affrontare si pensa di risolverle seminando odio
e divisione sociale.
L’operazione
“divisione sociale” si è inverata attraverso l’espressione di una vera e
propria “fame di potere”, cercando di occultare la necessità di scalare la
montagna dell’ordinare “in sequenza” l’agenda politica. Un’operazione quella
del riordino della sequenza di grandissima difficoltà allorquando si tratta di
conciliare, ad esempio, “flat tax” e “reddito di cittadinanza”: grandissima
difficoltà derivante non tanto dai vincoli di bilancio (che pure pesano) ma
dall’antitesi che le due proposte presentano tra di loro come riferimenti
sociali, esigenze di accumulo di risorse e financo per opposte destinazioni
territoriali.
Il
governo Lega-M5S usando la categoria dell’odio copre l’incapacità di elaborare
una successione storica “distanziata” in modo tale che un certo carico, o una certa crisi, venga
superata prima che se ne apra un’altra. Naturalmente è necessario che questa “distanziazione”
avvenga per opera di soggetti in grado di definire la “differenza di sequenza”
individuando un ordine “ottimale” di successione, secondo cui certe crisi
conviene siano affrontate prima di altre. L’impossibilità di individuare l’ordine “ottimale” di
successione nella differenza di sequenza rappresenta il punto vero di crisi
delle democrazie mature. A suo tempo, di fronte ad una crisi per certi versi
analoga innestata dalla prima rivoluzione industriale, una risposta arrivò
elaborando la teoria del passaggio dalle élite ai partiti della mobilitazione
sociale (passaggio verificatosi almeno in Occidente): le decisioni “l’ordine
della sequenza” siano adottate attraverso il meccanismo politico, partiti e
sistemi di partiti. In questo modo si realizzarono due risultati stabili,
almeno per un certo periodo: l’allargamento lineare della cerchia degli
influenti e l’oscillazione ciclica nell’orientamento delle decisioni,
disponendo del fatto che i partiti della mobilitazione sociale usavano della rappresentanza
politica nel senso di ricercare riferimenti diversi e antagonisti. L’aver
abbandonato questa strada ci ha condotto alla situazione attuale, di grave
rischio e di potenziale ritorno all’indietro, verso situazioni che l’Italia e
l’Europa hanno già vissuto nei primi quarant’anni del secolo scorso.
Ci
si è imposto di seguire la “modernità della tecnologia” il “decisionismo” e la
“governabilità”. Si è rinunciato, di fatto, all’abbinamento valori-interessi
nel senso della concezione del mondo o più limitatamente della concezione di
società.
Si
è consentito come si è già ripetuto più volte, l’utilizzo del sentimento
dell’odio come categoria politica. Un utilizzo oggi dispiegato a piene mani
rivolgendosi sempre “contro” che ci ha condotto alla situazione attuale, di
grave rischio e di potenziale ritorno all’indietro, verso situazioni che
l’Italia e l’Europa hanno già vissuto nei primi quarant’anni del secolo scorso.
La responsabilità maggiore di questo stato di cose è però da assegnare non
tanto ai fomentatori dell’oggi ma a chi, nel recente passato, si è arreso
all’idea della necessaria sudditanza della politica all’economia e alla tecnica
facendo del governo il solo “totem” possibile e abbandonando la necessità della
distinzione ideologica, intesa quale fattore di costruzione della
rappresentanza sociale per abbracciare una presunta “fine delle ideologie” che
altro non voleva significare che “pensiero unico” come custode dell’assurdità
di una “semplificazione sociale”. Adesso tocca a noi riflettere sulla necessità
di un’immediata inversione di tendenza nell’opporsi alla mostruosità che è
stata costruita e che alcuni stanno sfruttando pericolosamente: non sarà facile
anche perché bisognerà uscire da quegli schemi prefissati seguendo i quali si è
arrivati nella situazione di oggi.