ETERNA MARCINELLE
di Franco Astengo
I nuovi schiavi di una nuova Marcinelle
Continuano i giorni del nostro lutto: ieri Laila El Harim, operaia
precaria di 40 anni è stata uccisa, risucchiata dalla macchina sulla quale
lavorava in una fabbrica di confezioni vicino Modena. Due mesi fa nel Pratese in
analoghe circostanze la morte della ventenne Luana D’Orazio.
Dispregio della sicurezza e libertà di licenziare accompagnano la
cosiddetta “ripresa e resilienza” da un’epidemia causata prima di tutto dal
ritmo folle e dalla distruzione ecologica voluta da un meccanismo di
accumulazione incontrollata che distingue questo capitalismo del XXI secolo.
Tutte questo (e molto altro) avviene nei giorni in cui ricorre il 65°
anniversario della strage di Marcinelle.
Un ricordo che cerchiamo di perpetuare ad ogni scadenza proprio allo
scopo di elevare - ancora e nonostante tutto - un monito contro lo sfruttamento
e che proprio adesso assume un valore molto particolare.
L’8 agosto di 65 anni fa, 262 minatori, di cui molti italiani, morirono
nelle miniere di carbone a Charleroi, in Belgio, nella miniera di Marcinelle a
causa di un incendio.
Ricordare oggi quei caduti deve significare ritrovare nel quotidiano le
ragioni della nostra ostinata ricerca per “abolire lo stato di cose presenti”.
Non si può allora far altro che ritornare a quanto descritto da Marx e
Engels nel “Manifesto”: “il
proletario è senza proprietà, il moderno lavoro industriale, il moderno
asservimento al capitale, identici in Francia, come in Inghilterra, in America
come in Germania lo hanno spogliato di ogni carattere internazionale”.
Ebbene quella tragedia di Marcinelle, quell’ 8 Agosto 1956 dimostrò per
intero la veridicità dell’analisi marxiana: i morti, i sacrificati all’idea
dello sviluppo anche quella volta, anzi mai come quella volta non avevano
nazione, erano soltanto degli sfruttati portati all’estremo sacrificio come
Laila e Luana.
Nella modernità di oggi tutto
questo è ancora ben presente, da Modena a Prato, da Dacca a Città del Messico.
In trent’anni la forza lavoro globale è aumentata di un miliardo e
duecento milioni di donne e uomini. Quaranta milioni in un anno. Più di
centomila al giorno. Settantacinque al minuto. È il ritmo con il quale crescono
le fabbriche in Cina e si affollano le periferie: da Giakarta a Hanoi, da
Mumbai a Lagos, da Johannesburg al Cairo. Si ascolta qui il respiro del mondo,
si misura l’idea di uno sviluppo capitalistico globale che intensifica lo
sfruttamento, scuote le relazioni tra le potenze, modifica i rapporti di forza
tra le classi, spinge i padroni a schiacciare i proletari. Nell’Occidente
sviluppato e maturo emergono tratti di vero e proprio “ritorno all’indietro”
alle condizioni sociali della prima rivoluzione industriale, quelli descritti
dalle pagine di Dickens o di Zola. È sempre attuale e presente il "nostro Germinale".
Aumenta la pressione sulla condizione operaia in Europa come in
America, il Sud del mondo viene usato per esasperare la concorrenza e costruire
le condizioni dell’esercito di riserva, si sviluppa la politica imperialista
contro i salari, le grandi potenze si contendono i territori nel cui sottosuolo
si ritrovano i materiali per far funzionare il crudele meccanismo del modello
consumistico proposto dall'hig-tech senza alcun rispetto verso chi è nato e chi
vive quelle terre. Non si possono coltivare illusioni localiste, nazionaliste,
protezioniste: la sola strategia per ricostruire, in Occidente come altrove, la
forza di una politica di contrasto allo sfruttamento e di nuova coesione
sociale attraversa i popoli, la grande massa degli sfruttati, quanti si muovono
nell’incertezza più assoluta alla ricerca di una vita appena appena più
accettabile e, nella gran parte dei casi, viene brutalmente respinta dal mondo
dei ricchi.
La memoria di
Marcinelle, momento storico esemplare nell’idea della ferocia dello
sfruttamento, deve servire prima di tutto a ricordarci questo.
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