IL FUTURO
di
Marco Vitale
“Perché
un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima
la
vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio”.
A.
Camus
Confesso
che quando Manzoni mi ha invitato al dibattito intorno al suo libro Salvare
il futuro, sono rimasto subito molto incerto. Il libro vola alto e parla di
massimi sistemi, con l’aiuto di studiosi e personalità molti dei quali da
sempre sono nel mio cruscotto da Papa Francesco, a Capra, a Morin, a Vega. La
mia perplessità, che ho comunicato a Marco Manzoni, nasce dal forte dubbio
sulla mia idoneità a dare un contributo utile ad un dibattito di carattere
generale sui massimi sistemi. Io sono un umile ma convinto seguace di Carlo
Cattaneo collocato nella grande tradizione dell’Illuminismo Lombardo. Una
caratteristica fondamentale di questa tradizione di pensiero è la partenza
dalla realtà e il ritorno alla realtà. Per loro: “L’economia non è una
costruzione logica, astratta, razionale; è la vita vivente, così complessa da
capire, da conoscere, da prevedere, da correggere”. Ma è dallo studio dei fatti
che bisogna partire non per fermarsi a un empirismo senza prospettive ma per
estrarre, per distillare dai fatti i concetti, le regole, i principi… Da questa
tensione a rimontare dai fatti ai principi, tutta l’opera del Cattaneo è
pervasa e illuminata. Pagine di limpida teoria come quelle contenute nel saggio
qui pubblicato (1861) non sarebbero state possibili senza il precedente lungo
lavoro di studio accurato dei fatti dalla geografia economica alla storia, alla
struttura socio-economica della Lombardia, al ruolo delle città, alle
problematiche della distribuzione dei beni (“un popolo può morire di fame per
le vie eppure i granai del paese essere colmi e nei porti affollarsi il
bestiame a lontano commercio”), al ruolo dei trasporti, allo studio degli
effetti delle opere pubbliche per fronteggiare la drammatica crisi irlandese del
1844-47, alle battaglie su tante vicende economiche correnti. Ma questi studi
non conserverebbero attualità, in un contesto per tanti versi, ma non per
tutti, così profondamente cambiato, se non fossero pervasi da un continuo
sforzo di pensiero, di “rimontare” dai fatti ai principi, pur con tutta la
cautela e l’umiltà che un profondo conoscitore dei fatti, uno studioso vero
sempre esprime quando cerca di trarre generalizzazioni da una materia così
complessa e cangiante come è l’economia. Questo è il positivismo del Cattaneo e
degli studiosi dei quali è erede. Un positivismo che è tutt’altro che cieco,
tutt’altro che ingenuo, tutt’altro che vittima dell’illusione “sulle magnifiche
sorti e progressive”. È un positivismo realista, di chi conosce a fondo gli
alti e bassi delle vicende umane, di chi conosce la lentezza, la gradualità, la
fatica dell’incivilimento, di chi ha sofferto disillusioni generali e
personali, di chi sa che solo i processi di sviluppo che nascono dal basso,
dalla maturazione collettiva, dalla valorizzazione dei propri talenti, dalla
dura fatica intellettuale, materiale e morale, hanno possibilità di
consolidamento, di chi, come Cattaneo, ha letto e interiorizzato il Vico. Ma le
difficoltà, le sconfitte, non uccidono la speranza, che non è mai ottuso
ottimismo ma è solo impegno morale. Dai fatti ai pensieri e dai pensieri ai
fatti. Per migliorarli, per contribuire, senza che le cadute e le
contraddizioni spengano la speranza e l’impegno. Questa è la morale
dell’industria e del lavoro, come Cattaneo la illustra in una sua altra
splendida pagina intitolata, appunto, “Industria e morale” (Relazione da lui
tenuta alla Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri, Milano, 1845 in Scritti
economici*, ed. Le Monnier,1956, Volume III).
Carlo Cattaneo
Alla
fine, ho pensato che avrei potuto avere il piacere di partecipare a questo
incontro tra tre Marco (Garzonio, Manzoni, Vitale), uniti tra loro non solo dal
nome ma anche da amicizia e ampia connessione di idee e di sentimenti,
limitandomi, secondo la lezione di Cattaneo, a parlare di due temi dei quali ho
qualche conoscenza: l’impresa e l’economia imprenditoriale in lotta contro il
turbocapitalismo e la lezione della pandemia Covid 19 (per la quale rimando
anche al mio libro: Al di là del tunnel, giugno 2020). Ma c’era un altro motivo
che mi creava qualche imbarazzo a partecipare a questo dibattito. Tale motivo
consisteva nel fatto che talune impostazioni e passaggi del libro di Marco mi
lasciano molto perplesso e su altri sono in disaccordo. Non vorrei essere
frainteso. Apprezzo il libro, come del resto apprezzo da molto tempo il
prezioso lavoro di Marco “come artigiano culturale”, cosa di cui ho dato
ripetutamente pubblica testimonianza. Il libro è un invito a guardare in faccia
apertamente i gravi mali della nostra epoca e a ritornare a pensare. È dunque
un libro coraggioso e prezioso. Ed è nell’ambito di questo giudizio positivo
che formulerò, con la franchezza che la stima e l’amicizia richiedono, le mie
perplessità, per cercare di contribuire alla discussione su temi sui quali ho
qualche esperienza.
Ma
prima voglio porre in chiaro la mia critica di fondo che verte sul ruolo che il
libro, come molti altri, sembra attribuire alla pandemia. Attribuire le cause
della pandemia agli errori o alla hybris dell’uomo moderno è una forzatura
storica inaccettabile. Le pandemie ci sono sempre state anche senza le cause
che gli scrittori apocalittici attribuiscono all’uomo moderno. La pestilenza
c’è stata in Atene e ne ha narrato Tucidide, la peste c’è stata a Firenze e ne
ha narrato il Boccaccio ed anzi la peste, a quei tempi, ha tormentato l’Europa
tutta per due secoli decimandone la popolazione; la peste c’è stata in
Lombardia e in particolare a Milano nel 1630 e ne ha narrato mirabilmente il
Manzoni con pagine che sono ancora piene di insegnamenti per noi. Se non
abbiamo visto i monatti per le strade di Milano (ma nell’estate 2020 abbiamo
sentito una sinfonia di sirene giorno e notte e abbiamo visto nella bergamasca
file di carri militari che portavano via, praticamente in fosse comuni, i
morti), lo dobbiamo alla scienza e alla tecnica che non sono hybris ma
testimonianza della grandezza e dignità dell’uomo e della fedeltà al suo
mandato: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse” (Gen. 2.15).
Hybris
non è l’azione, disperata e coraggiosa, del personale sanitario che si ribella
alla mala gestio della sanità lombarda e operando, secondo scienza e
coscienza, riesce a contenere i danni, ma è l’incompetenza, l’incapacità e
l’irresponsabilità di tanti vertici politici (non solo lombardi e non solo
italiani) che hanno inanellato una serie di errori e di superficialità non
minori di quelle dei reggitori di Milano del 1630, dei quali parla il Manzoni.
La testimonianza migliore di ciò si trova nel libro di Walter Ricciardi, Pandemonio,
Laterza, gennaio 2022. Questo importante libro si chiude con queste parole: “La
pandemia ci impone di interrogarci se siamo in grado di evitare che questo
succeda di nuovo. Dipende da noi, dalla capacità che avremo di indirizzare le
risorse che arriveranno dai fondi europei verso la sanità, la ricerca, la
formazione, l’innovazione, dalla capacità di premiare il merito, dalla volontà
di tradurre finalmente nella nostra lingua la parola accountability. Come
scriveva Indro Montanelli, “è un termine chiave della democrazia anglo-sassone,
indica il dover rendere conto del proprio operato a chi ci ha eletto o paga il
nostro stipendio. In italiano non è stata ancora tradotta. Sarebbe l’ora di farlo,
o sarà un pandemonio”. Queste parole mi sono utili per introdurre un concetto
di fondo. Quello che più mi fa paura non è tanto il virus del quale ho sempre
pensato e scritto che sarebbe stato sconfitto dalla scienza e dal coraggio
dell’uomo, ma è l’assenza di un “confiteor” a tutti i livelli. In assenza di
confiteor (assenza plateale in Lombardia ma non solo) sia sul piano specifico
della pandemia che sui temi più vasti trattati nel libro di Marco non si può
avanzare. Sul ruolo fondamentale del “confiteor” non posso che rimandare a
quanto ho scritto nel libro Al di là del tunnel.
Ma
è tempo che mi concentri sul tema al quale ho dedicato qualche impegno negli
ultimi 60 anni, quello dello sviluppo economico. Su questo tema merito da Marco
Manzoni una citazione in questi termini (pag.142): “il secondo è
l’economista d’impresa Marco Vitale che nell’intervista biografica che mi
concesse parlò della necessità di un capitalismo ‘temperato’ che riesce
a porre argini alla capacità dei poteri finanziari: un capitalismo libero
proprio in quanto responsabile”. Francamente non ricordo di aver mai usato
il termine “capitalismo temperato”. Se ho detto questa sciocchezza chiedo
scusa. Da 40 anni, da quando con una rapidità paragonabile a quella dell’ultima
variante del Covid e con una potenza incredibile, si è diffuso nel mondo il
c.d. neoliberismo, con centrale all’Università di Chicago, ho sostenuto che si
trattava di una grave malattia per il mondo occidentale. Churchill,
rivolgendosi all’esiguo gruppo degli eroici piloti inglesi che avevano battuto
l’aviazione tedesca nella storica battaglia nei cieli di Londra, ha scritto: “Mai
nella storia dei conflitti umani tanti devono così tanto a così pochi”. Parafrasando
questa frase giustamente famosa io ho scritto: mai un così piccolo gruppo di
persone come i Chicago boys, teorici del neocapitalismo, ha fatto danni così
grandi a un così gran numero di persone nel mondo. Se questo è auspicare un
capitalismo temperato dite voi. Io penso e dico e scrivo che da tanto
tempo è in corso una guerra economica: da una parte un capitalismo finanziario
al servizio dei ricchi che devono diventare sempre più ricchi come illustra una
loro teoria economica che si chiama “trickle down economy” che è diventata del
tutto dominante nel mondo occidentale; dall’altro “una economia imprenditoriale
e di mercato” basata sulla libertà d’impresa, sui mercati non manipolati, sul
rispetto dell’uomo, sul rispetto della natura, sulla democrazia economica,
sulla distribuzione della ricchezza, sulla conoscenza diffusa. Io da
cinquant’anni sono schierato per l’economia imprenditoriale e di mercato e ho
cercato, nelle mie modeste possibilità, di operare a favore della stessa, nella
professione e nell’insegnamento. Ho cercato di essere “un cuore che pensa” come
dice questa bellissima espressione di Etty Hillesum che non conoscevo e per la
quale sono debitore al libro di Marco. Ed ho cercato di collegare la visione dell’economia imprenditoriale ai
grandi filoni di pensiero del mondo occidentale, dal riformismo di Roosevelt al
pensiero liberale classico di Cattaneo, Roepke, Einaudi, all’economia sociale
di mercato di scuola tedesca, alla moderna Dottrina Sociale della Chiesa, con i
suoi vertici che sono, sul piano economico, sociale, antropologico, naturale,
le encicliche Centesimus Annus e Laudato
Sii che, a prescindere dal loro valore religioso e teologico, autentici pilastri del pensiero socio-economico occidentale. Sino a poco tempo
fa chi schierandosi su questa linea si opponeva alla visione economica
neoliberista era considerato un reietto. Non c’era speranza di discussione.
Oggi,
grazie al Coronavirus e alle crisi finanziarie che lo hanno preceduto e che
inevitabilmente si ripresenteranno con maggiore durezza, si sono aperti squarci
di azzurro nel cielo cupo. Siamo ritornati, cautamente, a pensare, dialogare,
batterci per il libero pensiero, per l’accountability. Siamo usciti dal Lager
intellettuale. Ma per tornare in patria abbiamo poche indicazioni. Sappiamo
solo che dobbiamo fare circa 1800 km. in direzione Sud-Ovest, ma abbiamo vivo
il ricordo degli insegnamenti dei grandi maestri che ho ricordato. Partiamo
ringraziando il Covid liberatore e pregando la Madonna che ci protegga nel
lungo e periglioso viaggio di ritorno.
Il monumento a Cattaneo
a Milano
*Marco
Vitale, postfazione al saggio di Carlo Cattaneo:
Del
pensiero come principio di economia pubblica,
Libri
Scheiwiller, 2001. Il saggio di Cattaneo è del 1861
Il monumento a Cattaneo a Milano |