Gli
scrittori e le città
ROMA, LE ACQUE DEL BAROCCO
di
Gabriella Galzio
Tramonto su Roma
muta
muta la mia aurea pelle di drago
nessa del tempo la prima corolla del cranio
bucai nella luce e il cielo fu fuoco passeri sfiammanti
Gabriella
Galzio, Ishtar dagli occhi colmi
Vorrei
narrarvi un sogno numinoso che feci anni fa e che rimise in moto la mia psiche
impantanata. Al centro di una grande fontana barocca, solare come quelle che si
trovano a Roma, con i mostri marini, a Piazza Navona, o celeste come l’acqua
della Barcaccia ai piedi di Trinità dei Monti – adagiata su un gruppo di
scogli, si vedeva una madonna morbida e venusiana, la cui parte inferiore del
corpo si avvolgeva in spire intorno agli scogli. Essa era chiamata Madonna del
Ti-a’mat.
Così,
ancora avvolta dalle spire, (in-spirata) dalla bellissima dragonessa, vado alla
ricerca di questo mito e cosa scopro? Che nel sud dell’Arabia, la Dea madre
Tiamat era assimilata ad Ishtar. Rimango stupefatta. Il sogno pareva volesse
tornare a indicarmi una direzione di ricerca già indicatami dalla poesia e
culminata nel libro Ishtar dagli occhi
colmi, con particolare riferimento alla muta della pelle (ed eterna
giovinezza) della dragonessa - nei versi “muta
muta la mia aurea pelle di drago/nessa del tempo”. Ciò che sogno e poesia
mi invitavano a indagare era il fulcro mitico sumero-babilonese incentrato su
Ishtar prima e su Tiamat prima ancora. Già altrove avevo chiamato “rimonta
mnestica” questo trapassare strati e strati di storia per giungere a toccare la
materia incandescente della civiltà, quella materia prima che possiamo tornare
a plasmare. Al pari del sogno, infatti, la scrittura, quella poetica in
particolare, la mitopoiesi per eccellenza, costella i movimenti profondi della
psiche in transe-formazione. L’ispirazione poetica o transe
poetica imprime appunto quell’azione dinamica sulla psiche che la porta a
cambiare forma; tale per cui, a valle della versificazione, la/il poeta non è
più la stessa persona. Ho fatto questa breve digressione per significare come
il sogno, la poesia, il mito entrino in maniera fondante nel flusso
trasformativo profondo della vicenda esistenziale di chi scrive.
Tramonto su Roma |
La fontana dei quattro fiumi
Bernini
Ma
l’interrogativo che qui mi intriga è perché mail il sogno avesse scelto come
sua ambientazione proprio Roma, e più precisamente quel capolavoro del Bernini
– la fontana dei Quattro Fiumi - che campeggia al centro di Piazza Navona. Forse
una delle ragioni verosimili è che l’anima - come affermò Eraclito nei suoi
frammenti, e Hillman due millenni dopo nel suo La politica della bellezza
- si nutre d’acqua, e così i sogni che dall’anima sgorgano copiosi. Chi
passeggia per Roma incontra un tripudio di acque che scorrono, dal lungofiume
alberato del Tevere alle scenografiche fontane, tipicamente la felliniana
Fontana di Trevi; dalle più intime fontanelle, come quella delicata delle api
da cui l’acqua è “fischiata” in una conchiglia bivalve, a quei simpatici e
popolari nasoni la cui acqua scorre fresca a volontà…
E
prossima all’acqua nasce l’arte del barocco, con le sue curve e sinuosità così
affini all’ondosità dei flutti… forse senz’acqua, nemmeno il barocco sarebbe
stato così scrosciante e generoso. Con il ’600, infatti, Roma viene arricchita
di abbondanti acque tramite la riattivazione di un formidabile acquedotto,
quello che Traiano aveva costruito per alimentare la città. Quella che a Roma è
conosciuta come “Acqua Paola” si trova sul Gianicolo in una delle fontane più
belle e più ricche di acqua. E il grande bacino antistante dove l’acqua si
riversa in abbondanza, non a caso è stata scelta da Sorrentino tra le immagini
di apertura del suo film “La grande bellezza”. Ma pensate anche all’acqua
celeste della Barcaccia adagiata ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti,
creata da Bernini padre, e portata – così si narra – da una piena del Tevere e
lì lasciata sulla piazza dopo che le acque del fiume si erano ritirate. Come un
dono, o una celeste apparizione. Scenografiche apparizioni, come quella di
Villa Doria Pamphili sul Gianicolo, che si estende su un terreno ampio e
scosceso di cui l’architetto ha saputo sfruttare i dislivelli ottenendo
suggestivi effetti scenografici con le ornamentazioni arboree. O anche solo quelle
facciate barocche, concave o convesse, che d’improvviso vi si aprono davanti
facendo ingresso in una piazza; o più sontuose, nel loro abbraccio ecumenico
come quello offerto dal grandioso colonnato nell’ellissi di San Pietro. E sarà
Gian Lorenzo Bernini a conferire a Roma una visione movimentata di grandezza.
Bernini
Sant'Agnese in Agone
Adoro seguire il filo rosso di quella
magnificenza barocca che da Roma ha irraggiato la penisola, transitando per il
fine ricamo del barocco leccese, fino all’ultimo lembo della Sicilia
sud-orientale degli inizi del ‘700: gli effetti prospettici e gli sfondi
naturali creati attraverso scalinate e ampiezza delle vie a Noto, o una seconda
scalinata di Trinità dei Monti arrampicata in alto tra i giardini, a balze verso
il prospetto convesso del Duomo di San Giorgio a Modica. Tra i maggiori
esponenti del barocco siciliano che contribuì alla ricostruzione del Val di
Noto dopo il terremoto, l’architetto Rosario Gagliardi non a caso ebbe forti
collegamenti con il barocco romano del Borromini, il quale, ricordiamo, aveva
lavorato alle dipendenze del Bernini e aveva avuto con lui più di un motivo di
contesa; non in ultimo proprio la famosa impareggiabile architettura barocca di
Piazza Navona che fu ugualmente portata a compimento dal Bernini malgrado la
sua iniziale esclusione dal concorso tra gli architetti dell’epoca. Alla fine
anche il papa (Innocenzo X) dovette capitolare, e come ebbe a dire lui stesso: “Questo
disegno non può essere d’altri che del Bernini /_…_/ E bisognerà pure servirsi
di lui, a dispetto di chi non vuole, perché bisogna non vedere le sue cose, per
non porle in opera”.
Opera del Borromini, maestro della facciata concava, fu poi comunque la Chiesa
di S. Agnese con il suo prospetto a dolce curva che aggetta sulla fontana del
suo acerrimo avversario. Una contesa senza esclusione di colpi, se il Borromini
informò il papa che l’acqua non poteva fluire dalla fontana. Ma Bernini che ne
venne a conoscenza, tenne appositamente chiusi gli sbocchi di emissione. E solo
all’ultimo, quando il papa era ormai in procinto di lasciare la piazza, diede
il via libera al fragore di uno scroscio di acqua irrompente a completare la
visione sonora del suggestivo fontanone dei fiumi.
Trinità dei Monti
Non può stupire, dunque, che il sogno abbia scelto per le sue ambientazioni
proprio quello stile architettonico che aveva lo scopo di sorprendere e
stimolare l’immaginazione. Proprio le sue figurazioni curvilinee e persino le
sue mostruosità che affondano nel mito arcaico teromorfo avvincono l’anima
nelle sue peregrinazioni. Come quando nel mezzo della Piazza Barberini si incontra
leggera, slanciata, elegante, la Fontana del Tritone, opera dell’architetto che
dalle difficoltà traeva motivo di ispirazione. Bernini non poteva disporre che
di un filo d’acqua per realizzare la fontana. E allora sprigiona quel Tritone,
con la faccia rivolta al cielo, che sollevando ambedue le braccia accosta alla
bocca una conchiglia cui dà fiato sprizzando un alto zampillo che cade nelle
due valve aperte di un’altra conchiglia. Un capolavoro d’ingegno cui faranno
eco i versi di D’Annunzio: “Su la piazza Barberini/ s’apre il ciel, zaffiro
schietto. / Il Tritone de ‘l Bernini/ leva il candido suo getto”. Persino alla
mia più modesta poesia d’esordio era stata riconosciuta una qualità barocca
grazie all’esubero delle sue metafore, e così il sogno, in cui forme cristiane
trasmutavano in pagane, e da figure classiche tralucevano sopravvivenze arcaiche.
Nella scenografia barocca, la città si fa teatro, così nel sogno si fa teatro
la psiche, creatura imprendibile nella sua fuga prospettica tra memorie del
giorno e archetipi remoti.
La fontana del Tritone
Bernini
Ma
dalla memoria arcaica la dragonessa del sogno ci risveglia a civiltà egalitarie
millenarie - sopravvissute in certe società indigene - precedenti la nostra,
fondata sul dominio, di cui principi e papi della controriforma furono
sommi interpreti anche grazie alla magnificenza delle opere dei loro artisti.
Mecenatismo e potere sono stati, e sono, un binomio inscindibile, e quando
ammiriamo le opere dei grandi dell’arte, non dovremmo mai perdere lo sguardo
critico sulla storia del dominio che le sottende. E nella Roma barocca questa
storia ha lasciato due testimonianze emblematiche: il Palazzo del Quirinale e il
Palazzo di Montecitorio. Due luoghi che nell’incarnare le funzioni del potere
politico (il Palazzo) giungono fino a noi – pur nel passaggio da aristocrazia a
democrazia - senza sostanziale soluzione di continuità per quanto riguarda il
paradigma fondante dominanti/ dominati; due luoghi simbolici che nei
recentissimi avvenimenti segnano il declino della rappresentatività delle
nostre istituzioni e l’incolmabile divario tra costituzione formale e
costituzione materiale. Al Palazzo del Quirinale, concepito per farne la
residenza estiva dei papi, dettero la loro opera, in fasi diverse, Flaminio
Ponzio, il Mascherino, Domenico Fontana, Carlo Maderno, il Bernini e Ferdinando
Fuga. A quest’ultimo si deve il completamento della Piazza da cui si ammira un
suggestivo panorama della città fino alla cupola di San Pietro. Anche il
Palazzo di Montecitorio, dal 1870 sede della Camera dai Deputati, è opera
barocca. Fu incominciato dal Bernini nel 1650 per i Ludovisi, proseguito sotto
il pontefice Innocenzo XI per i Pamphili e terminato da Carlo Fontana per
Innocenzo XII che lo destinò alla sede dei Tribunali. Sono del Bernini il piano
generale e l’idea di dare alla facciata l’andatura curva che ne aumenta la
grandiosità (ma non l’accoglienza che avrebbe presupposto una facciata
concava).
Bernini
Sant'Ivo alla Sapienza
Sta alla nostra anima non lasciarsi turbare nella mirabile visione della
bellezza dal pensiero mortifero del dominio, viceversa, affideremo alle fontane
di Roma e al presidio della dragonessa il bene comune dell’acqua pubblica,
quella ancora popolarissima che sgorga libera e generosa dai nasoni di tutta
Roma.