LA VERITÀ SULLA DIASPORA ITALIANA
di Lodo Meneghetti
Quando alla fine del 1974 apparve il
fascicolo monografico (nn. 11-12) del mensile Il Ponte dal titolo “Emigrazione
cento anni 26 milioni”, non tutti sembrarono credere alle cifre pubblicate.
L'incipit nell'introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava
seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che
i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o
fingere fosse normale vicenda riguardante l'economia mondiale e tutti i popoli:
“dall'unità d'Italia non meno di ventisei milioni d'Italiani hanno abbandonato
definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e
caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro
popolo”. Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni,
presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).
Emigranti italiani in America |
Nel 1971 i nostri concittadini
residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000, distribuiti in tutti i
continenti con fortissima prevalenza di Europa e Americhe. Aggiungendo gli
italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, ne
consegue che a quella data fuori del nostro paese esistevano circa sei milioni
e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, miriade di casi angosciosi
nella ricerca di lavoro e di casa, impatto frustrante con lingue sconosciute,
inenarrabili sfortune personali e famigliari. Per un risultato appena coerente
con la speranza, cento tradimenti del sogno e accettazione di ogni tipo di
sfruttamento pur di lavorare e di abitare, tant'era pura sopravvivenza la vita
in patria, e infine tanta volontà di costruire nuova famiglia. Dovremmo
definirli, questi emigrati, adottando l'inammissibile invenzione idiomatica
attuale, 'economici'? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese
Bartolomeo Vanzetti, l'uno operaio l'altro pescivendolo, onesti 'economici'
anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica.
Oggi, invece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o
'economici' che siano, incontrano la morte in mare o nel carrello di un aereo o
nel cassone di un TIR. Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non
ragionare sulle loro cause? D'altra parte, come dimenticare che una nuova
popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a
contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit
demografico italiano?
Emigranti meridionali |
Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto
nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni
dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il “modo di abitare” senza
casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali…
Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di
concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che,
oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per
ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte
dell'opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi
comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per
seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.
Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma
di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento,
provenienza prevalente -a parte i vicinati regionali- dal meridione e, all'inizio,
anche dal Veneto, destinazione il triangolo industriale, certi comportamenti di
istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una
malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La
realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova
furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di
sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di
povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione.
A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al
1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme ad altri contesti nei primi
anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un'epoca che per
alcuni aspetti e per tutt'altre cause sembra riprodursi oggi in diverse aree
del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale. Torino
simbolo dal momento che ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come
nessun'altra per tanti connazionali, anche se non era l'azienda a dare lavoro a
tutti: 'l'importante era essere vicino al benessere, nella città delle
prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria' (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964).
Emigranti italiani |
Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o
nei cantieri edili o in una falsa 'cooperativa' di facchinaggio, oppure
attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero
piemontesi provenienti dalla campagne o dalle valli (aiutati dai parenti
torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del '39 avversa
all'urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva
possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro;
allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come 'soci' di quelle
pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione
teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. Oggi in Italia,
se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché
non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti,
neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza. Non
diversa era la condizione degli operai utilizzati all'interno degli
stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni a cui
il lavoratore “si affiliava”, dette “enti di offerta di lavoro”, ad appaltare
ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa,
aveva convenienza a non esercitare in proprio. L'azienda pagava all'ente per
ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati
per il dipendente regolare. Cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute
alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai
estranei all'azienda e ricadenti nel “lavoro somministrato”? Così la Fiat
mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un
altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente
discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al
padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli
iscritti ai loro elenchi di partecipanti in qualche modo alla vita della
parrocchia.
Emigranti meridionali |
Uno sguardo all'intera città all'inizio degli anni Sessanta
rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai
livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani,
pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di
esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni
più mortificanti e magari pericolose. Discriminati e sfruttati sul lavoro,
discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent'anni di cronache quotidiane
mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli
immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per
produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di
possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la
campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio
centro o nei trascurati quartieri operai, cosiddette “case alloggio” invece
sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione
secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville
da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni
del primo centenario dell'unità, per essere cacciate nelle cosiddette 'casermette'
prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell'alloggio decente e di un
salario sicuro l'affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall'impiego in
Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque subalterne alla
grande madre. L'aspirazione dell'immigrato di poter accedere a un alloggio
popolare pubblico fu delusa dalla scarsità delle iniziative.
Emigranti del Sud |
Per parte sua la
Fiat mancò colpevolmente al dovere di accompagnare con una coerente politica
della casa la scelta di forzare vantaggiosamente per sé l'immigrazione. La
necessità, oggi nel paese, di un'estesa attività di edilizia popolare rivolta
anche alla domanda dei 'nuovi' immigrati è ignorata dalle aziende che hanno
sostituito i vecchi istituti pubblici autonomi. In Lombardia, specialmente a
Milano, per gran parte del secolo scorso agiva il più qualificato Istituto
autonomo per le case popolari (Iacp) che realizzò quartieri spesso di notevole
qualità. Il cambio del nome da Iacp ad Aler (Azienda lombarda per l'edilizia
residenziale) avvenuto grazie al dominio politico nella Regione di Forza Italia
e della Lega mostra lo stravolgimento dei contenuti: non più istituto pubblico
ben identificabile ma azienda come altre, non più autonomia ma dipendenza dal
potere politico, non più case popolari e precisa destinazione sociale ma pura
edilizia residenziale generica dotata di sola identità economica. Torino nel
1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una
grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di
mezzo milione di persone, mentre l'esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento
epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille
difficoltà di accoglimento, di lavoro, di insediamento, insomma di vita urbana
lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli
immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una
città chiusa in sé stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia
borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch'esso reticente verso le
novità, si rifondò, evolvette - lentamente - verso l'accettazione dei compiti
che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato
il successo delle celebrazioni per il centenario dell'unità. Tuttavia la Fiat,
sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa,
della rappresentazione di Torino, che infatti tardò a superare il dannoso
statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale. Gli
operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei
rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori.
Emigranti italiani ad Ellis Island |
Quando nel 1969
il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse
condizioni di lavoro ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per
il diritto alla casa ('casa uguale a servizio sociale' lo slogan sbandierato),
imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città
italiane. Gli operai di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune
rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale
potevano vantare di averla preceduta con un'altra giornata di sciopero nella
loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato,
al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera
lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle
autorità per aver ottenuto un'occupazione, di attaccare duramente i cortei
operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai
quotidiani di allora, “la battaglia di corso Traiano a Torino”.