Potere Giurisdizionale e Potere Legislativo
E ovviamente Costituzione Italiana. Forse, a
pensarci un po’…
di Paolo Maria Di
Stefano
Io credo che nessuno possa negare che il conflitto
tra Politica e Magistratura sembri fare ormai parte del DNA degli italiani.
Certamente dei Politici e di chi della politica si occupa pur senza praticarla;
forse, anche dei Magistrati ai quali, chissà perché, da noi si contesta il
diritto di “fare Politica”: non tanto e non solo attraverso le sentenze, ma
anche praticando il diritto ad esprimersi quali cittadini. E in questi giorni
il conflitto appare ancora più acuto di quanto non lo sia stato in passato.
Qualcuno afferma a causa di quanto Pier Camillo Davigo, Presidente
dell’Associazione Nazionale Magistrati, pare abbia detto. Cito più o meno
testualmente: “I Politici continuano a rubare, ma non si vergognano più”.
Come se qualche volta i Politici si fossero vergognati!
La questione non è se i Politici siano o meno tutti
ladri. E’ indubitabile che non sia così: come esistono persone oneste e persone
disoneste, esistono politici onesti e politici disonesti. Quelli disonesti, non
si vergognano di ciò che fanno. E se qualcuno pensasse che un Politico
disonesto faccia quel mestiere proprio perché gli è più facile rubare, sbaglierebbe
poi di tanto? E se quel qualcuno pensasse anche che le mafie trovano nei
Politici una sponda quasi sicura, perché più di qualcuno è figlio o parente o
sodale di mafiosi, è certo sia in errore? E certamente è anche vero che tra i
Magistrati alcuni ce ne siano sulla cui onestà forse è bene non mettere la mano
sul fuoco. Ricordo che qualche anno fa qualcuno -il cui nome mi sfugge- faceva
notare che la mafia “fa studiare i figli da Magistrato”, ovviamente alla
ricerca di una infiltrazione dalla quale ci si aspetta un ritorno.
Per quanto riguarda questo aspetto, personalmente ritengo
che il fenomeno non possa che essere estremamente contenuto, sempre ammesso che
esista, anche perché l’ingresso in Magistratura è da noi ancora subordinato ad
un corso di laurea, ad un praticantato e ad un concorso. Che per quanto possano
essere svalutati, contribuiscono senza dubbio ad una formazione culturale
elevata, almeno rispetto al livello -drammaticamente basso e in continua
discesa- della cultura attuale.
Dal che potrei trarre due conclusioni.
La prima, la cultura del Magistrato è in sé limite
all’essere parte di un malaffare; la seconda, le mafie che mandano i figli “a
studiare da Magistrato” sanno di correre il rischio che il figlio Magistrato
tagli i ponti con la famiglia e con l’organizzazione, almeno nel senso che
queste ultime non possono contare su di lui per i loro traffici. E le mafie non
sono stupide.
Allora, una buona ragione – io credo – per pensare che è
sempre possibile che in Magistratura esistano ed operino alcuni disonesti, ma
per forza di cose in proporzione molto minore di quelli che infestano altre
istituzioni e organizzazioni e settori merceologici e culturali.
E questo farebbe della Magistratura la struttura meno
inaffidabile in uno Stato.
Ma l’aspetto forse più importante è questo: la
magistratura applica le leggi interpretandole.
E allora, occorre fare ottime leggi e quando la legge è
“prodotta bene”, il campo della interpretazione si restringe.
E le leggi le fa il “potere legislativo”, vulgo, “la
Politica” per antonomasia.
Due ottimi stimoli per un approfondimento, ai quali si
aggiungono quelli relativi all’effetto che i conflitti di cui mi sto occupando
provocano: sono certamente cosa tutt’altro che positiva e senza dubbio dannosa
anche per aspetti almeno in teoria distanti: la educazione dei giovani, per
esempio; la cultura dei cittadini; i rapporti tra cittadini e Stato…
La cosa più grave è a mio parere costituita dal fatto che
questi conflitti in particolare toccano il cuore della Storia nella sua natura
di prodotto della cultura di un popolo, di una nazione, di uno Stato, in certo
senso distorcendo l’uso e i risultati dei prodotti strumentali che fanno la
storia e indirettamente la sua interpretazione, attraverso la produzione di una
cronaca a sua volta distorta e distorcente.
Cercherò di spiegarmi in sintesi estrema.
Intanto una questione puramente semantica: il potere
legislativo non è sinonimo e neppure esaurisce il significato di “Politica”.
Cosa che vale naturalmente anche per gli altri poteri dello Stato.
Immediata conseguenza di questa affermazione è che se
conflitto c’è, esso non è tra “Politica” e Magistratura, bensì tra Potere
Legislativo e Potere Giudiziario.
E questo anche perché se per Politica si intende
correttamente “la gestione della cosa pubblica al fine di soddisfare bisogni
pubblici”, non v’è dubbio che tutto quanto uno Stato in quanto entità
collettiva organizza per raggiungere questo scopo è una unità alla quale non
solo è indispensabile la presenza dei poteri e degli organi che li esercitano,
ma anche e forse soprattutto un rapporto tra di questi corretto sia per il
bilanciamento e la complementarità delle competenze che per le gerarchie. E
dunque con conseguente riduzione delle possibilità di conflitti di competenza.
Con un corollario importante: la Politica dai conflitti
tra i poteri dello Stato non ha che da perdere sia in credibilità che in
efficienza e in efficacia. Tanto per cercare di non creare equivoci: un potere
“malato” ammala la Politica tutta e con essa lo Stato; qualsiasi conflitto tra
poteri è causa e sintomo di malattia, che significa impossibilità della
Politica di essere valido strumento affinché lo Stato possa gestire gli scambi
di cui è parte e che comprendono l’identificazione degli obbiettivi -di competenza
specifica della Politica- e la pianificazione della produzione, della
comunicazione e della apprensione da parte dei cittadini – che è compito
dell’intera organizzazione dello Stato-
di tutto ciò che è frutto dell’ attività dello Stato stesso e che concreta
la ragione della sua esistenza.
Una prima conclusione potrebbe suonare così: la Funzione
Giurisdizionale concreta la Politica, esattamente come accade per gli altri
poteri dello stato; la Politica è l’insieme della funzione legislativa, della
funzione giurisdizionale e della funzione amministrativa, e agli obbiettivi
della “Politica” -della gestione della cosa pubblica per soddisfare bisogni
pubblici- deve essere e non può non esserlo orientata la loro azione. Ad esse
si aggiunge una funzione di cui nessuno parla mai, almeno non in questo senso,
che si concreta nella “identificazione degli obbiettivi dello Stato. Funzione
almeno per ora in qualche modo “astratta” perché diffusa in tutto il “corpo”
della nazione e dello Stato stesso. Una seconda potrebbe essere quest’altra: a
maggior garanzia della indipendenza della Magistratura, si potrebbe prevedere
che il candidarsi di un Magistrato al passaggio al potere legislativo comporti
in automatico l’incompatibilità del Magistrato stesso con l’esercizio della
giurisdizione e dunque anche l’impossibilità di rientrare nella Magistratura
per il solo essersi candidato, indipendentemente dal risultato. O anche,
potrebbe essere prevista una sorta di capitis deminutio: al Magistrato la legge
nega la capacità giuridica di candidarsi, salvo dimissioni dalla Magistratura
almeno sei mesi prima dalle consultazioni elettorali d’interesse.
Come accade per qualsiasi prodotto, il “tempo dello
scambio” -e dunque il tempo della produzione, della comunicazione e dell’apprensione
del prodotto “giustizia”- è di rilevanza assoluta, essenziale alla esistenza
stessa del prodotto. La lentezza della giustizia italiana, fatto indiscutibile
lamentato da tutti (tranne, naturalmente, da chi se ne giova) e il suo
“quasi-sinonimo” lunghezza dei processi certamente rendono in qualche modo
“invalido” quando non addirittura inutile il “prodotto sentenza”, ed io sono
convinto che essa dipenda principalmente dalle procedure.
E quindi dalle leggi che regolano la massima parte
dell’attività della Magistratura.
Ero studente, quando entrai in un conflitto insanabile
con il docente di Procedura Civile, uno dei massimi luminari della materia,
avendo io avuto l’ardire di sostenere che il codice di procedura civile, più
ancora di quello di procedura penale, era costituito da una congerie di leggi
(e annessi e connessi) all’interno della quale era scritto tutto e il contrario
di tutto e che di conseguenza consentiva tra l’altro di allungare a dismisura i
tempi del giudizio. Attività, questa dell’allungamento dei tempi, assai
apprezzata ed utilizzata dagli avvocati, non importa di quale parte. Non me lo
perdonò, il luminare, e in procedura civile io fui gratificato del voto più
basso tra quelli del mio libretto. Avevo ragione allora e credo fermamente di aver
ragione ancora oggi.
I processi “possono” durare anni perché questo è previsto
dai codici di procedura, ed una qualsiasi legge che imponga una durata massima
al processo non serve ad altro se non ad aggiungere una norma ulteriore alle
migliaia esistenti ed un motivo ulteriore di confusione e di incertezza.
E’ a mio avviso più che certo che se non si mette mano
con decisione e professionalità ai codici di procedura, nessuno mai riuscirà a
portare a tempi ragionevoli la durata del processo.
Anche perché nella patria del diritto le questioni di
lana caprina ed i distinguo sono materia di grandissima suggestione, alla quale
tutti noi indulgiamo per il piacere di discutere e di sentirci più intelligenti
dell’interlocutore di turno.
Che è quanto sembra accadere in questi giorni, pieni di
persone geniali che discutono di prescrizione, che è in sé un istituto ispirato
a principi giusti, quale quello che non si può vivere in perenne attesa di una
soluzione a qualsiasi controversia. Se questa non arriva in tempo, e dunque
prima che il periodo della prescrizione si compia, tutto finisce lì. Ecco,
allora, il tentativo da parte di chi abbia interesse a far passare il tempo
fino a quel momento. Ma ecco anche le menti dei legislatori mettersi a girare
tra proposte le più varie anche improbabili, dimenticando, oppure ignorando
forse, che fanno parte della teoria e pratica della prescrizione anche
l’istituto della sospensione e quello della interruzione, in forza dei quali il
decorso del tempo viene sospeso al verificarsi di alcune circostanze.
Allora: cosa si oppone a che alla data dell’inizio del
procedimento (civile o penale che sia) il decorso del tempo della prescrizione
venga sospeso o interrotto? Per farlo, dovrebbe bastare una leggina di un paio
di righe. Con una annotazione, tra le tante possibili: leggina di un paio di
righe, oppure, secondo il costume dei nostri legislatori, un’intera raccolta di
leggi che si occupino, in genere in modo abborracciato e utilizzando il più
oscuro dei linguaggi possibili, e quindi male, di ogni pelo di quella lana
caprina che è nel loro DNA, sono inutili se non si interviene sulle procedure.
Che null’altro sono se non il “mansionario operativo” dei
Magistrati.
Che è, poi, quanto stabilito dall’articolo 111 della
Costituzione quando recita, a proposito del processo, che “La legge ne assicura
la ragionevole durata”. Dimostrato che la ragionevole durata non è assicurata
dai termini della prescrizione, dal momento che questi assicurano solo
l’impossibilità di giungere a sentenza, “la legge” deve trovare il modo di
intervenire diversamente, in modo più efficace ai fini della “produzione” della
sentenza. E dunque, (ancora una volta) alla legge non resta che intervenire
sulle procedure, o almeno “anche e soprattutto” sulle procedure.
Ed ecco che si ripropone il problema del rapporto tra
Potere Legislativo e Potere Giurisdizionale, che è anche la questione delle
gerarchie tra Poteri dello Stato.
Anche in questo caso, dal momento che le leggi sono
“prodotte” dalla funzione legislativa mentre alla funzione Giurisdizionale non
resta che applicarle, a mio parere nulla quaestio: il legislatore ha un ruolo
di primaria importanza, del resto sancito dalla Costituzione quando afferma
all’articolo 101 che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e
riaffermato dal contenuto di tutto il titolo quarto. L’essere “la magistratura
un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (Costituzione, art. 104
alinea) vuol dire soltanto che nella attività di “produzione” delle sentenze e
quindi di interpretazione e applicazione delle leggi i giudici non sono
condizionati da niente e nessuno che non sia “la legge”. Persino il Presidente
della Repubblica, che pure è Presidente del Consiglio Superiore della
Magistratura- che a sua volta ha i poteri della organizzazione, della gestione
del personale, e della “disciplina” nei confronti dei magistrati- non ha poteri
di condizionamento dell’attività dei giudici.
Ma una riflessione -tra le tante possibili- credo debba
essere fatta: se le leggi, se ogni singola norma fosse prodotta “bene” dal
legislatore, gran parte dei problemi che nascono dalla interpretazione
sarebbero superati. Tra questi, molti dei conflitti con il potere legislativo e
l’eccessiva durata dei processi. Basterebbe “far bene” la norma e corredarla di
una interpretazione autentica che ne faccia parte integrante. Ma per questo
occorre, appunto, che il legislatore sia professionalmente eccellente. Cosa che
al momento sembra non sia e che neppure fosse al momento della elaborazione
della prima Costituzione italiana, settanta anni fa, mi pare. Tanto che i suoi
estensori pensarono bene di prevedere quella “doppia lettura” delle leggi
scritta nella Costituzione vigente -ancora per poco, pare -proprio perché gli
errori possibili fossero ridotti al minimo fisiologico.
E che anche mi spinge a ricordare la mia proposta,
esposta da tempo in queste pagine, di trasformare il Senato in una “Camera dei
Giuristi” a supporto della Camera dei Deputati -che è il gestore dello scambio
avente per oggetto la legge- con il compito di essere “nella fabbrica” delle
norme il settore “Controllo della qualità” e “Consulenza tecnica”.
Di una cosa sono sicuro: cambiare la nostra Costituzione
è un azzardo, e quanto visto fin qui non mi pare incoraggiante più che tanto.
Infine: attualmente la Magistratura sembra essere l’unica
istituzione in grado in qualche modo di arginare le mafie e la corruzione.
Almeno perché per diventare magistrato occorre un tipo di formazione che non
esiste per far il politico.
E la formazione è tutto, meno che uno slogan, come pare
sia per molti dei politici attuali. La formazione è servizio strumentale per la
cultura tutta, nel senso che “produce”, “fabbrica la cultura”, in concorso con
altri servizi strumentali. Dunque, essa è condizionante così della struttura
dei bisogni come della scala in cui si dispongono dentro ciascuno di noi; così
nella decisione di scegliere quali di essi soddisfare e in che misura, come del
modo con il quale farlo.