di
Gabriele Scaramuzza
L'Arco della pace |
La
mia Milano è innanzitutto la zona Sempione: via Losanna, è lì che
abitavo quando sono nato (mia madre andò però a partorire a Porta
Vittoria, alla Regina Elena). Ci siamo allontanati dal ‘42 al ’45
per i bombardamenti. I primi ricordi del luogo risalgono ai primi
anni di guerra, al primo grande bombardamento dell’ottobre del ’42,
che ci costrinse a sfollare. Al nostro ritorno, nell’autunno del
’45, case diroccate, i trenini che trasportavano le macerie verso
quella che sarò poi la Montagnetta, larghi spiazzi con residui
bellici, carburo, lucertole bruciate vive da bambini crudeli.
L’isolato era ancora circondato da siepi di sambuco e orti, i
marciapiedi avevano riquadri erbosi; qui si poteva giocare,
raccontare, ridere. Scarse le auto, pochi i furgoni nelle vie; ci si
poteva schettinare allora.
Vicini
erano la stazione delle Nord della Bullona, i mercati di via Fauché
e di via Poliziano; non lontano quello rionale, coperto, di piazza
Gramsci. In piazza Diocleziano si prendeva il 12 verso il centro; ma
passava anche il 14 diretto a Musocco. A pochi passi, in fondo a via
San Bernardo, c’era (e c’è) la Simonetta, rasente la ferrovia,
con la sua nobiltà sfatta, l’eco; ma ancora oggi, restaurata,
musicalmente attiva. Infine, facilmente raggiungibile, si trovava il
Monumentale, esso pure meta di camminate. Camminare è sempre stato
il mio unico sport, si fa per dire: a piedi in centro attraversando
il Parco, una volta persino l’intero giro della circonvallazione,
quella dei bastioni; e passeggiate verso la periferia: la Bovisa,
Villapizzone, San Siro (e qui non so perché il motivo ritornante
Salomè, una rondine non fa primavera)…, attraversando zone
ancora verdi.
La
parrocchia per noi era Santa Maria di Lourdes (più vicina, ma non
ancora parrocchia, era San Giuseppe in via Piero della Francesca);
qui le messe, le confessioni, le comunioni - e la cresima: isolato
sull’altare (per postumi della contagiosa varicella), officiante il
Cardinale Schuster. Annesso v’era l’oratorio da me frequentato le
domeniche, con perplessa partecipazione; davanti la piazza con la
grotta, le processioni a maggio intorno ad essa.
Veduta dell'Autodromo Vigorelli |
Il
freddo appena tornati dallo sfollamento: solo una stufetta a legna,
fumo; solo più tardi ripresero vita i caloriferi. Ricordo la neve
alta del ’47, le chiave perse da mia madre, poi ritrovate; il gelo
fino a -12°C il giorno in cui mi fecero partecipare al funerale di
un segretario (se ben ricordo) della scuola. I ritorni di mio padre
dal lavoro, di mia madre dalle spese, di mia sorella da scuola - la
mia famiglia ora scomparsa. Coessenziale al panorama era
l’Ospedaletto (ingrandito c’è tuttora), i custodi, dalla cui
figlia, laureata alla Cattolica, prendevo lezioni di latino. Vicino
la stazione di Polizia di via Castelvetro, le motociclette che ne
uscivano rumorose. Ma tra i più significativi centri di attrazione
vi era, e vi è, il Vigorelli innanzitutto, con le gare di velocità
(Maspes è il nome famoso che è rimasto a me, come a tutti),
l’arrivo del Giro d’Italia, le strade attorno dove si svolgevano
gare automobilistiche; e come dimenticare il concerto dei Beatles che
vi si svolse nel maggio del 1965. Vicinissima era la Fiera: ogni anno
avevamo biglietti gratuiti per andarci; facevo man bassa di dépliant
relativi delle cose più strane, le più lontane dai miei interessi,
che tuttavia conservavano per me una sorta di insospettabile alone
magico. Poco più lontana l’Alfa Romeo, densa per me di risonanze
vissute: il mondo operaio, la struttura piramidale
dell’organizzazione del lavoro, gli scioperi, l’irrequietudine di
chi ci lavorava; non ultima la rinomanza delle automobili, l’orgoglio
dell’appartenenza di chi contribuiva a costruirle. In tutto questo
le sirene delle fabbriche, che segnavano i risvegli e l’inizio
della giornata; e tornavano verso le 17 a ritmare i pomeriggi.
La Certosa di Garegnano |
Un
po’ più fuori la Certosa di Garegnano, la meraviglia per me del
ponte della Ghisolfa, sui cui pendii si poteva giocare: luoghi di
Testori, ma vi ricorrevano anche echi di Il Posto di Ermanno
Olmi; e soprattutto del Visconti di Rocco e i suoi fratelli,
con le scene in via General Govone verso la Ghisolfa, e quel finale
all’ingresso dell’Alfa Romeo di via Gattamelata che tuttora mi
prende alla gola. Soprattutto a portata di mano era il Parco, il
laghetto e il ponte delle Sirenette (un tempo ponte sulla cerchia dei
navigli), la Torre: luoghi tante volte percorsi per raggiungere il
Castello Sforzesco e il Duomo, in seguito persino la Scala, quando si
tornava tardi e non c’erano più mezzi pubblici.
Ma la zona è stata anche
quella delle prime amicizie, delle prime passeggiate solitarie, a
volte fino alla Carlo Erba dopo piazzale Maciachini, dove andavo a
prendere le figurine Liebig. Soprattutto, vicina era piazza
Gerusalemme con la mensa maleodorante, i cantastorie - piazza tante
volte percorsa per recarmi a scuola. Poco oltre era la scuola
elementare di via Monviso, sede poi anche dei primi quattro anni di
liceo: le compagne e i compagni amati, taluni ormai scomparsi. Sullo
sfondo, a dar risalto a tutto, i tragitti per assistere alle
rappresentazioni alla Scala, da sempre sospirate: le lunghe file per
ottenere un posto in piedi, la corsa sulle scale, gli accorgimenti
per vedere, le prime conoscenze tra loggionisti, i grandi amori per
interpreti ed esecutori… Un miraggio nei tempi in cui da Milano ero
lontano, a Pavia, a Padova. La prima volta sospirata nel febbraio del
’56, con La Traviata con Maria Callas ineguagliabile
protagonista e con la regia di Visconti. Il miraggio della Scala:
ancora oggi frequentata con passione.