di Claudio Zanini
Phlebas I
Dissimulano
oscuri flutti e ampie maree,
disperse
le membra di Phlebas* il fenicio,
capostipite
dei morti d’acqua innumerevoli
negli
equorei cimiteri del Mediterraneo.
Oh,
marinaio avvolto nel torpore profondo
di
bruna pelle d’annegato, levigata appena
dal
limo abissale, dalla carezza sinuosa
di
nere alghe in capigliature fluttuanti,
t’affacciasti
all’imbocco dei porti serrati,
respinto
esule, sul ciglio di sponde sicure.
Noi,
sulla riva d’approdi inespugnabili
volgemmo
ostili al tuo sguardo esausto
muto
diniego, ti respingemmo lontano
fino
a che l’onda nera sommerse le membra
e
si chiuse, cupo sepolcro verde del mare,
sulle
tue diafane ossa sbiancate, Phlebas,
il
fenicio, macchia nell’incerta nostra memoria.
[*Phlebas,
il capostipite dei morti annegati, in
La terra desolata, di T.S. Eliot]
Bach nel metrò
Vibra
l’aria sulla quarta corda e
sopravanza
il rombo nero dei convogli
quando
smuore a folate intermittenti
nei
fumidi budelli del metrò.
È
un giovane cantore clandestino
che
nell‘androne sotterraneo,
piega
triste al canto il suo violino.
Precario
Orfeo, cui ignoto è
l‘incanto
degli ellenici giardini,
volgi
lo sguardo arso e vuoto
dalla
mediterranea ecatombe.
Sei
lo straniero a tutti ignoto
privo
di salvacondotto alcuno
ma
il tuo canto stringe il cuore
dell’Europa
sorda e indaffarata.
Vanno
e vengono, donne altere
maschi
attillati di grisaglia in voga
nei
diuturni ambulacri metropolitani
assorti
in nomenclature incerte
d’irrisori
rovelli fastidiosi.
S‘affrettano
con falcate ampie,
nella
dispersa fiumana dei passanti
mentre
il canto obliato s’assottiglia
nel pensiero lentamente smuore.
Il violinista
esule
Voi
che nei convogli, suonate Brahms
sulle
corde elettriche d‘acidi violini
sfidando
ronde e pubblici ufficiali
in
cambio di consunti decimali, scossi
dall‘abbrivio
della frenata improrogabile
dallo
scarto brusco dell‘accelerazione.
Voi,
ignoti esuli, siete un rovello,
fosca
macchia nella coscienza
mentre
noi neppure vi vediamo,
tirando
dritto, indaffarati e ostili.
È
flebile quel Mozart che ci turba
con
l‘arabesco turco della marcia
che
s’insinua tra frettolosi viaggiatori
a
ondate fitte vomitati dai convogli.
Di
noi si burla, il violinista esule,
di
noi che traghettiamo a frotte
da
un Acheronte all‘altro quotidiano
fingendoci
assidui naufraghi
di
vacue crociere prestigiose
mentre
non siamo che sonnambuli
invischiati
entro irrisorie gore.
È
lui, che dovrebbe assai dolersi
verso
il soffitto nero degli androni
straniero
vomitato alla deriva
da
un Mediterraneo ostile, invece
irride
la nostra vile indifferenza
con
un canto ironico e stonato.
Lui
ci vede, ma noi lo ignoriamo
sebbene
ci si annidi nel pensiero
in
dolente forma d‘incubo costante.