DIO RIDE. NISH
KOSHE
di Angelo Gaccione
Moni Ovadia |
Da qualche anno è stato dedicato a Paolo Grassi
che lo aveva fondato nel maggio del 1947 assieme a Giorgio Strehler e a Nina
Vinchi, che di Grassi diventerà moglie. Per me continua ad essere questo di via
Rovello, il vero Piccolo Teatro di
Milano, quello storico. Il “nuovo” Piccolo, realizzato dall’architetto Marco
Zanuso in Largo Greppi, ai miei occhi resta una struttura orrenda con cui non
sono mai riuscito a riconciliarmi. Preferisco di gran lunga il bel palazzo
Carmagnola (una targa lo ricorda ancora) che al condottiero immortalato da
Manzoni nella sua prima tragedia, aveva fatto dono Filippo Maria Visconti nel
1415 per i suoi “buon servigi” militari. Avere voluto far nascere in questi
ambienti, un teatro come il Piccolo, nel dopoguerra, è stata una risposta
democratica al braccio criminale della “Ettore Muti” che durante l’occupazione
nazifascista e la Repubblica Sociale Italiana, ne aveva fatto il suo covo. Una
lapide dell’ANPI sul frontale lo ricorda come luogo di tortura e di morte per
centinaia di antifascisti. La funzione culturale, civile ed artistica che il
teatro ha avuto dalle sue origini fino alla morte di Strehler, è ormai parte
integrante della storia di Milano, e non solo. Su molte coscienze della mia
generazione, ha influito in modo determinante, forse per questo lo sento così
visceralmente mio.
Moni Ovadia vi ritorna ad ogni suo nuovo allestimento. Pur
avendo debuttato al Pier Lombardo di Franco Parenti, il Piccolo è stata “la sua
casa”, come ha ricordato a fine spettacolo martedì scorso. “Vieni qui”, gli aveva
detto Strehler, “dove vuoi andare, questa è casa tua”, e lui vi si è trovato
subito bene. Dal 2 al 14 ottobre vi resterà con Dio ride. Nish Koshe, uno spettacolo che come da tempo ci ha oramai
abituati, fonde magnificamente dati dell’attualità più drammatica e dolorosa
(immigrazione, muri, guerre, odi, separazioni), a scorribande erudite e colte,
all’interno di quella miniera di sapienza, saggezza, esaltata e mistica visionarietà,
poesia, incanto, favola, insegnamento, ferocia, fanatismo e quant’altro volete,
che sono i Libri della tradizione ebraica (dal Talmud alla Torah).
Moni con la sua “Moni Ovadia Stage Orchestra” che lo supporta
magnificamente dal vivo, armata di violino (Maurizio Dehò), contrabbasso (Luca
Garlaschelli), fisarmonica (Albert Florian Mihai), clarinetto (Paolo Rocca),
cimbalom (Marian Serban), compie il suo viaggio carico di quella tradizione e
impastato di quella cultura così vitale e così fascinosamente ironica,
mostrandoci cosa è stata in grado di fare, pur con tutte le sue diaspore, i
suoi continui esilî, le sue persecuzioni, questa comunità minoritaria mobile, e quale patrimonio straordinario
abbia consegnato all’umanità.
Da buon ateo (“Grazie
a Dio sono sempre ateo”, amava dire di sé Buñuel), immerso nella tradizione
yiddish e contaminato dal suo spirito witz, anarchico e irriverente, Ovadia si
muove dentro quella materia con intelligenza e levità e ce la fa gustare; ci fa
amare personaggi, eventi, canti, aneddoti e battute di spirito senza mai
scadere in una desacralizzazione superficiale o gratuita. Persino quel
complesso groviglio di concetti religiosi apparentemente incoerenti, assurdi,
abnormi, su cui gli esegeti dei Libri sacri si accapigliano e l’ermeneutica ha
chiamato in campo la raffinatezza logica - e teologica - dei rabbini più colti
e preparati, è maneggiato da Ovadia con disinvolta e scanzonata allegria. Lui
dipana quel groviglio con acutezza di analisi e fantasiosa inventiva, traendone
significati più contemporanei, più terreni, più umani, più nostri. Ne disvela,
laicamente, (materialisticamente?) quanto dentro quei libri gli uomini hanno
nascosto di più profondo, e che può ancora riguardarci. Ovadia quei miti e quei
versetti li reinterpreta da un’altra angolazione ed essi finiscono per
diventare molto più nostri di quanto avremmo pensato.
La musica klezmer della sua orchestra, a volte dolente, più
spesso allegra, coinvolgente, festosa, serve a sostenere il canto che una voce
arrochita e un raffreddore molesto non sono riusciti a piegare. È bella questa
musica, come è bella questa lingua “franca”, “anarchica”, “meticcia”,
“contaminata”, perché nata nelle strade, tra il popolo, e sa di antico, di
arcaico, di pericolo di estinzione. Il merito di questo “racconta storie”, di
“contastorie” è di tenerla viva questa
lingua, di tenerla viva questa musica, e farle insieme risuonare sul
palcoscenico di un teatro e nelle nostre anime. È un merito straordinario e
Milano dovrebbe andare fiera di avere un artista di tale qualità. L’altra sera
le quasi due ore di spettacolo sono scivolate senza intervallo dentro lo spazio
raccolto del Piccolo Teatro, ed abbiamo potuto sorridere ed imparare insieme. È
questo che dovrebbe fare il buon teatro.
Abbiamo ascoltato versi di poeti e parole di scrittori;
pensieri necessari di menti libere e non conformiste; storie che riguardano i
nostri sentimenti umani, alternati a racconti divertenti sul divino, e ne
abbiamo riso. Ne abbiamo riso assieme a quel Dio che si diverte, godendoci le
belle melodie e le ballate della “Stage Orchestra”. E allora speriamo che la
benevolenza del Santo Benedetto (così lo chiama Moni Ovadia nello
spettacolo) sul quale quasi tutto è costruito, preservi a lungo questo ateo girovago.
Lo preservi a lungo per il teatro, e soprattutto per noi, atei come lui, impastati
di sacralità.