di
Gabriele Scaramuzza
Giancarlo Movia |
Per
Giancarlo e Maria Teresa Garau Movia
Ho ripreso in questi ultimi anni, con soddisfazione, contatti con l’ambiente
padovano, che sembravo aver rimosso i primi anni dal mio distacco da Padova. A
Padova ho vissuto venticinque anni (dal 1966 al 1991), sia pur insegnando in
Facoltà (a Padova Magistero dapprima, Lettere dal 1976 al 1986) e in città
diverse: a Verona (dal 1971 al 1976), a Sassari (dal 1986 al 1889), infine a
Milano. Ed è impensabile che quest’epoca (nella mia vita si tratta di un’intera
epoca) non abbia lasciato consistenti tracce in me. Per i non pochi incontri,
per la vita della città e dei dintorni, per la bellezza del Veneto (da Venezia
a Vicenza ad Asiago a Este fino a Verona…). Ma anche perché Padova è purtroppo
stata uno, e forse il peggiore, dei centri della “contestazione”, di una
violenza diffusa che mi ha profondamente segnato. Credo sia stato proprio a
partire da quando ho scritto (e fatto avere ad alcuni colleghi) sui miei anni padovani,
che i miei rapporti con quell’ambiente sono tornati a vivere (rinvio “Un’altra
città”, nel mio Un’insostenibile voglia di vivere. Frammenti di memorie e
riflessioni, Milano-Udine, Mimesis, 2017). Tanto più che questo mio
“ritorno a Padova” si è mostrato non meno fertile - sul piano della
riflessione, ma anche su quello affettivo - di altri incontri milanesi, pavesi,
e persino sassaresi. È lusinghiero per me che della mia lunga vita padovana
qualche traccia sia rimasta. E questa
ripresa di contatti è avvenuta in un primo tempo proprio con Giancarlo Movia;
ma poi anche con Enrico Berti, Franco Chiereghin, Luciano Malusa, Gregorio Piaia…;
a parte i rapporti con Giorgio Tinazzi e con Giangiorgio Pasqualotto, che
per motivi diversi non si sono interrotti; e a parte un reincontro, inaspettato
ma emotivamente denso, a Milano, con Renzo Piovesan.
Gorizia |
È passato più di mezzo secolo da quando - a Padova,
nell’autunno del 1966 appunto - ho conosciuto Giancarlo Movia; non molti anni
dopo, quando è divenuta sua moglie, ho conosciuto Maria Teresa Garau - musicista,
dotata di una bella voce: in tempi recenti mi cantava - e benissimo! - al
telefono arie liriche amate. Né lui né io siamo originari di Padova, e i nostri
percorsi formativi sono stati per certi versi opposti: Giancarlo proviene da
Gorizia, dove il padre venne arrestato, e fatto sparire con tutta probabilità
in una foiba - cosa che lo segnò per tutta la vita. La sua formazione
filosofica è avvenuta a Padova, non poco ha contato per lui il mondo dei
Gesuiti (suo fratello era gesuita, e gesuita era Padre Giacon, con cui si è
laureato). Questo confermò la sua già profonda religiosità, rimasta poi autentica
sempre - e di cui mi ha offerto testimonianza viva: resta tra le cose di cui
più gli sono grato.
Gorizia. Il Castello |
Quanto a me, le mie origini sono milanesi, a Milano ho frequentato le scuole elementari, le medie e il liceo; ho però trascorso gli anni dell’Università a Pavia, ospite di un collegio. Radicalmente diversi sono gli ambienti in cui abbiamo studiato: per lui il mondo che orientativamente collocherei tra le scuole di Carlo Giacon e di Marino Gentile; qui ha scelto lo studio della filosofia greco-classica, segnatamente di Aristotele (ha tradotto e commentato il De anima) e di Platone (ha commentato il Sofista), poi di Alessandro di Afrodisia, a sua volta commentatore della Metafisica di Aristotele (poi tradotta e studiata da Enrico Berti); nelle sue ricerche non ha però ignorato la logica hegeliana (cui l’ha indirizzato, immagino, Franco Chiereghin, specialista di Hegel). Il mondo della mia formazione è invece stato quello di Banfi e dei suoi allievi (con le loro diramazioni esistenziali e fenomenologiche); mondo che ho incontrato fin dal liceo a Milano, e poi a Pavia, che non ho dimenticato a Padova e ho infine ritrovato a Milano.
Ma non è degli studi filosofici di Movia che posso parlare:
non ho competenza alcuna in merito. Dirò solo quanto di lui più è restato
impresso nella mia memoria; tanti ricordi si mescolano, ne scelgo solo alcuni. Le
prime impressioni: biondo, snello, con gli occhi azzurri, aperto, socievole; affidabile
nel comportamento non meno che nel lavoro, di orientamenti allora “socialisti”
(più tardi, credo, mutati). Insieme partecipavamo, attivamente, ai seminari di
Padre Giacon il venerdì pomeriggio; in essi ricordo Mario Mignucci, Andrea M.
Moschetti, Francesca Modenato, Valdino Tombolato, Luciano Malusa, Attilio
Zadro, Renzo Piovesan, Antonio Pavan, più tardi anche Lorenzo Accame….
Gli anni successivi - lui a Lecce e a Cagliari, io a Sassari e
a Milano - non ci siamo persi di vista: siamo rimasti in contatto per via
telefonica, ma soprattutto epistolare (via e-mail); intensificati in questi
ultimi anni; solo negli ultimi mesi si sono fatti per forza di cose rari, e poi
interrotti. Da ultimo tuttavia sono ripresi in occasione dell’omaggio, che mi
ha fatto pervenire (tramite Rita Salis) dell’Epistolario. I temi delle
nostre conversazioni erano di vario tono, i più assai impegnativi e fertili per
me: da universitari a personali, da filosofici a religiosi, da paesaggistici a teologici
persino. Vertevano anche sui costumi, sugli eventi e le traversie del vivere, sull’attualità
politica - sempre con grande reciproca libertà, pur non trovandoci sempre
d’accordo. Ci siamo scambiati le nostre pubblicazioni, sempre accompagnate da
puntuali commenti (soprattutto suoi) - con grande giovamento e lusinghiero interesse
da parte mia. I lavori di cui ci siamo fatti omaggio soprattutto autobiografici,
che sono tuttavia un altro modo di proseguire le nostre ricerche (assai
divaricate) e le nostre conversazioni. In tutti gli ambiti, da filosofico a
letterario, con cui si è misurato, Giancarlo ha fatto valere un’identica
acribia e scrupolosità; la franchezza delle sue pagine autobiografiche e dei
nostri incontri resta per me rara, ed encomiabile.
Giancarlo mi ha presto fatto avere i suoi due “romanzi”
(le virgolette sono sue) autobiografici, dal titolo accattivante: Il
flauto sul tetto (Edizioni AV, Cagliari 2012 - stranamente sembra
contaminare Il violinista sul tetto di Marc Chagall, ripreso poi
in uno spettacolo di Moni Ovadia, e - absit iniuria verbis - Il
flauto delle vertebre di Vladimir Majakovskij), e L’altra
riva (2015, disponibile on-line - ripreso dal Vangelo
di Giovanni). Entrambi recano in copertina immagini scelte
con gusto: rispettivamente Appunti di un viaggio (acquaforte di Gianni Atzeni) e Marina di Gianni Garau. Ed entrambi sono firmati, come l’Epistolario, da Giancarlo Movia e Maria Teresa Garau - cosa che segnala
la salda comunità di intenti che anima la loro vita. So che stanno, o stavano, scrivendo
a un terzo “romanzo” autobiografico (in una lettera è scritto che ha un titolo,
più scontato: La terza età, che sia mutuato da Simone
de Beauvoir?); a quanto ne so non lo hanno ancora concluso, e tanto meno
pubblicato. Nella mia ottica l’Epistolario (Cagliari 2020) lo supplisce in certo senso.
L’epistolario reca nell’immagine di copertina una vecchia
casella postale, rossa; con sopra una colomba che porta ad essa delle lettere;
in una sorta di campanello a sinistra, sovrastato da una tegola con sopra un’altra
colomba, compaiono le parole “tadde chelo”, per me del tutto incomprensibili. A destra un ramo che si presume autunnale con foglie non
più verdi.
Cagliari. Università |
Scorrendo l’ampia raccolta, segnalo solo i punti che più mi hanno interessato; non mi è ovviamente possibile render appieno conto della ricchezza dei contenuti del testo. Per lo più trovo lettere firmate insieme da Giancarlo e Maria Teresa; e qui colpisce il numero e la diversità dei destinatari e dei temi, che vanno dal pratico quotidiano allo storico-politico (il tema delle foibe ha naturalmente il suo giusto rilievo) al religioso. Tra di essi nella mia ottica spiccano quelli che rivelano sensibilità estetica e generalmente umana. Alcuni nomi (pochi) mi sono noti; cito solo quelli che suscitano curiosità inevase: tra i più ricorrenti Antonio, quale Antonio? Chi è Renato? Napolitano mi suscita qualche lontano ricordo, ma vago. Molte sono indirizzate a Rita Salis; sono lusingato che talune lo siano a me: rileggo con grande interesse il dotto chiarimento circa “mandi”, le critiche al mio “Quel che resta di Dio”; la benevola attenzione al mio “In fondo al giardino”, sempre esemplificando. Ma non poche sono le citazioni brevi a parte (e qui spiccano quella da Gianfranco Ravasi); vi sono però riportati brani ampi quali la “Lettera di Giovanni Paolo II agli anziani”; e non manca il nome del Cardinal Martini, da me seguito e assai apprezzato.
L’Epistolario è l’ultimo dono (per ora: so che altri ne
verranno) di Giancarlo e Maria Teresa: per me significa il continuarsi e
allargarsi per altra via dell’itinerario (grandemente fruttuoso, anche oltre
quanto Giancarlo possa immaginarsi) intrapreso di scambi di condivisioni,
diverse opinioni, notizie, esortazioni da tempo in atto tra noi. Ho sempre
considerato anche gli scritti autobiografici (e l’epistolario rientra dopo
tutto tra questi) non come qualcosa di staccato, ma come un complemento,
illuminante, di quanto abbiamo scritto e letto su altri piani, a torto considerandoli
come scissi dal resto della nostra vita. In questa prospettiva considero La
vita dei filosofi (edito di recente) il più affascinante dei libri di Calo
Sini; proprio perché prospetta un legame troppe volte taciuto tra filosofia e
vita (o aspetti della vita di volta in volta emergenti).
I coniugi Movia |
E voglio concludere con una nota personale, sempre relativa
alla cosa più preziosa (almeno per me) che abbiamo in comune: l’inclinazione
autobiografica. Non a torto Duccio Demetrio (direttore della Libera Università
dell’Autobiografia di Anghiari, e per lunghi anni docente di Filosofia
dell’Educazione a Milano) ha parlato di “autobiografia come cura di sé” - il
che è poi la base del prendersi cura degli altri. Giancarlo Movia è venuto a
sapere di me cose che a Padova non erano state dette tra noi, tanto meno
scritte; e a mia volta ho conosciuto nella sua personalità risvolti prima
ignoti, con partecipazione e gratitudine. Conoscersi e farsi conoscere è tra le
cose più essenziali per vivere in pace con se stessi, tanto più se i modi della
scrittura coadiuvano una benvenuta empatia, imprescindibile in ogni
“comprendere”. Ha una volta scritto il grande storico Marc Bloch: “Una parola domina e illumina
i nostri studi: ‘comprendere’. Non diciamo che il buono storico è senza
passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo,
gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, carica di amicizia”.