di
Fulvio Papi
Credo
sia difficile ricordare ai più il 75° anno della Liberazione se,
nell’occasione, si ripete solo la linea fondamentale che ha dato il senso
storico della Resistenza come condizione etico-politica della Costituzione del
nostro paese. Certo un giudizio storico come questo ha sempre una parte
fondamentale di verità, perché viene confermato dalle istituzioni dello Stato,
dalle garanzie di libertà che appartengono ai cittadini, e, persino, alle
abitudini positive che costituiscono la nostra esperienza.
Tuttavia
non si deve nemmeno nascondere che queste dominanti certezze possono, col
tempo, essere evocate con una partecipazione un poco astratta, non sempre
capace di ri-vivere nel presente quella che è stata un’esperienza difficile e
ardua (“ne valeva la pena” diceva il mio indimenticabile amico Iso Aniasi) che
ha percorso una intera generazione.
Questa
condizione, in generale, dipende dal fatto che ogni età elabora le proprie
condizioni di senso e di memoria secondo la propria realtà sicché l’esperienza
passata conosce uno storico oblio, oppure una silente forma monumentalizzata
della memoria. In più noi viviamo (ed è cosa ben nota) in un tempo in cui il
dominio del mercato con le sue leggi e i suoi effetti, della comunicazione con
le sue conseguenze, dello spettacolo con i suoi compiacimenti, creano una sorta
di eterno presente.
Come
altre volte ho rilevato, questa condizione della vita sociale non è un “essere”
(per parlare filosoficamente) che si contempla nel suo specchio. Non è
difficile pensare il futuro, il nostro futuro, come cancellato o disastrato per
i fatali circuiti produzione-produzione, denaro-denaro, consumo-consumo, eppure
già ora si manifestano importanti incognite o, addirittura, opposizioni che
sono lo spazio aperto per una resistenza collettiva che è qualcosa in più
rispetto ai pur validi interventi tecnologici. Un filosofo può azzardare la
frase secondo cui la vita degli uomini ha cominciato a far crescere se stessa.
Anche, va aggiunto, quanto è più facile, per drammatico e pericoloso sia,
resistere a un nemico che è oggettivamente contro di noi, piuttosto che a un
male il quale, di fatto e senza volere, è entrato nelle nostre esistenze. Ma
qui è la realtà stessa che offre uno spirito di resistenza.
All’epoca
questa virtù (poiché è una virtù) ridisegnava la linea del futuro possibile
perché pensava e cercava di agire altrimenti: ora un’esperienza che riabilita
il valore del tempo, e riporta nella nostra vita il pregio della memoria come
risorsa morale. Così i tempi lontani e
diversi si saldano con l’attuale in una sorta di continuità educativa. Spesso
si parla di un nuovo umanesimo: è un parlare astratto se non si riesce a vivere
una continuità-discontinuità (passato e futuro) del nostro destino.
Torniamo
alla custodia della Resistenza nella sua specificità storica. La Resistenza ha
assunto organizzazioni, partecipazioni, linguaggi, tecniche operative, rapporti
politici e sociali differenti: le Langhe sono un mondo molto diverso dal ravennate,
la Maiella dalla Val Sesia, la Val d'Ossola dall’Oltre Po pavese e dalla
campagna emiliana, e così via. E pur tutte queste diversità si unificarono come
un’unica volontà: liberare il paese dall’oppressione nazifascista. Così noi
abbiamo molte e utilissime storie locali e, nel contempo, tentativi di
un’interpretazione della Resistenza nelle sue forme morali che animarono la
comune azione combattiva. Le storie “locali” sono un patrimonio importante per
chi desideri conoscere il passato della propria terra: la loro conservazione e
cura è un compito etico che deve essere continuato anche con la ricerca di
nuove testimonianze, senza alcun altro scopo che la verità.
La
storia nazionale credo continui a far capo allo studio imponente di Pavone (“non
ho mai dovuto uccidere nessuno”) che rappresentò (senza nulla togliere a
Battaglia o a Bocca) una sintesi tanto più efficace quanto meglio disegnò i
caratteri fondamentali della Resistenza: guerra patriottica, guerra civile,
guerra di classe. Ciascuno di questi caratteri aveva una sua moralità e una sua
storia. Per questo a me sembrerebbe interessante studiare bene come i padri
costituenti hanno a loro volta interpretato l’eredità dell’esperienza
resistenziale.
La
narrazione storica (che non ha più nessun problema tipico della nascita del
romanzo storico) può valersi di più forme espressive, ma certamente, nel suo
motivo di fondo, conduce ad una oggettività, ad un “essere accaduto” che nel
lettore può implicare una partecipazione intellettuale, ma difficilmente un
processo emotivo, sulla soglia di una immaginaria identificazione, come può
essere più comune con l’opera letteraria.
Qui
non importa discutere il tema del “realismo” resistenziale, celebre nella
critica. I grandi autori come Calvino, Fenoglio, Meneghello, Vittorini, credo
siano tutte occasioni per condurci in quella che, oltre la narrazione dei
fatti, è la rinascita della trama soggettiva, del vissuto dei personaggi che, nell’emergere
di un qualsiasi soggetto, valorizza la stessa vicenda oggettiva. È più facile
l’educazione emotiva attraverso un racconto letterario di quella, più
esteriore, contenuta in una ricostruzione storica. È proprio per questo che,
rinascendo nella scuola l’educazione civica, ho proposto, per quanto riguarda
il senso della Resistenza, la lettura e la rievocazione, nel commento
scolastico, della situazione colta di volta in volta nella sua soggettività. Probabilmente
la memoria assume un carattere emotivo, diviene non una nozione, ma una
conoscenza implicita in una morale. Se si è in grado di ricordare, si può anche
ritrovare un senso.
Allora
ero in una cittadina lacustre della zona Cusio-Ossola-Verbano. La brigata nera
era scomparsa il 24 aprile. Ma il nostro respiro fu breve poiché già nel
pomeriggio si seppe che sulla strada del Sempione si stavano ritirando tedeschi
e fascisti i quali, dall’ottobre precedente, avevano rioccupato Domodossola e
le valli circostanti. La colonna si fermò il 25 aprile sul nostro lungo lago. I
tedeschi avevano un ottimo armamento, quello di un esercito in guerra. Sarebbe
stato impossibile qualsiasi contrasto da parte dei partigiani, pochi e dotati
solo di armi leggere. I tedeschi sedevano come statue cinesi sui loro autocarri
e ai lati rialzati avevano legato, come Cristo in croce, i partigiani prigionieri
di modo che sarebbe stato impossibile colpirli.
Una
giovane donna, nell’assoluto deserto del lungo lago, dava da bere ai
prigionieri con una sorta di gavetta. Fino a che non partì una secca fucilata
che voleva dire “basta”. Ero a pochi passi perché all’adolescente era stato
dato un compito facilissimo, “roba da bambini”, con il solo pericolo dei
fascisti delle varie formazioni che si disperdevano nel paese urlando minacce e
insulti, intervallati da raffiche di mitra alle finestre. Se ne andarono sul
tardi.
Fu
il giorno dopo che il paese conobbe il dono della libertà. Una festa che viveva
di una entusiastica improvvisazione, un vociare comune tra un gruppo e l’altro,
famiglie con nonni e nipoti in una trionfale passeggiata, le ragazze che
rapivano i giovani partigiani come personaggi preziosi, qualche vecchia
bandiera socialista che, rara, appariva in qualche finestra, il lungo lago
illuminato come da cinque anni nessuno lo vedeva. Erano ore che un filosofo
avrebbe potuto capire come l’origine della libertà.
Certo
quel rito spontaneo durò un giorno o due. Poi, come diceva il discorso del
comandante dei partigiani, dalla libertà doveva nascere la giustizia. Ormai
filosofo molto vecchio vorrei poter fare dono di quel giorno della nascita
della libertà ai ragazzi che ora cercano il loro destino.