di Gabriella Galzio
Gabriella Galzio (Foto archivio Odissea) |
Cosa ci insegna la tragica esperienza del
coronavirus?
Come disse Resnais a proposito del
suo “Hiroshima mon amour”, anche noi oggi siamo posti dinanzi alla
“grande contraddizione (che) consiste nel fatto che abbiamo il dovere e la
volontà di ricordarci, ma siamo obbligati a dimenticare per vivere”. Anche noi,
oggi, di fronte a questa pandemia vorremmo dimenticare cosa accade là fuori per
vivere - fosse anche solo per godersi (per chi ce li ha) un terrazzo, un
giardino al sole per festeggiare la cosmica primavera; per scoprire persino che
passare la Pasqua su un balcone che affaccia in un cavedio, può rivelarsi il
prodigio di un merlo canoro che sovrasta il campanaro. Per non dire delle non
poche persone che mi hanno confessato di sentirsi liberate dall’eccesso di
estroversione fuori casa, e reintegrate nella quiete e nel benessere di stare
in casa. Riecheggia qui il monito lanciato da James Hillman a inizio millennio,
quando predisse che la globalizzazione avrebbe comportato una ulteriore
accelerazione degli aspetti Hermes della civiltà, e che se non avessimo recuperato
i lati Vesta avremmo vissuto un profondo disequilibrio. Se dunque l’istinto
vitale ci chiama ad apprezzare i paradossali benefici di questa reclusione, al
tempo stesso, però, non possiamo rimuovere il pensiero dei troppi deceduti, dei
tanti medici, infermieri e sanitari che rischiano la pelle o i tanti anziani
abbandonati nelle RSA o i tanti single che a Milano (1 su 3) si trovano a
sostenere il forzato isolamento in solitudine. Questo per parlare dell’oggi
sanitario, senza indagare le conseguenze economiche imponderabili di domani.
Ma nella ridda di impressioni e riflessioni che hanno costellato la vita di tutti, anche nel magma indistinto della mia mente alcune di queste si sono imposte più di altre. E volendo strutturare un pensiero, sono partita da una premessa di ordine temporale. La prospettiva che ci si pone di fronte potremmo considerarla di breve, medio e lungo periodo.
Ma nella ridda di impressioni e riflessioni che hanno costellato la vita di tutti, anche nel magma indistinto della mia mente alcune di queste si sono imposte più di altre. E volendo strutturare un pensiero, sono partita da una premessa di ordine temporale. La prospettiva che ci si pone di fronte potremmo considerarla di breve, medio e lungo periodo.
Nel breve siamo nell’emergenza e, se non siamo più bravi dei cinesi che ci hanno messo 5 mesi a venir fuori dall’emergenza, non prima di giugno (ipotesi peraltro ventilata anche dal Prof. Galli dell’Ospedale Sacco di Milano) potremo forse anche noi concludere questa fase di isolamento radicale.
Il punto è che usciti da questa emergenza, inizierà la fase della convivenza, quella con il virus. Perché forse una cosa non è stata abbastanza ribadita, e cioè che scampato il pericolo del collasso delle strutture sanitarie, rimane però sempre in agguato il pericolo 0, cioè il pericolo per la vita umana, perché questo è un virus che si è dimostrato ampiamente letale. Quindi convivere con il virus vuol dire comunque convivere con il rischio di morire. Il che significa che nel medio periodo saremo pur sempre costretti a stare isolati dietro un monitor, ad indossare le mascherine imbavagliati come prigionieri, ad attuare il distanziamento sociale, a fare la fila davanti a un mercato, a subire periodici, reiterati periodi di lock down. Non potremo ballare il tango nel suo caldo abrazo, non potremo prendere in braccio i nipotini, forse gli adolescenti rimarranno distanti dai loro primi amori, addio ai salotti letterari conviviali, alla gioia della festa e alla mania telestica… Insomma ridotti a una vita sacrificata, innaturale, sostanzialmente medicalizzata. Questo, almeno, fintanto che non si troverà un vaccino (e una volta trovato, ci vorrà un anno, un anno e mezzo perché sia a disposizione della popolazione, ma potremmo anche non trovarlo come è accaduto per l’HIV).
Ma proviamo ora a fare una proiezione di lungo periodo. Quello che potrebbe essere stato questo periodo di sacrifici, diciamo della durata di un anno e mezzo, non vorrei che venisse preso a pretesto dai colossi globalizzati della digitalizzazione per implementare una serie di spinte di fatto già in atto per permeare la nostra civiltà nel senso di una ulteriore virtualizzazione della nostra vita. Io spero che usciti da questo periodo difficile la gente tornerà, al contrario, a dare ancora maggior valore alla stretta di mano, all’abbraccio, al bacio, alla carezza. E che non si lascerà indurre in tentazione nel senso di pensare “Ah com’è bella la realtà virtuale!” (Gaber) L’abbiamo sperimentata, abbiamo la comoda spesa a domicilio, abbiamo lo smart working, abbiamo persino i salotti letterari on-line! “Com’è bella la realtà virtuale!” Ecco, io non vorrei che cadessimo in questa trappola, di scambiare uno strumento necessario in una congiuntura straordinaria per una soluzione strategica eretta a sistema in condizioni di normalità. Vorrei al contrario che avessimo capito che non è quella la direzione in cui spingere l’evoluzione della nostra civiltà, sempre più lontana dalla natura, ostile all’ambiente, sempre più verso la robotizzazione, la digitalizzazione, le radiazioni delle pervasive tecnologie 5G! Ché, al contrario, è necessario riavvicinarsi alla natura, fare scelte economiche ambientali, ritrovare la solidarietà tra umani e non solo, in una strategia di pacifica coesistenza (e non di sfruttamento) con gli animali, le piante, l’ambiente, il cosmo nel suo complesso.
Qualcuno potrebbe obiettare che certe tecnologie, lo smart working da casa ad esempio, potrebbero alleggerire il carico o l’alienazione del lavoro (anche se ho imparato a diffidare della parola smart, da quando è stata associata al lavoro flessibile e precarizzato). Ma qui veniamo al punto di un’ulteriore riflessione. Chi decide la riorganizzazione del lavoro? Ne abbiamo un esempio oggi, con il team diretto da Colao (ex AD di Vodafone) che, secondo le parole del Presidente del consiglio, dovrà “modificare le logiche dell’organizzazione del lavoro sin qui consolidate, di ripensare alcuni radicati modelli organizzativi di vita economica e sociale”. Chi decide - dall’alto - sono Docenti universitari, Ricercatori, Dirigenti d’azienda, Consulenti economici, Presidenti, Amministratori Delegati, certamente depositari di consolidate esperienze e competenze… ma i lavoratori? Dov’è la voce - dal basso - dei lavoratori? È solo un esempio, ma che ci fa capire una questione più generale. Come facciamo noi cittadini a incidere veramente dal basso sul processo decisionale, in modo tale da consentirci di tracciare gli assi strategici della nostra civiltà? In quest’epoca di pandemia ho molto riflettuto in realtà sulla inadeguatezza della politica, così come oggi è concepita, al fine di consentirci di prendere decisioni strategiche in merito al modello antropologico della nostra civiltà. Piuttosto si ha come la sensazione che le decisioni importanti, strategiche, vengano prese in un altrove, lontano dai contesti ufficiali della politica, e come se noi cittadini venissimo messi di fronte al fatto compiuto. Nessuno ci ha chiesto, per dirla con Hillman, quanto volessimo inseguire unilateralmente Hermes e quanto volessimo invece ristabilire un bilanciamento con l’intima quiete di Vesta; quanto volessimo spingerci nel tempo lineare e quanto avessimo bisogno di un radicamento nel tempo ciclico. E in questo la tecnologia l’ha fatta da padrona. Le reti 5G chi ci ha chiesto se le volevamo? Chi ci ha chiesto di piantarle sul nostro territorio? Eppure sono già tutte lì schierate dalla pianura padana alla dorsale appenninica fino a Palermo. Chi ci ha chiesto di vendere l’oro blu, l’acqua del nostro Sud Italia alla Francia? Chi ci chiede se vogliamo che la ricerca, soprattutto quella sanitaria e quella ad alto impatto bioetico, debba essere condotta da enti privati a scopo di profitto o non invece da enti pubblici per il bene collettivo (cfr. l’art. 32 della Costituzione sulla salute “fondamentale interesse della collettività”)? Chi ci interpella se non vogliamo invertire la rotta di un modello produttivo che sta aggravando inquinamento, buco dell’ozono, mutazione climatica, incrinando l’equilibrio ambientale e ingenerando uno scenario pandemico a ondate sempre più ravvicinate? E ancora chi ci chiede se non preferiremmo devolvere le spaventose voci di spesa militare in favore della sanità pubblica o del risanamento ambientale? E la “potenza di fuoco” tanto rimbalzata nei tg e nei talk show? Quasi si fossero fregiati - dal Presidente del Consiglio ai vari giornalisti - della simbologia della guerra per un inconscio bisogno di valore e di potenza! (Non certo i medici e gli infermieri che forse erano gli unici giustificati a parlare di un’emergenza di guerra, assediati com’erano dal continuo afflusso di ricoverati, intubati, moribondi come fossero stati al fronte!)
Ma il punto che dovrebbe far
riflettere è il seguente: perché il linguaggio della guerra, spesso gratuito, è
così ambito? Perché in esso si manifesta l’intima essenza di questa civiltà
patriarcale che si fonda sul dominio e sulla volontà di potenza, dei capi,
degli stati, della corsa agli armamenti…! È quello che vogliamo? Queste logiche
mortifere, queste grandi scelte strategiche (si pensi anche solo che Internet
nasce in ambiente militare) passano sopra la nostra testa. In buona sostanza la
politica dei partiti e della c.d. democrazia rappresentativa si è dimostrata
inadeguata a farci scegliere, a farci decidere in senso strategico dell’indirizzo
tecnologico, dell’indirizzo ambientale, per non parlare del modello economico o
sistema neoliberista fondato su una presunta crescita (di pochi a discapito dei
molti), modello che appare ancora oggi indiscusso quando Confindustria spinge
perché si riparta subito comunque (anche prematuramente, a dispetto dei morti e
del rischio di morte) più forti che pria. Ecco perché parlo di
inadeguatezza della politica, come se il cappotto della civiltà venisse
tagliato in altra sartoria, e alla politica ufficiale - e ai cittadini che ci
credono - lasciassero solo la scelta delle chiusure lampo o dei bottoni, di un
po’ più o un po’ meno di stato sociale, di qualche tassa in più o in meno.
Allora il problema che si pone è di quale nuova politica abbiamo bisogno, di quale
nuovo modello di partecipazione al processo decisionale abbiamo bisogno per
poter veramente imprimere un indirizzo strategico a un mondo che possa dirsi abitabile.
Io non lo so, ma è come se avessimo bisogno di una nuova Costituente, e in via
permanente, come se, a rinforzo degli istituti di democrazia diretta già in
essere (petizioni e referendum), cercassimo nuovi strumenti, istituti della
politica, per fare affiorare dal basso una nuova visione e nuove scelte di
valore (anziché vedercele calare dall’alto come da deus ex machina, come
se tutto il reale fosse razionale). Ecco, io vorrei che uscendo dalla pandemia
noi riuscissimo a mettere a fuoco questa grande esigenza: di metterci alla
ricerca di nuovi strumenti decisionali per una nuova politica realmente
partecipativa capace di immaginare da subito la civiltà nova che ci
attende.
[Milano, 12 aprile 2020]