di Farid Adly
Libano:
Il
premier libanese Diyab ha presentato le sue dimissioni, dopo le proteste
popolari e le dimissioni di 4 ministri e 11 deputati dai loro incarichi. Lo ha
fatto con dignità, sostenendo le rivendicazioni della piazza, ma mettendo con
dignità i punti sugli i: “Siamo qui a guidare il paese da pochi mesi, ma ci
siamo accorti che il sistema corrotto è uno Stato nello Stato. Siamo per la
punizione di chi ha sbagliato, per una vicenda che dura da 7 anni... Tra coloro
che hanno chiesto le nostre dimissioni ci sono politici che hanno governato per
molto più tempo di questo governo tecnico. Non c'è limite alla vergogna”. La
frecciata è rivolta senza nominarli all'ex premier Saad Hariri, ai ministri di
governi passati che siedono nelle istituzioni bancarie e finanziarie. Il
presidente Aoun lo ha incaricato degli affari correnti e inizierà le
consultazioni per una nuova nomina o elezioni anticipate. La crisi libanese è
complessa, perché il sistema politico è marcio e fondato non sulla
cittadinanza, ma sull'appartenenza alle confessioni. Una delle richieste delle
manifestazioni di piazza, che durano dello scorso 17 Ottobre, è proprio la fine
della spartizione confessionale della politica e delle poltrone. Una
rivendicazione che dura dai tempi della guerra civile durata dal 1975 al 1990.
Ma il sistema è riuscito, a causa dell'interferenza anche di fattori esterni, a
impedire il cambiamento. La strage del porto è dato il colpo di grazia al
sistema corrotto, ma probabilmente anche alle speranze di cambiamento e di
fronte al Libano si apre un periodo molto difficile pieno di incognite.
Il
paese è sulla bocca di un vulcano e rischia di finire nell'uragano degli
scontri regionali e internazionali: lo scontro tra l'Iran e Israele e Stati
Uniti, la lotta tra Turchia e Qatar da una parte e Arabia Saudita e Emirati
arabi uniti dall'altra. E anche qua non manca lo zampino della Turchia, che
sfida sul terreno delle influenze la Francia. Nel paese inoltre vivono circa
due milioni di profughi palestinesi e siriani, con il dramma dei loro paesi
dove, in uno c'è una guerra civile e l'altro è sottoposto ad un'occupazione
militare. La guerra tra Israele e Siria si gioca anche sul territorio libanese.
Il
Libano si è barcamenato finora in un equilibrio instabile, dichiarando la sua
neutralità. Una condizione impossibile in un mare di contraddizioni come lo è
il Vicino Oriente. Le pressioni politiche ed economiche messe in campo da
Washington e Riad nascono dalla volontà di escludere Hezbollah dal governo. Ma
senza questo movimento, non ci sarebbe una maggioranza in Parlamento. Hezbollah
è un partito e allo stesso tempo un movimento armato di resistenza contro
Israele ed è nel campo dell'Iran e del presidente siriano Bashar Assad. Suoi 4
aderenti sono accusati per l'assassinio dell'ex premier Rafiq Hariri e
processati in contumacia al Tribunale speciale dell'Aja, che doveva emettere la
sentenza lo scorso venerdì. In passato, le condizioni politiche hanno costretto
lo stesso Saad Hariri, figlio di Rafiq e capo del Partito Al Mustqbal (Futuro),
a presiedere un governo di coalizione con Hezbollah. Condizioni che adesso non
ci saranno più.
Durante
la conferenza dei paesi donatori, si è vista la debolezza del governo attuale,
che è stato escluso dal poter gestire gli aiuti internazionali, che andranno
direttamente alle organizzazioni non governative libanesi ed agli organismi
internazionali dell'ONU.
Le
variabili sono molte e il presidente francese Macron ha accennato ad una di
queste rivolgendosi al presidente USA Trump: “Le sanzioni rischiano di
complicare il quadro politico libanese, invece di risolverlo”. Le sanzioni
all'Iran, che toccano Hezbollah, intende. Per non far crollare il paese dei
cedri, Parigi indica un governo di unità nazionale, per una riforma
costituzionale.
Sarà
capace la società civile libanese, che ha condotto le lotte di piazza, in modo
civile e misurato, di proseguire su questo sentiero accidentato? Una riforma
costituzionale ha bisogno di un Parlamento non spartito tra le confessioni ed
una legge elettorale democratica: ogni testa un voto.
È
una lotta impari, che si svolge in condizioni molto più difficili in una
situazione economica disastrosa e un clima internazionale polarizzato, che non
lascia spazi di manovra.
Dalle
ceneri del porto, potrebbe nascere il nuovo Libano, ma non si vedono in campo
le forze per portarlo a termine.
Khaled Drareni |
Il
Tribunale di Algeri ha condannato a 3 anni di carcere il giornalista Drareni,
direttore di Casba Tribune e corrispondente di diverse testate internazionali.
L'accusa è “incitamento alle manifestazioni non armate e minaccia all'unità
nazionale”. Nessuna prova perché Drareni ha compiuto soltanto il suo lavoro di
giornalista, raccontando le manifestazioni del Hirak, il movimento popolare che
con manifestazioni pacifiche ed ordinate ha protestato contro la ricandidatura
dell'ex presidente Boutefliqa, costringendolo alle dimissioni.
Una
campagna internazionale di solidarietà non ha consigliato il potere algerino ad
un giudizio rispettoso della libertà di informazione. Il quotidiano Al Watan ha
scritto che “questa sentenza è un banco di prova per il potere politico.
Continuare nella linea di repressione del diritto di informare incatenerà il
paese alle sue condizioni pessime di prima e chiuderà la strada al
rinnovamento”. In Algeria, negli ultimi due mesi sono stati condannati altri
tre giornalisti, per aver compiuto il loro dovere di raccontare gli eventi e le
mobilitazioni popolari. Il paese nord-africano negli ultimi 5 anni è passato
dalla posizione 119a a 146 (su 180) nella lista di Reporters sans Frontières.
Kuwait:
Il
governo ha presentato al Parlamento il progetto per il non rinnovo dei permessi
di soggiorno a 520 mila lavoratori stranieri. 160 mila dei quali hanno
raggiunto l'età pensionabile. La manovra xenofoba viene motivata dalla
necessità di liberare posti di lavoro per la manodopera locale. La crisi dei
prezzi del petrolio e l'emergenza sanitaria Covid 19 hanno aumentato la
disoccupazione che ha colpito anche i quadri laureati kuwaitiani. Il piano
prevede l'espulsione di 100 mila persone entro la fine del 2020. In Kuwait, il
numero dei lavoratori stranieri è di 3,2 milioni contro 1,4 milioni di
cittadini autoctoni.
Iraq:
Un
attacco contro un convoglio di rifornimenti per le truppe USA, proveniente dal
Kuwait. Uno dei camion è saltato su una mina nei pressi dell'autostrada, vicino
al confine con l'emirato confinante. La strategia dei gruppi armati filo-
iraniani, annidati nelle stesse milizie governative Hashd Shaabi, hanno deciso
di adottare una nuova strategia per far pressioni continue contro la presenza
USA in territorio iracheno. Non più attacchi contro ambasciata e basi militari,
ma attacchi contro le forniture logistiche, militari e civili, dirette alle
truppe statunitensi. La scorsa settimana, le forze di sicurezza hanno fermato a
Nassiriya un camion carico di esplosivi.
Palestina:
La
famiglia di Ahmed Amarna vive in una grotta nel monte del villaggio di Fraseen,
nel nord della Cisgiordania occupata. Le autorità militari israeliane hanno
vietato alla famiglia di costruire una casa per abitarvi o ristrutturare la
casa di pietra dove vivevano e che sta cadendo a pezzi. Amarna per avere un
tetto sulla testa, è andato a vivere con la famiglia nella grotta che è situata
nel terreno di sua proprietà, ereditato dai genitori che lo avevano ereditato
dai nonni. Ha chiuso la grotta con un cancello di ferro e una porta di legno.
Ieri ha denunciato alla stampa internazionale che adesso autorità militari di
Tel Aviv gli hanno ordinato di demolire la grotta, altrimenti sarebbe
intervenuto l'esercito con i bulldozer. Nel villaggio abitano circa 200
palestinesi ed è sotto l'occupazione militare di Tel Aviv. A nessuno degli
abitanti è stata concessa la licenza edilizia per costruire una casa nuova o
ristrutturare quelle vecchie. Ci sono altre ordinanze di demolizione in questo
villaggio. La maggior parte delle famiglie vive in baracche di legno e lamiera.
Una situazione kafkiana, aggravata dall'autorizzazione ad un colono israeliano
di parcheggiare una sua roulotte, coltivare alberi e pascolare gli animali in
terreni di proprietà delle famiglie palestinesi.
Secondo
l'associazione israeliana B'tselem, nel mese di giugno, le autorità militari
israeliane hanno demolito 63 case in Cisgiordania, con il pretesto di mancate
licenze edilizie.
Grecia-Turchia:
Alta
tensione tra Atene e Ankara dopo l'avvio di quest'ultima delle ricerche
petrolifere nelle acque territoriali greche. Il primo ministro greco ha
convocato l'alto consiglio militare per discutere la situazione e dichiarare lo
stato d'emergenza. Il contenzioso non è nuovo. La Turchia aveva già spedito in
passato navi di ricerche, con l'appoggio di due fregate della Marina militare,
nella stessa zona, ma poi ha ritirate le proprie navi in seguito alla condanna
dell'Unione Europea e le minacce di sanzioni. Giovedì scorso, Atene e Il Cairo
hanno firmato un accordo per la designazione dei confini marittimi delle
rispettive zone di interesse economico. Erdogan ha annunciato venerdì, dopo la
preghiera a Santa Sofia, che riprenderanno le ricerche. I due paesi Nato hanno
avuto già in passato contenziosi di confini territoriali e marittimi, oltre
all'annosa questione di Cipro.